Il 16 ottobre Sabrina Tavernise, conduttrice del podcast The daily del New York Times, ha parlato con due palestinesi nella Striscia di Gaza. Rivolgendosi ad Abdallah Hasanin, un abitante di Rafah, vicino al confine egiziano, che riusciva a prendere il segnale del telefono solo dal balcone, ha detto: “Abbiamo parlato degli attacchi aerei che ci sono stati da sabato scorso, e ovviamente l’altra cosa che è successa quel giorno è stato l’attacco micidiale di Hamas contro Israele. Come lo interpreti? Cos’hai pensato al riguardo?”.

“Non puoi mettere le persone in una prigione, privarle dei diritti fondamentali e pensare di cavartela senza conseguenze”, ha risposto Hasanin. “Non puoi disumanizzare le persone e non aspettarti nulla. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas. Ma quello che sta succedendo qui non c’entra niente con Hamas”.

Tavernise (con imbarazzo): “E di cosa si tratta?”.

Hasanin: “Si tratta di pulizia etnica ai danni del popolo palestinese, si tratta di 2,3 milioni di palestinesi. Ecco perché la prima cosa che ha fatto Israele è stata tagliare l’acqua, l’elettricità e i viveri. Quindi non si tratta, mai, di Hamas. Si tratta della nostra colpa di essere nati palestinesi”.

La seconda ospite di Tavernise era una donna di nome Wafa Elsaka, da poco tornata a Gaza dopo aver lavorato come insegnante in Florida per trentacinque anni. Elsaka è fuggita dalla casa della sua famiglia, dopo che Israele ha ordinato a 1,1 milioni di abitanti del nord della Striscia di andare verso sud, avvertendo di un’imminente invasione di terra. Decine di palestinesi sono stati uccisi nei bombardamenti mentre viaggiavano su strade che secondo Israele sarebbero state sicure. “Siamo sopravvissuti al 1948, e tutto quello che chiediamo è avere pace per crescere i nostri figli”, ha detto Elsaka. “Perché la storia si ripete? Cosa vogliono? Vogliono Gaza? Cosa faranno di noi? Cosa faranno delle persone? Voglio una risposta a queste domande, così sapremo. Vogliono gettarci in mare? Avanti, fatelo, non continuate a farci soffrire! Fatelo e basta. Prima dicevo che Gaza è una prigione a cielo aperto. Ora dico che è una tomba a cielo aperto. Pensi che le persone qui siano vive? Sono zombi”. Il giorno successivo Hasanin ha raccontato a Tavernise che lui e la sua famiglia erano rannicchiati tutti nella stessa stanza, in modo che potessero almeno morire insieme.

La situazione a Gaza ha raggiunto estremi indicibili negli ultimi giorni, ma non è una novità. Nel racconto del 1956 Lettera da Gaza, Ghassan Kanafani la descrive come “più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta”. Il protagonista del racconto, un insegnante che per anni ha lavorato in Kuwait, torna a casa dopo un bombardamento israeliano e vede che alla nipote è stata amputata una gamba: è rimasta ferita mentre cercava di proteggere i fratelli dalle bombe.

Nelle parole di Amira Hass, giornalista israeliana che per anni ha scritto reportage dalla Striscia, “Gaza incarna la contraddizione centrale dello stato di Israele: democrazia per alcuni, spoliazione per altri; è il nostro nervo scoperto”. Le autorità di occupazione l’hanno sempre trattata come una terra di frontiera, più simile al sud del Libano che alla Cisgiordania, dove le regole sono diverse, e più severe. Dopo la conquista di Gaza nel 1967 Ariel Sharon, all’epoca generale responsabile per il comando meridionale di Israele, ordinò l’uccisione senza processo di decine di palestinesi sospettati di aver partecipato alla resistenza e la demolizione di migliaia di case: fu chiamata “pacificazione”. Nel 2005 Sharon coordinò il “disimpegno”: Israele ritirò ottomila coloni dalla Striscia, ma il territorio rimase essenzialmente sotto il controllo israeliano, e da quando Hamas ha vinto le elezioni nel 2006 ha subìto un blocco, imposto con l’aiuto del governo egiziano. “Perché non abbandoniamo questa Gaza e fuggiamo?”, chiedeva il narratore di Kanafani nel 1956. Oggi queste riflessioni sarebbero fantasia. La popolazione della Striscia (non è corretto chiamarli gazawi, dato che due terzi di loro sono figli e nipoti di rifugiati provenienti da altre parti della Palestina) è di fatto prigioniera in un territorio che è stato amputato dal resto del paese. Potrebbero lasciarla solo se gli israeliani gli ordinassero di stabilirsi in un “corridoio umanitario” nel Sinai, qualora l’Egitto dovesse cedere alle pressioni statunitensi e aprire il confine.

Le ragioni del “diluvio di Al Aqsa”, come Hamas ha chiamato la sua offensiva, sono tutt’altro che misteriose: riaffermare l’importanza della lotta palestinese quando sembrava che la comunità internazionale se ne stesse disinteressando; ottenere il rilascio dei prigionieri politici; affossare il riavvicinamento israelo-saudita; umiliare ulteriormente l’impotente Autorità nazionale palestinese; protestare contro l’ondata di violenza dei coloni in Cisgiordania e contro le provocatorie visite dei fedeli ebrei e dei funzionari israeliani alla moschea Al Aqsa a Gerusalemme; e mandare agli israeliani il messaggio che non sono invincibili, che c’è un prezzo da pagare per mantenere lo status quo a Gaza. Ha ottenuto un orribile successo: per la prima volta dal 1948 sono stati i combattenti palestinesi, non i soldati israeliani, a occupare le città al confine e a terrorizzare i loro abitanti. Mai Israele è apparso un rifugio tanto precario per il popolo ebraico. Come ha detto Mahmoud Muna, proprietario di una libreria a Gerusalemme, l’attacco di Hamas ha avuto la capacità di “concentrare gli ultimi cento anni in una settimana”. Eppure il frantumarsi dello status quo, il colpo inflitto in una sorta di macabro contrappeso alla formidabile macchina da guerra israeliana, ha chiesto un prezzo enorme.

Nazario Graziano da foto Afp/Getty, Anadolu/Getty, Picture alliance/Getty

I miliziani di Hamas e della Jihad islamica hanno ucciso più di mille civili, tra cui donne, bambini e neonati. Non è chiaro perché Hamas non era soddisfatta dopo aver raggiunto gli obiettivi iniziali. La prima fase dell’attacco è stata la classica – e legittima – guerriglia contro un potere occupante: i miliziani hanno sfondato la recinzione di Gaza e hanno attaccato gli avamposti militari israeliani. Le prime immagini dell’assalto hanno suscitato una comprensibile euforia tra i palestinesi, così come l’uccisione di centinaia di soldati israeliani e la cattura degli ostaggi. In occidente pochi ricordano che quando i palestinesi della Striscia hanno protestato alla frontiera nel 2018-2019 durante la grande marcia del ritorno, le forze israeliane hanno ucciso 223 manifestanti. I palestinesi invece lo ricordano, e la strage di manifestanti disarmati ha aumentato l’attrattiva della lotta armata.

La seconda fase, però, è stata molto diversa. Affiancati da abitanti di Gaza, molti dei quali uscivano dalla Striscia per la prima volta nella loro vita, i miliziani di Hamas si sono dati a una frenetica carneficina. Hanno trasformato il festival israeliano Supernova in un sanguinoso baccanale, un altro Bataclan. Hanno braccato famiglie nelle loro case nei kibbutz. Hanno ucciso non solo ebrei, ma anche beduini e lavoratori immigrati (molte vittime erano ebrei noti per la loro attività di solidarietà con i palestinesi, in particolare Vivian Silver, un’israelo-canadese che ora è in ostaggio a Gaza). La meticolosità e la pazienza dei combattenti di Hamas sono state agghiaccianti.

Niente nella storia della resistenza armata palestinese a Israele si avvicina alla portata di questo massacro, non l’attentato del gruppo Settembre nero alle Olimpiadi di Monaco del 1972 né il massacro di Maalot compiuto dal Fronte democratico per la liberazione della Palestina nel 1974. Il 7 ottobre sono morti più israeliani che nei cinque anni della seconda intifada. Come spiegarlo? La rabbia alimentata dall’intensificarsi della repressione israeliana è senz’altro un motivo. Nell’ultimo anno più di duecento palestinesi sono stati uccisi dall’esercito e dai coloni israeliani; molti erano minorenni. Ma le radici della rabbia affondano più lontano delle politiche di destra del governo Netanyahu. Quello che è accaduto il 7 ottobre non è stata un’esplosione; è stato un atto compiuto con metodo. La sistematica uccisione di persone nelle loro case è stata una tragica imitazione del massacro di Sabra e Shatila commesso in Libano nel 1982 dai falangisti sostenuti da Israele. La pubblicazione dei video delle uccisioni sugli account dei social network delle vittime fa pensare che la vendetta fosse una delle motivazioni dei comandanti di Hamas: Mohammed Deif, il capo dell’ala militare del gruppo, ha perso la moglie e due figli in un attacco aereo nel 2014. Viene da pensare all’osservazione di Frantz Fanon secondo cui “il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore”. Il 7 ottobre questo sogno si è realizzato per coloro che hanno sconfinato nel sud di Israele: finalmente gli israeliani avrebbero sperimentato l’impotenza e il terrore che i palestinesi conoscono da tutta la vita. Lo spettacolo dell’esultanza palestinese è stato disturbante ma non certo sorprendente. Nelle guerre coloniali, scrive Fanon, “il bene è semplicemente quello che a ‘loro’ fa del male”.

