Il destino di Tkay Maidza, al secolo Takudzwa Victoria Rosa Maidza, era la musica. Dopo aver girato vari continenti e aver abbandonato la carriera da tennista, l’artista zimbabweana naturalizzata australiana ha sfruttato la sua rabbia giovanile per trovare l’ispirazione musicale quando era ancora studente. Appassionata di misticismo e nipote di una veggente, si è formata nei primi anni di Sound­Cloud, dove la buona musica era a portata di download, e ha cominciato a fare freestyle nella sua camera da letto sulle basi del famoso produttore statunitense Mike Dean. Nel 2014 ha pubblicato il suo primo mixtape, Switch tape, una pietra miliare nel cosiddetto mumble rap, il genere affermatosi proprio su Sound­cloud in quel periodo. Il suo album di debutto Tkay, pubblicato nel 2016, vantava la partecipazione di Killer Mike e combinava elementi di pop, edm d’avanguardia e rap hardcore. Sweet justice, uscito a novembre, ha segnato un’altra svolta per Tkay, sia psicologicamente sia musicalmente, anche grazie alle produzioni ipnotiche del canadese Kaytranada. “Per me la musica è un affare di famiglia”, racconta Tkay Maizda a Parigi, poco prima della sua esibizione al Pitchfork Festival. “Mio padre suonava in una band reggae in Sudafrica, e mio zio faceva parte di un’altra band chiamata Rudimentals. Un altro zio era una specie di Bob Marley dello Zimbabwe. Si chiamava Andy Brown. Era un guerriero della giustizia sociale”.
Christian Askin, PAM

Tkay Maidza (Dana Trippe)

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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati