Cultura Suoni
Hackney diamonds
The Rolling Stones (Mark Seliger)

Come ogni album dei Rolling Stones che è stato definito “il migliore dai tempi di Some girls del 1978”, Hackney diamonds si presenta con testi abbastanza imbarazzanti, riff di chitarra ambigui e autoplagi (come Keith Richards che suona Tumbling dice all’inizio di Driving me too hard) che lo tengono fuori dal pantheon delle loro più grandi uscite. Ma si distingue per uno stile genuinamente contemporaneo che gli Stones non riuscivano a incarnare con successo da quando avevano fatto incontrare il punk emergente con la disco alla fine degli anni settanta. La batteria frizzante, i ritornelli accattivanti e le voci peperine di questo album hanno una lucentezza pronta per la radio senza compromettere i tratti essenziali degli Stones. Il fatto che la band non sembri completamente fuori dal tempo – anzi, suona più energica di quanto non lo fosse da decenni – non è un’impresa da poco considerando che non pubblicavano un album di materiale originale da quasi vent’anni. Per quanto sia energico e orecchiabile, Hackney diamonds, suggerisce che gli Stones farebbero meglio ad abbracciare la loro età piuttosto che affermare la loro eterna giovinezza. L’album si chiude con una cover di Rolling stone blues, il classico di Muddy Waters del 1950 che ha dato il nome alla band. Registrato dal vivo con solo Richards alla chitarra e Jagger alla voce e all’armonica, è una performance spettrale e da brivido. Se la maggior parte di Hackney diamonds prova che gli Stones possono ancora essere rilevanti, questo brano finale dimostra che possono fare di meglio: essere senza tempo.
Jeremy Winograd, Slant

Lahai
Sampha (Jesse Crankston)

Sono passati più di sei anni da quando Sampha ha pubblicato Process, il disco vincitore del Mercury Prize che aveva messo il cantautore londinese al centro della scena musicale indie britannica. Process era un’esplorazione della mortalità, travolto dal dolore e dalla perdita della madre, e guidato da una cupa miscela di strumentazione acustica ed elettronica, il tutto contraddistinto dalla voce intensa di Sampha. L’atteso seguito, Lahai, sembra il prodotto di anni di meditazione ed esplorazione. Prende il nome dal nonno paterno del cantante, il cui nome è anche il secondo nome di Sampha, ed è uno studio intimo e personale sull’esistenza, il tempo, la scienza, la famiglia, l’amore e la spiritualità. Lahai estende la carriera di Sampha mettendo in mostra la sua ispirazione, la sua capacità di scrivere canzoni e, inevitabilmente, la sua anima.
Ben Jardine, Under the Radar

Swiss piano music: musiche di Honegger e Martin
Jérémie Conus, piano

Il giovane pianista svizzero Jérémie Conus non ha scelto una strada facile per il suo disco dedicato a opere rare ma interessanti di Arthur Honegger (1892-1955) e Frank Martin (1890-1974). La produzione pianistica di questi due compositori non è molto nota, ma permette di andare al cuore del loro lavoro. Nei pezzi di Honegger troviamo uno stile molto tedesco, soprattutto nella Toccata e variazioni. Nei Sette pezzi brevi, dei quali solo uno supera i due minuti, c’è una concisione molto francese e il secondo dei Tre pezzi è un omaggio a Ravel. Ma la scrittura rigorosa è chiaramente in debito con la tradizione tedesca. Il caso di Martin è diverso: il suo sguardo è più ampio, come sentiamo nella Fantasia su ritmi flamenco, ispirata dalle musiche dell’America Latina. Lo stile di base è classicamente tonale, ma arriva ad avvicinarsi alla dodecafonia viennese, cosa che gli dà un tono molto personale. Conus, che spiega di avere molto riflettuto sull’identità musicale del suo paese, riesce a trovare un ottimo equilibrio tra il rigore e lo charme. E rivela una personalità potente: svizzera ma mai neutrale.
Jacques Bonnaure, Diapason

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1535 - 27 ottobre 2023
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