Quello che ha fatto del male agli israeliani quasi quanto l’attacco stesso è stato il fatto che nessuno l’avesse previsto. Il governo israeliano aveva ricevuto un avvertimento generico dagli egiziani che la Striscia era irrequieta. Ma Netanyahu e i suoi collaboratori credevano di aver contenuto efficacemente Hamas. Quando di recente gli israeliani hanno spostato un numero consistente di soldati dal confine con la Striscia alla Cisgiordania, dove sono stati incaricati di proteggere i coloni che commettevano i pogrom nelle città palestinesi, si sono detti che non c’era da preoccuparsi: avevano i più raffinati sistemi di sorveglianza del mondo e vaste reti di informatori. La vera minaccia era l’Iran, non i palestinesi, a cui mancava la capacità – e la competenza – di lanciare un attacco di rilievo. Sono stati questa arroganza e il disprezzo razzista, alimentati da anni di occupazione e di apartheid, a causare il “fallimento dell’intelligence” del 7 ottobre.

Sono state proposte molte analogie per il diluvio di Al Aqsa: l’offensiva del Têt, Pearl Harbor, l’attacco dell’Egitto che nell’ottobre 1973 diede il via alla guerra del Kippur e, naturalmente, gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Ma l’analogia più suggestiva è un episodio cruciale, e in gran parte dimenticato, nella guerra d’indipendenza algerina: la rivolta di Philippeville dell’agosto 1955. Circondato dall’esercito francese, temendo di perdere terreno nei confronti dei politici musulmani riformisti che preferivano una soluzione negoziata, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) lanciò un terribile attacco nella città portuale di Philippeville. Contadini armati di granate, coltelli, mazze, asce e forconi uccisero – e in molti casi sventrarono – 123 persone, per lo più europei ma anche un certo numero di musulmani. Ai francesi quella violenza apparve ingiustificata, ma gli esecutori credevano di vendicare le decine di migliaia di musulmani uccisi dall’esercito francese con il sostegno delle milizie di coloni dopo le sommosse per l’indipendenza del 1945. In reazione a Philippeville il governatore generale francese, il liberale Jacques Soustelle, che gli europei in Algeria consideravano un inaffidabile “amante degli arabi”, lanciò una campagna di repressione in cui furono uccisi più di diecimila algerini. Reagendo in maniera sproporzionata, Soustelle cadde nella trappola dell’Fnl: la brutalità dell’esercito spinse gli algerini nelle braccia dei ribelli, proprio come la feroce reazione di Israele probabilmente rafforzerà Hamas almeno temporaneamente, anche tra i palestinesi della Striscia che non sopportano il suo potere autoritario. Soustelle ammise di aver contribuito a scavare “un fossato attraverso il quale è corso un fiume di sangue”.

Oggi a Gaza si sta scavando un fossato simile. Deciso a superare l’umiliazione inflitta da Hamas, l’esercito israeliano non si è comportato in modo diverso né più intelligente dei francesi in Algeria, dei britannici in Kenya o degli statunitensi dopo l’11 settembre. Il disprezzo di Israele per la vita dei palestinesi non è mai stato tanto spietato e plateale, ed è alimentato da un discorso che definire “genocida” sembra meno eccessivo che in passato. Solo nei primi sei giorni di attacchi aerei Israele ha sganciato più di seimila bombe, che hanno già ucciso il doppio dei civili morti il 7 ottobre. Queste atrocità non sono eccessi o “danni collaterali”: avvengono di proposito. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha detto che “stiamo combattendo contro animali umani e agiremo di conseguenza” (Fanon: “Il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico” e “si riferisce costantemente al bestiario”). Dopo l’attacco di Hamas la retorica dello sterminio dell’estrema destra israeliana ha raggiunto l’apice ed è diventata opinione comune. Un esponente del Likud, il partito di Netanyahu, ha dichiarato che l’obiettivo di Israele dovrebbe essere “una nakba che eclisserà quella del 1948”. “Davvero mi sta chiedendo dei civili palestinesi?”, ha detto l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett a un giornalista di Sky News. “Ma che problemi ha? Noi stiamo combattendo contro i nazisti”.

