12 novembre 2015 10:52

“La musica non ha età, ti fa battere il cuore, ci aiuta a sognare e a ricordare che i sogni si possono realizzare a qualsiasi età, bisogna crederci”. Sono le uniche parole che pronuncia Cristina D’Avena, alla fine di un concerto durato più di due ore, al Piper, storico club romano, venerdì 6 novembre. Concerto sold out, millecinquecento persone dentro, duecento fuori perché non riescono a entrare.

Si comincia con Sailor moon e si finisce con Il mio nome è Jem, passando, ovviamente, per i Puffi, Mila e Shiro e L’incantevole Creamy. Due ore di sigle dei cartoni animati degli anni ottanta e novanta, quelle che hanno reso famosa Cristina D’Avena, le hanno fatto vendere milioni di dischi, l’hanno resa mitica.

Sul palco assieme a lei i Gem Boy, band rock demenziale celebre per aver riscritto, prendendole in giro, proprio le canzoni dei cartoni.

Ironizzano ma le centinaia di persone sotto il palco vogliono lei, Cristina, vogliono le canzoni originali, da cantare a squarciagola, braccia al cielo. Centinaia di ex bambini, trenta-quarantenni cresciuti con gli anime, ovvero i cartoni animati giapponesi. Alcuni hanno i cappelli dei Puffi, altri il mantello di Batman, altri il ciuffo fucsia come Mirko dei Bee Hive.

Quando la scorsa estate mi sono trovata per caso, a Cagliari, a un concerto di un gruppo che faceva cover dei cartoni animati, non riuscivo a credere che fosse pieno di gente entusiasta che cantava e ballava. Adulti, non bambini o ragazzini.

Così quando ho visto che Roma si riempiva di manifesti del concerto di Cristina D’Avena, la curiosità mi ha spinta ad andare a vederlo. Continuavo a chiedermi chi potesse andare a un concerto simile. Sapendo che lei è diventata un’icona del mondo omosessuale, magari il pubblico sarebbe stato quello, allegro e ironico, oppure saranno tutti degli sfigati, ho pensato.

Non si curano della politica o frequentano i centri sociali. Sono tutti riuniti per questo strano rito collettivo

Invece ho trovato un pubblico incredibilmente variegato, probabilmente molti di loro li avrei incontrati anche a un concerto dei Baustelle o dei Subsonica, di Jovanotti o di Carmen Consoli. Forse tutti un po’ se ne vergognavano, è stato difficile farmi dire per esempio che lavoro fanno e da dove arrivano, ma erano lì, a cantare e ballare.

Cristina D’Avena, il 6 novembre 2015. (Francesco Alesi)

“I vecchi cartoni animati giapponesi sono l’unica cultura condivisa della nostra generazione”, dice un personaggio di Vanni Santoni nel romanzo Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008). Sono medici, impiegati, commessi, insegnanti. Votano a destra, a sinistra, cinque stelle e Lega. Hanno la stessa età di Renzi e Salvini, Giorgia Meloni e Maria Elena Boschi. Non si curano della politica o frequentano i centri sociali. Sono tutti riuniti per questo strano rito collettivo, che unisce una generazione, o due, sotto le note di Holly e Benji.

Laureati, diplomati, trasferiti all’estero o con la casa costruita sul terreno dei genitori, tutti un pomeriggio abbiamo sofferto assieme a Conan e a Sampei, abbiamo riso con Hallo Spank e abbiamo sudato con Mimì Ayuara, quando in allenamento una macchina le sparava le palle addosso come cannonate, facendola cadere e piangere, ma mai desistere.

Tutti abbiamo giocato a “io sono l’Uomo Tigre e tu Jeeg Robot d’acciaio”, “io sono Annette e tu Lucien”. Negli appartamenti di città o nei cortili delle case di paese, a Vicenza come a Bari, a Guidonia come a Fordongianus, infanzie e adolescenze senza i grandi eventi e turbamenti di quelle precedenti, occorreva decidere se era più bello Abel o Artur, se Kenshiro era più o meno figo di Jigen.

Se siete nati tra il 1973 e il 1993 e vi capita di passare una serata con delle persone con cui non avete niente in comune, la conversazione langue e non sapete come uscirne, basta cominciare a parlare di anime giapponesi e tutto cambia: la discussione si farà animata, partiranno i “e Bum Bum il cagnolino?”, “e Pepero, te lo ricordi Pepero, che cercava Eldorado per trovare suo padre?”, e senza dubbio qualcuno si metterà a cantare.

