02 maggio 2024 11:33

Sotto la minaccia di un’imminente invasione israeliana di Rafah, al Cairo hanno ripreso slancio i negoziati per raggiungere una tregua tra Israele e Hamas. Il 29 aprile nella capitale egiziana una delegazione del gruppo palestinese ha discusso con i rappresentanti di Egitto e Qatar, paesi mediatori insieme agli Stati Uniti, una proposta presentata da Israele che prevederebbe una tregua in cambio del rilascio degli ostaggi ancora nella Striscia di Gaza. Al momento la risposta sembra essere negativa, ma i colloqui vanno avanti.

Per promuovere un cessate il fuoco e favorire l’ingresso di più aiuti umanitari nel territorio palestinese il 29 aprile il segretario di stato statunitense Antony Blinken è arrivato in Arabia Saudita, la prima tappa del suo nuovo viaggio in Medio Oriente, che l’ha portato anche in Giordania e in Israele. Qui il primo ministro Benjamin Netanyahu continua a essere al centro delle critiche dell’opinione pubblica. La sera del 28 aprile migliaia di persone si sono nuovamente riunite a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi.

Oltre alle proteste interne, il governo israeliano è il bersaglio di una mobilitazione a favore di Gaza e dei palestinesi che si sta allargando dai campus statunitensi alle università europee fino ai paesi arabi. Nel prossimo numero di Internazionale, che esce online domani e in edicola il 3 maggio, un articolo del Washington Post spiega come gli studenti della Columbia university di New York hanno innescato una rivolta che si è diffusa in tutti gli Stati Uniti.

Negli ultimi mesi anche in diversi paesi arabi sono state organizzate manifestazioni di solidarietà con i palestinesi, che però non sono state gradite dai governi autoritari locali. Ne parla un articolo del New York Times che ricorda come “per decenni gli attivisti arabi hanno legato la battaglia per la giustizia per i palestinesi – una causa che unisce arabi di diverse convinzioni politiche da Marrakech a Baghdad – a quella per più diritti e libertà nel loro paese. Per loro Israele era un avatar delle forze autoritarie e colonialiste che avevano ostacolato la crescita delle proprie società”.

Così anche governi come quello egiziano da mesi impegnato a denunciare le violenze di Israele a Gaza e a cercare una via di uscita diplomatica al conflitto, che a ottobre aveva addirittura organizzato raduni filopalestinesi, ha deciso di reprimere qualunque manifestazione di solidarietà con il vicino territorio sotto attacco.

All’inizio di aprile le forze di sicurezza hanno disperso una manifestazione per Gaza al Cairo, arrestando quattordici persone, mentre il 23 aprile decine di femministe che protestavano fuori da un’ufficio dell’Onu a favore delle donne vittime dei conflitti in Sudan e nella Striscia di Gaza sono state attaccate da agenti in borghese e alcune di loro sono state arrestate e in seguito rilasciate. In Libano gli studenti si sono mobilitati il 30 aprile, scendendo in piazza a Beirut e in altre città del paese. Oltre a esprimere solidarietà con i palestinesi, i manifestanti chiedevano alle università di interrompere i contratti con aziende che hanno legami con Israele.

Secondo Amnesty international, in Giordania dall’inizio di ottobre sono state arrestate 1.500 persone nelle manifestazioni legate all’offensiva israeliana a Gaza, di cui cinquecento durante le grandi proteste organizzate davanti all’ambasciata israeliana di Amman a fine marzo. Molti manifestanti sono stati incriminati sulla base di una legge contro i reati informatici per aver pubblicato sui social network post in cui esprimevano sentimenti filopalestinesi e criticavano i rapporti delle autorità giordane con Israele.

I legami dei paesi della regione con Israele e con il suo alleato statunitense sono al centro di molte delle proteste che stanno attraversando i paesi arabi. Le autorità locali cercano di reprimerle sul nascere proprio per evitare che si allarghino e mettano a repentaglio la struttura di potere. È successo in Marocco, uno dei paesi che nel 2020 ha normalizzato i rapporti con Israele, dove decine di persone sono state arrestate per aver partecipato a raduni filopalestinesi o aver pubblicato online commenti critici nei confronti del riavvicinamento.

Fin dall’inizio dell’offensiva israeliana l’attenzione delle autorità è alta anche nei paesi del Golfo. Negli Emirati Arabi Uniti, che hanno normalizzato le relazioni con Israele, e in Arabia Saudita, che prima del conflitto stava discutendo di un possibile accordo, la morsa del potere è così stretta da non lasciare spazio al dissenso. Il Kuwait all’inizio ha tollerato qualche sit-in, ma ora le autorità sono in allerta. I regimi della regione ricordano bene che era comune vedere sventolare le bandiere palestinesi alle manifestazioni che hanno attraversato vari paesi durante la primavera araba del 2011. E sanno che l’attivismo per una causa può rapidamente diffondersi ad altre.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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