Nazario Graziano da foto Afp/Getty, Reuters/Contrasto

La “nazificazione” degli oppositori di Israele è una vecchia strategia, che mette al riparo le sue guerre e le sue politiche espansionistiche. Nel 1982 Menachem Begin disse che stava combattendo i nazisti nella sua guerra contro l’Organizzazione per la liberazione della Palestina in Libano. In un discorso del 2015 Netanyahu ha ipotizzato che i nazisti avrebbero deportato gli ebrei europei invece di sterminarli, se Haj Amin al Husseini, il mufti di Gerusalemme, non avesse messo in testa a Hitler l’idea della soluzione finale. Nella spudorata strumentalizzazione dell’olocausto e denigrando i palestinesi come peggiori dei nazisti, i leader israeliani “ridicolizzano il vero significato della tragedia ebraica”, osservò Isaac Deutscher dopo la guerra del 1967. Per giunta queste analogie contribuiscono a giustificare una brutalizzazione ancora peggiore ai danni del popolo palestinese.

Il sadismo dell’attacco di Hamas ha reso questa nazificazione molto più facile, ridestando le memorie collettive, tramandate di generazione in generazione, dei pogrom e dell’olocausto. Era inevitabile che gli ebrei, sia in Israele sia nella diaspora, cercassero spiegazioni alla loro sofferenza nella storia della violenza antisemita. Il trauma intergenerazionale è reale tanto tra gli ebrei quanto tra i palestinesi, e l’attacco di Hamas ha toccato il punto più debole della loro psiche: la paura dell’annientamento. Ma la memoria può anche accecare. Da molto tempo gli ebrei non sono più dei paria indifesi, gli “altri” dell’occidente. Lo stato che dichiara di parlare in loro nome ha uno degli eserciti più potenti del mondo e un arsenale nucleare, l’unico nella regione. Le atrocità del 7 ottobre potrebbero ricordare i pogrom, ma Israele non è l’equivalente di una zona di residenza (la regione dell’impero russo dove gli ebrei avevano il permesso di vivere).

Come ha osservato lo storico Enzo Traverso, il popolo ebraico “occupa oggi una posizione pressoché unica nelle memorie del mondo occidentale. Le sue sofferenze sono riconosciute e sono oggetto di tutela legale, come se gli ebrei dovessero sempre essere soggetti a una legislazione speciale”. Data la storia della persecuzione antisemita in Europa, la preoccupazione occidentale per la vita degli ebrei è comprensibile. Ma quella che Traverso chiama la “religione civile dell’olocausto” va a discapito dell’attenzione verso i musulmani e di qualsiasi sincera riflessione sulla questione della Palestina. “Quello che distingue Israele, gli Stati Uniti e altre democrazie quando si tratta di situazioni difficili come questa”, ha detto l’11 ottobre il segretario di stato americano Antony Blinken, “è il nostro rispetto per il diritto internazionale e, dove opportuno, per il diritto di guerra”. Nel frattempo Israele stava onorando il diritto internazionale spianando quartieri e uccidendo intere famiglie, un invito a ricordare che, come ha scritto Aimé Césaire, “la colonizzazione lavora per decivilizzare il colonizzatore, per abbrutirlo nel senso proprio del termine”.