Le serie di anime giapponesi furono adattate a un pubblico di bambini, attraverso una traduzione irrispettosa, delle vere e proprie riscritture e intere parti censurate

Centinaia di anime trasmessi ogni giorno per anni, come non è accaduto in nessun altro paese al mondo, e come non è più successo neanche in Italia, visto che i cambiamenti delle programmazioni televisive oggi la rendono irripetibile.

Una storia anomala, fatta di fraintendimenti e manipolazioni volute, recuperi e ristrutturazioni, e che ha prodotto una corposa bibliografia e innumerevoli siti web di appassionati.

Nel 1976 Rai 2 lancia Barbapapà, il primo cartone animato giapponese trasmesso in Italia, seguono nel 1977 Vicky il vichingo e nel 1978 Heidi e Ufo Robot.

Negli anni ottanta le reti private, come Junior Tv, comprarono tutte quelle serie, in Giappone già vecchie di una decina d’anni, perché costavano poco e riempivano il palinsesto e, appoggiandosi ai canali regionali, le trasmisero nelle nostre case mattina e pomeriggio.

Tra il pubblico, il 6 novembre 2015. (Francesco Alesi)

Negli anni ottanta e nei novanta la Fininvest continua questa operazione, con delle particolarità.

La più evidente, oggi, è il fatto che – incurante della tradizione dell’anime giapponese, che è un’arte al pari del cinema, con registi importanti e celebri (si pensi solo a Miyazaki e a Takahata) e come il cinema è pensata per target diversi – prese sia le serie per bambini sia quelle per adolescenti e le adattò a un pubblico di bambini, attraverso una traduzione irrispettosa, delle vere e proprie riscritture e intere parti censurate, come nel caso di Lady Oscar, tese a eliminare le allusioni erotiche presenti in alcuni.

Li rese ancora più uniformi proprio attraverso le sigle, cantate tutte dalla giovane Cristina D’Avena (quando incide la prima canzone, Pinocchio, ha 17 anni) e scritte da Alessandra Valeri Manera, responsabile della programmazione per ragazzi delle reti Fininvest e artefice delle manipolazioni.

Sono simpatici, normali, leggono libri e ascoltano musica. Eppure tengono teso il filo che li lega ancora all’infanzia

Cristina conserva la stessa voce di ragazzina e gli stessi boccoli castani, indossa una lunga e larga gonna nera e un corpetto rosa molto scollato sul seno prominente. Un gruppo di ragazzi che cantano Mazinga mi dice che in qualche modo fa parte del loro immaginario erotico, soprattutto grazie al telefilm di Kiss me Licia, primo telefilm per bambini prodotto in Italia, basato sull’omonimo cartone animato e interpretato, appunto, da Cristina D’Avena nel ruolo di Licia.

Anni di pomeriggi passati tra Lupin e Occhi di gatto, Ken il guerriero e Memole, hanno senza dubbio creato un immaginario collettivo, come dimostrano i molti studi antropologici e sociologici oramai presenti, fatto di avventure fantastiche, magia, amore, erotismo più o meno velato e senso del dovere.

Se in letteratura è difficile rintracciarli esplicitamente, emerge invece fortemente nelle opere di Zerocalcare, che attribuisce ai personaggi dei manga il ruolo di consiglieri, amici saggi a cui rivolgersi nei momenti di difficoltà, oppure li usa per rappresentare i personaggi dei suoi libri.

Li contrappone ai nuovi cartoni, quelli per i figli di quei bambini degli anni ottanta, quelli della generazione precaria, della sindrome di Peter Pan, che ancora si commuovono sulle note della Piccola Flo o di Georgie.

Il sogno in una canzone

Quando il concerto sta per finire, mentre io giro di qua e di là per guardarmi intorno, incontro un amico. “Cosa ci fai qui?”. Io ho la scusa dell’articolo, lui quella delle amiche che ci tenevano molto. Vengono da Ladispoli e li guardo cercando in loro delle tracce di follia, di sfiga, di infantilismo acuto. Ma non le trovo, sono simpatici, normali, leggono libri e ascoltano musica. Eppure tengono teso il filo che li lega ancora all’infanzia, ai quaderni con i compiti, l’astuccio con le penne e le matite, forse, penso, ai sogni, come dice Cristina prima di salutare e andare via.

Quei sogni che, a quell’età, ti permettevano di pensare che tutto era possibile, che potevi diventare un campione di pallavolo o di calcio, che potevi la sera, grazie a un braccialetto, trasformarti in una cantante bella e famosa, avere un folletto per amico o un cane che parla.

E anche se nel frattempo invece passi il tempo a mandare curriculum o a firmare contratti di tre mesi a settecento euro, se il bambino non ti fa dormire la notte o bambini non ne hai perché non te li puoi permettere, da qualche parte, forse, dentro di te, il sogno rimane, torna a vivere con una canzone.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it