Nei giorni successivi all’attacco di Hamas l’amministrazione Biden ha promosso politiche di trasferimento della popolazione che potrebbero produrre un’altra nakba. Per esempio, ha sostenuto il reinsediamento, temporaneo sulla carta, di milioni di palestinesi nel Sinai in modo che Israele possa continuare il suo attacco contro Hamas (il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha replicato che se Israele fosse davvero interessato al benessere dei profughi di Gaza li trasferirebbe nel Negev, dal lato israeliano del confine con l’Egitto). A sostegno del suo attacco Israele ha ricevuto ulteriori carichi di armi dagli Stati Uniti, che hanno anche mandato due portaerei nel Mediterraneo orientale, come avvertimento ai principali alleati regionali di Hamas, l’Iran e l’organizzazione libanese Hezbollah. Il 13 ottobre il dipartimento di stato ha diffuso una nota interna che esorta i funzionari a non usare espressioni come “cessate il fuoco”, “fine della violenza” e “riportare la calma”. Pochi giorni dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiedeva una “pausa umanitaria” a Gaza è stata prevedibilmente bloccata dal veto di Washington. Nel programma Face the nation della Cbs, Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, ha definito “successo” nella guerra “l’incolumità e la sicurezza a lungo termine dello stato e del popolo ebraico”, senza considerazione per l’incolumità e la continua apolidia del popolo palestinese. In uno straordinario lapsus, Sullivan ha praticamente appoggiato il diritto al ritorno palestinese: “Quando le persone lasciano la loro casa in un conflitto, meritano il diritto di tornarci. E questa situazione non è differente”. Forse, ma è improbabile, soprattutto se Hezbollah abbandonerà le cautele e si unirà alla battaglia, scenario che un’offensiva di terra israeliana rende più probabile. Il sostegno degli Stati Uniti all’escalation potrebbe avere un senso elettorale per Biden, ma porta con sé il rischio di provocare una guerra regionale.

Fino alla devastante esplosione all’ospedale Al Ahli del 17 ottobre – per la quale Netanyahu ha subito incolpato i “barbari terroristi di Gaza” – gli articoli dei principali giornali statunitensi per lo più suonavano come comunicati stampa dell’esercito israeliano. Le crepe che avevano cominciato a fare spazio alla realtà palestinese, a parole come “occupazione” e “apartheid”, sono svanite: prova forse di quanto piccole e fragili fossero state queste vittorie retoriche. Il New York Times ha pubblicato un editoriale in cui sosteneva che Hamas ha attaccato Israele “senza una provocazione immediata” e presentava un ossequioso profilo di un generale israeliano in pensione che “ha preso la sua pistola e ha affrontato Hamas”: il suo consiglio all’esercito era di “spianare il terreno” a Gaza. Ancora una volta il quotidiano israeliano Haaretz ha mostrato la vigliaccheria dei mezzi d’informazione statunitensi, accusando il governo di Netanyahu “che annette ed espropria” di aver causato la guerra. I tre conduttori musulmani di Msnbc hanno temporaneamente smesso di andare in onda, a quanto pare per riguardo alle sensibilità israeliane. Rashida Tlaib, deputata palestinese-statunitense di Detroit, è stata accusata di guidare una “lobby pro-Hamas” a causa delle sue critiche all’esercito israeliano. Ci sono stati crimini d’odio contro i musulmani, alimentati almeno in parte da un’ondata di islamofobia a livelli senza precedenti dai tempi della guerra al terrore. Tra le sue prime vittime c’è stato un bambino palestinese di sei anni a Chicago, Wadea al Fayoume, ucciso dal padrone di casa in una presunta ritorsione per il 7 ottobre.

In Europa esprimere sostegno per i palestinesi è diventato un tabù ed è stato criminalizzato. La Fiera del libro di Francoforte ha annullato la cerimonia di premiazione del romanzo Un dettaglio minore della scrittrice palestinese Adania Shibli, basato sulla storia vera di una ragazza beduina palestinese stuprata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949. La Francia ha vietato le manifestazioni a favore della Palestina, e la polizia francese ha usato i cannoni ad acqua per disperdere una mobilitazione a sostegno di Gaza. La ministra dell’interno britannica Suella Braverman ha avanzato l’ipotesi di vietare l’esposizione della bandiera palestinese. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato che la “responsabilità derivante dall’olocausto” obbliga la Germania a “battersi per l’esistenza e la sicurezza dello stato di Israele” e ha incolpato Hamas di tutte le sofferenze di Gaza. Uno dei pochi funzionari occidentali ad aver espresso orrore per quello che succede a Gaza è stato Dominique de Villepin, ex primo ministro francese. Su France Inter si è scagliato contro “l’amnesia” dell’occidente sulla Palestina, “l’oblio” che ha permesso agli europei di immaginare che gli accordi economici e la compravendita di armi tra Israele e i suoi nuovi amici arabi nel Golfo avrebbero fatto sparire la questione palestinese. Il 14 ottobre Ione Belarra, ministra spagnola per i diritti sociali ed esponente del partito di sinistra Podemos, ha accusato Israele di punizione collettiva genocida e ha chiesto che Netanyahu sia processato per crimini di guerra. Ma Tlaib, Villepin e Belarra sono in netta minoranza rispetto ai politici e ai commentatori occidentali che si sono schierati con Israele in quanto parte “civilizzata” nel conflitto, che esercita il suo “diritto di autodifesa” contro gli arabi barbari. Parlare di occupazione, delle radici del conflitto, è sempre più equiparato all’antisemitismo.

Gli ebrei “amici di Israele” potrebbero considerarlo un trionfo. Ma, come sottolinea Traverso, il sostegno acritico dell’occidente a Israele, e la sua identificazione con la sofferenza ebraica a scapito di quella dei palestinesi, finisce per far identificare gli ebrei con le classi dominanti. Peggio ancora, l’abbandono della neutralità sulla condotta di Israele espone gli ebrei della diaspora a un crescente rischio di violenza antisemita, sia di gruppi jihadisti sia di lupi solitari. La censura delle voci palestinesi lungi dal proteggere gli ebrei li farà sentire più in pericolo.

“Siamo sopravvissuti al 1948, e tutto quello che chiediamo è avere pace per crescere i nostri figli”, ha detto Elsaka. “Perché la storia si ripete? Cosa vogliono?”

Il sistema dei due pesi con cui è trattata la guerra nei mezzi d’informazione occidentali è speculare a quello nel mondo arabo e in gran parte del sud globale, dove il sostegno dell’occidente alla resistenza ucraina contro l’aggressione russa e il suo rifiuto di affrontare l’aggressione di Israele contro i palestinesi avevano già provocato accuse di ipocrisia (queste divisioni ricordano le fratture del 1956, quando il “mondo in via di sviluppo” si schierò con la lotta per l’autodeterminazione dell’Algeria, mentre i paesi occidentali appoggiavano la resistenza dell’Ungheria all’invasione sovietica). Nei paesi che hanno combattuto i regimi coloniali, la dominazione bianca e l’apartheid, la lotta palestinese per l’indipendenza in condizioni di grottesca asimmetria risuona con forza. E poi ci sono gli ammiratori di Hamas nella sinistra “decoloniale”, molti dei quali comodamente sistemati nelle università in occidente. Alcuni di questi sembrano quasi ammaliati dalla violenza di Hamas e la definiscono come una forma di giustizia anticoloniale del tipo propugnato da Fanon in Della violenza, il controverso primo capitolo di I dannati della terra. “Cosa pensavate che significasse la decolonizzazione?”, ha chiesto su X (ex Twitter) la scrittrice somalo-statunitense Najma Sharif. “Sentimenti? Articoli? Saggi? Perdenti”. “La decolonizzazione non è una metafora”, hanno intonato i fan del Diluvio di Al Aqsa. Altri hanno lasciato intendere che i giovani al festival Supernova abbiano meritato quello che gli è successo, per aver avuto la sfacciataggine di organizzare una festa a pochi chilometri dal confine con la Striscia di Gaza.

È vero che Fanon sosteneva la lotta armata contro il colonialismo, ma lui si riferiva all’uso della violenza da parte del colonizzato come “disintossicazione”, non “pulizia”, un errore di traduzione ampiamente diffuso. La sua interpretazione delle forme di violenza anticoloniale più sanguinarie era quella di uno psichiatra che diagnosticava una patologia vendicativa generata sotto l’oppressione coloniale piuttosto che dare una prescrizione. È naturale, scriveva Fanon, che “la persona a cui non si è mai smesso di dire che capiva solo il linguaggio della forza, decida di esprimersi con la forza”. Evocando l’esperienza fenomenologica dei combattenti anticoloniali, osservava che nelle fasi iniziali della rivolta “la vita può sorgere solo dal cadavere in decomposizione del colono”.

Ma Fanon ha anche scritto in modo struggente degli effetti dei traumi di guerra, compreso quello subìto dai ribelli anticoloniali che hanno ucciso civili. E in un passaggio avvertiva:

Il razzismo, l’odio, il risentimento, ‘il legittimo desiderio di vendetta’ non possono alimentare una guerra di liberazione. Quei lampi nella coscienza che gettano il corpo per strade tumultuose, che lo lanciano in un onirismo quasi patologico in cui la faccia dell’altro m’invita alla vertigine, in cui il mio sangue richiama il sangue dell’altro, […] quella grande passione delle prime ore si sfascia se intende nutrirsi della propria sostanza. È vero che le interminabili angherie delle forze colonialiste reintroducono gli elementi emozionali nella lotta, offrono al militante nuovi motivi di odio, nuove ragioni di andar alla ricerca del ‘colono da far fuori’. Ma il dirigente si rende conto giorno per giorno che l’odio non potrebbe costituire un programma.

Fanon riteneva che per organizzare un movimento efficace i combattenti avrebbero dovuto superare le tentazioni della vendetta primordiale e sviluppare quella che Martin Luther King, citando Reinhold Niebuhr, chiamava “disciplina spirituale contro il risentimento”. La visione della decolonizzazione di Fanon abbracciava non solo i musulmani colonizzati, che si liberano dal giogo dell’oppressione coloniale, ma anche gli esponenti delle minoranze europee e gli ebrei (anche loro in precedenza un gruppo “indigeno” in Algeria), purché si unissero alla lotta di liberazione. In Un colonialismo morente Fanon ha reso omaggio ai non musulmani in Algeria che, insieme ai loro compagni musulmani, hanno immaginato un futuro in cui l’identità e la cittadinanza algerina sarebbero state definite da ideali comuni, non dall’etnia o dalla fede. Il fatto che questa visione sia scomparsa, grazie alla violenza francese e al nazionalismo islamico autoritario dell’Fln, è una tragedia dalla quale l’Algeria non si è ancora ripresa. La distruzione di questa visione, sostenuta da intellettuali come Edward Said e da una piccola ma influente minoranza di militanti di sinistra israeliani e palestinesi, è stata non meno dannosa per il popolo di Israele-Palestina. Lo storico palestinese Yezid Sayigh mi ha scritto in una email:

Quello che mi riempie di angoscia è che ci troviamo a un punto cruciale nella storia del mondo. I profondi cambiamenti in atto da almeno due decenni, che hanno fatto sorgere movimenti (e governi) di destra e perfino fascisti, già si stavano accumulando, quindi io vedo il massacro di civili di Hamas come l’equivalente di Sarajevo nel 1914 o della notte dei cristalli del 1938 nell’accelerare o scatenare tendenze molto più ampie. Su una “scala minore”, sono infuriato con Hamas per aver sostanzialmente cancellato tutto quello per cui abbiamo combattuto per decenni, e inorridito da chi non è in grado di mantenere la facoltà critica di distinguere l’opposizione all’occupazione israeliana dai crimini di guerra, e da chi chiude un occhio su quello che ha compiuto Hamas nei kibbutz nel sud di Israele. Etnotribalismo.

Le fantasie etnotribaliste della sinistra “decoloniale” sono perverse. Come ha affermato lo scrittore palestinese Karim Kattan su Le Monde, sembra sia diventato impossibile per alcuni dei sedicenti amici della Palestina “dire: massacri come quello del festival Supernova sono un orrore inaudito, e Israele è una potenza coloniale feroce”. In un’epoca di sconfitta e smobilitazione, in cui le voci più estreme sono amplificate dai social network, il culto della forza sembra avere sopraffatto parti della sinistra, mandando in cortocircuito qualsiasi empatia per i civili israeliani.

Ma il culto della forza della sinistra radicale è meno pericoloso, perché ha effetti meno significativi, di quello di Israele e dei suoi sostenitori. Per Netanyahu la guerra è una lotta per la sopravvivenza, sua e di Israele. Generalmente ha preferito manovre tattiche, evitando offensive su vasta scala. Pur avendo guidato Israele in diversi attacchi contro Gaza, Netanyahu è anche l’artefice dell’intesa con Hamas, una posizione che ha giustificato nel 2019 in un incontro con gli esponenti del Likud al parlamento, in cui ha affermato: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento e il trasferimento di denaro a Hamas”. Netanyahu ha capito che finché il gruppo fosse stato al potere a Gaza non ci sarebbero stati negoziati sullo stato palestinese. L’offensiva di Hamas non solo ha infranto la sua scommessa sul fatto che il fragile equilibrio tra Israele e Gaza avrebbe tenuto; è arrivata in un momento in cui il primo ministro si stava difendendo contemporaneamente dalle accuse di corruzione e da un movimento di protesta scatenato dal suo progetto di erodere il potere della magistratura e ristrutturare il sistema politico sul modello del leader ungherese Viktor Orbán. Nel disperato tentativo di superare queste difficoltà si è lanciato nella guerra, definendola una “battaglia tra i figli della luce e i figli dell’oscurità, tra l’umanità e la legge della giungla”. I fascisti coloniali israeliani, rappresentati nel suo esecutivo da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, entrambi espliciti sostenitori della pulizia etnica, dopo l’attacco di Hamas hanno ucciso diversi palestinesi in Cisgiordania (contando anche quelli uccisi dall’esercito il bilancio è di più di 60 morti). I cittadini palestinesi di Israele temono attacchi simili a quelli commessi da gruppi di estremisti ebrei nel maggio 2021 durante l’intifada dell’unità. Quanto alla popolazione di Gaza, non solo è costretta a pagare per le azioni di Hamas, ma è costretta, ancora una volta, a pagare per i crimini di Hitler. E l’imperativo di invocare l’olocausto è diventato l’Iron dome ideologico di Israele, lo scudo contro qualunque critica alla sua condotta.

Qual è l’obiettivo di Netanyahu? Eliminare Hamas? È impossibile. Per quanto Israele si sforzi di dipingerla come il ramo palestinese del gruppo Stato islamico, e per quanto sia reazionaria e violenta, Hamas è un’organizzazione nazionalista islamica, non una setta nichilista, ed è parte della società politica palestinese; si nutre della disperazione prodotta dall’occupazione, e non può essere semplicemente liquidata, proprio come i fanatici fascisti nel governo di Netanyahu. Le uccisioni dei leader di Hamas non hanno ostacolato la crescente influenza dell’organizzazione, anzi l’hanno aiutata. Netanyahu immagina di poter costringere i palestinesi a rinunciare alle armi, o alla rivendicazione di uno stato, bombardandoli fino alla sottomissione? Non sarebbe il primo tentativo e il risultato è sempre stato una nuova e ancora più incattivita generazione di militanti palestinesi. Israele non è una tigre di carta, come hanno capito i leader di Hamas dopo il 7 ottobre, esultanti per aver ucciso soldati israeliani nei loro letti. Ma è sempre più incapace di cambiare rotta, perché alla sua classe politica mancano l’immaginazione e la creatività – oltre al senso di giustizia e il rispetto della dignità degli altri – necessarie per perseguire un accordo duraturo.

Un’amministrazione statunitense responsabile, meno soggetta alle ansie per le prossime elezioni e meno vincolata all’establishment filoisraeliano, avrebbe approfittato della crisi per esortare Israele a rivedere non solo la sua dottrina di sicurezza ma anche le sue politiche verso l’unica popolazione del mondo arabo con cui non ha mostrato interesse a stringere una vera pace: i palestinesi. Invece Biden e Blinken hanno fatto eco alle banalità di Israele sulla lotta contro il male, dimenticando opportunamente la responsabilità di Israele per l’impasse politica in cui si trova. La credibilità statunitense nella regione, mai stata molto forte, è ancora più debole che sotto Donald Trump. Il 18 ottobre Joshua Paul, che per più di undici anni è stato direttore degli affari pubblici e dei parlamentari presso l’ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento di stato, si è dimesso in polemica con i trasferimenti di armi a Israele. Un atteggiamento di “cieco sostegno a una sola parte”, ha scritto nella sua lettera di dimissioni, ha portato a politiche “miopi, distruttive, ingiuste e in contraddizione con i valori che sposiamo pubblicamente”. Non c’è da stupirsi che tra gli stati arabi gli unici ad aver criticato il Diluvio di Al Aqsa siano stati gli Emirati Arabi Uniti. I doppi standard statunitensi – e la spietatezza della reazione israeliana – l’hanno reso impossibile.

La verità è che Israele non può estinguere la resistenza palestinese con la violenza, così come i palestinesi non possono vincere una guerra di liberazione in stile algerino: gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi sono inestricabilmente legati gli uni agli altri, a meno che Israele, la parte di gran lunga più forte, non costringa una volta per tutte i palestinesi all’esilio. L’unica cosa che può salvare il popolo di Israele e Palestina e impedire un’altra nakba – una possibilità reale, mentre un altro olocausto resta una traumatica allucinazione – è una soluzione politica che riconosca entrambi come cittadini uguali e gli consenta di vivere in pace e libertà, in un unico stato democratico, in due stati o in una federazione. Diversamente possiamo aspettarci solo un continuo deteriorarsi della situazione e una catastrofe ancora più grande. ◆ fdl

Adam Shatz è un giornalista della London Review of Books. Ha collaborato anche con il New Yorker, la New York Review of Books e il New York Times Magazine. È stato corrispondente da Algeria, Palestina, Libano ed Egitto. Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo Vengeful pathologies.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati