Una coltre di vapore bianco offusca la sagoma di Alessandro Santi mentre si china su una pozza gorgogliante di liquido grigiastro, a Pozzuoli, un comune nell’area urbana di Napoli. Circondato dalla densa nube sulfurea, il tecnico, sulla trentina, immerge un palo lungo poco meno di due metri, sulla cui estremità è attaccato un bicchiere di plastica. Dopo aver raccolto un campione d’acqua a 80 gradi centigradi, Santi si volta e la versa con cura in un contenitore di vetro. Sotto i suoi piedi c’è uno dei più pericolosi vulcani quiescenti del mondo. Tutti conoscono il vicino Vesuvio, che nel 79 dC distrusse la città di Pompei. Ma sono in pochi a conoscere questa minaccia sotterranea.

Santi sta conducendo alcune ricerche su una caldera vulcanica (una cavità circolare) che misura fino a 15 chilometri di diametro, creata da un vulcano esploso e poi collassato. La caldera, conosciuta con il nome di Campi Flegrei, fa parte di una catena di vulcani sotterranei e sommersi lungo la costa italiana.

Le ultime due grandi eruzioni dei vulcani flegrei sono avvenute circa quarantamila e quindicimila anni fa, distruggendo la maggior parte delle forme di vita della regione. Le ceneri prodotte dall’esplosione sono arrivate fino in Russia. Oggi gli scienziati temono le conseguenze di un’altra eruzione, in una zona dal terreno instabile dove vivono più di cinquecentomila persone e dove sono state costruite case, vigneti, scuole e strade.

Negli ultimi diciotto anni il livello del suolo a Pozzuoli si è innalzato di circa un metro, e non è raro che i residenti si sveglino nel cuore della notte a causa di improvvisi rumori e vibrazioni provenienti dalle viscere della Terra. La frequenza dei terremoti è aumentata, tanto che nel 2012 la protezione civile italiana, incaricata di prevenire e gestire le emergenze nel paese, ha alzato il livello di allerta portandolo da verde a giallo. La decisione ha evidenziato la necessità di dedicare più risorse e attenzione al monitoraggio della caldera.

Gli scienziati sanno che sottoterra sta succedendo qualcosa, ma non sono sicuri di cosa. “Il problema è che non possiamo scendere giù e verificare”, spiega Santi. I ricercatori si limitano a raccogliere campioni e a misurare ciò che è alla loro portata, come l’acqua delle pozze e i gas delle fumarole. I campioni contengono tracce di anidride carbonica, metano, acido cloridrico e altre sostanze chimiche che hanno origine molto più in profondità rispetto al fondo della pozza fangosa. I cambiamenti nei livelli di questi composti possono segnalare un pericolo imminente, come l’affioramento del magma.

Piano di evacuazione

La raccolta di campioni d’acqua fa parte di una routine condotta dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Napoli (conosciuto come “osservatorio vesuviano”), che usa complessi sistemi di monitoraggio sismico e tecnologie all’avanguardia per controllare i vulcani. Attraverso decine di siti di rilevazione sul terreno e sottomarini, l’osservatorio sorveglia la caldera nel caso in cui si debba avvertire la protezione civile, che ha previsto un piano per un’evacuazione di massa se la situazione dovesse precipitare.

Con ogni probabilità l’efficacia di questa operazione d’emergenza dipenderà dalla disponibilità dei residenti a eseguire gli ordini delle autorità. “La collaborazione tra tutti questi soggetti è cruciale sia nella pianificazione sia nella gestione delle crisi”, spiega Rosella Nave, ricercatrice dell’osservatorio vesuviano. Secondo diversi studi, molte delle persone che vivono sopra la caldera non la considerano una minaccia significativa. Al contrario, le generazioni più anziane ricordano ancora gli errori commessi nelle evacuazioni del passato, che hanno causato consistenti danni economici alla comunità locale. C’è anche chi è preoccupato, ma non si fida della capacità della protezione civile di affrontare efficacemente un’emergenza. Alcuni abitanti della zona hanno reagito a piccole scosse di terremoto in un modo che comprometterebbe l’esecuzione di un piano di evacuazione preordinato, spiega Anna Peluso, residente di Pozzuoli che amministra un gruppo Face­book in cui si discutono il monitoraggio del vulcano e i piani di emergenza.

Secondo gli scienziati è improbabile che in tempi brevi si verifichi una grande esplosione, ma piccole eruzioni non sarebbero una sorpresa. Negli ultimi 5.500 anni, infatti, ce ne sono state ventitré. E dato che oggi il golfo è densamente popolato, ne potrebbe bastare una piccola per creare una catastrofe.

La penisola italiana si trova sopra al confine tra la placca eurasiatica e quella africana. Passando sotto la placca eurasiatica, quella africana ne assottiglia alcune parti, come fosse un impasto per la pizza. Secondo Mauro Di Vito, vulcanologo e direttore dell’osservatorio vesuviano, questo complesso movimento rifornisce di magma fresco – roccia fusa sotto la superficie della Terra – i dodici vulcani attivi in Italia (il magma che affiora sulla superficie terrestre viene definito lava).

Fin dai tempi degli antichi romani i Campi Flegrei hanno vissuto periodi caratterizzati dal cosiddetto bradisismo, ovvero il sollevamento o l’abbassamento della superficie terrestre. Il termine deriva dalla combinazione tra due parole greche che significano “lento” e “movimento”. Eppure, dato che nella zona non ci sono i rilievi montuosi, pochi sospettavano la presenza di un vulcano attivo. Le cose sono cambiate negli anni cinquanta, quando uno scienziato svizzero che lavorava in Italia ha ipotizzato che i Campi Flegrei facessero parte di una caldera.

Nei decenni successivi i geofisici hanno cominciato a monitorare l’area. Nel 2008 una squadra di ricercatori ha identificato un abbondante bacino magmatico a circa otto chilometri di profondità sotto il centro abitato di Pozzuoli, oltre a sacche più piccole di magma situate un po’ più in alto nella crosta terrestre, spiega Di Vito. Il calore e i gas provenienti dal bacino sotterraneo generano una pressione che spacca la roccia sovrastante. Se le spaccature si verificano a circa tre chilometri dalla superficie terrestre, gli esseri umani percepiscono questo movimento come un terremoto.

All’interno della comunità dei vulcanologi esistono varie scuole di pensiero in merito al futuro dei Campi Flegrei. Alcuni ritengono che le scosse attuali e il sollevamento del suolo derivino unicamente dal rilascio di gas nel bacino magmatico e nel sistema idrotermale della zona. Secondo questa teoria è possibile che il suolo torni ad abbassarsi e i terremoti diventino meno frequenti. Ma altri sono convinti che il movimento del magma degli ultimi decenni abbia indebolito la crosta terreste, rendendo una frattura più probabile di quanto si pensasse in precedenza. Nello scenario in cui il magma dovesse raggiungere la superficie e ci fosse un’eruzione, questa potrebbe provocare la distruzione dei cinque centri abitati e della zona di Napoli che si trova sopra la caldera.

Metodo da definire

Questa divergenza di opinioni nasce da un problema fondamentale della vulcanologia: gli scienziati non hanno ancora sviluppato un metodo per prevedere con precisione le eruzioni. Anche se la presenza di gas magmatici nelle fumarole della caldera potrebbe segnalare un’eruzione imminente, non esiste un modo per prevederla con un anno o diversi mesi di anticipo.

Nel 2017 Christopher Kilburn, professore di vulcanologia dello University college di Londra, ha pubblicato con gli scienziati dell’osservatorio vesuviano uno studio sulla rivista scientifica Nature Communications che ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione italiani. Mentre in passato si pensava che le fasi di sollevamento relativamente rapido del suolo nella regione di Napoli fossero seguite da un rilassamento della crosta terrestre, lo studio suggerisce che la crosta stia accumulando stress. “È possibile che ogni episodio di attività e sollevamento ci avvicini a una frattura della crosta”, ha spiegato Kilburn a Undark.

Nel giugno scorso Kilburn e i suoi colleghi hanno pubblicato un aggiornamento dello studio in cui si legge che attorno al 2020 la dinamica dei terremoti provocati dal vulcano è cambiata. Questo ha spinto gli scienziati a concludere che la crosta terrestre si stia indebolendo con il passare del tempo e diventi sempre più incline alla frattura. Secondo Kilburn, i segnali di un’imminente eruzione possono essere molto discreti.

È quello che è successo nella caldera di Rabaul, in Papua Nuova Guinea, dove un paio d’anni di intensa attività sismica sono stati seguiti da dieci anni di relativa calma. Poi improvvisamente, nel settembre 1994 e dopo appena 27 ore di attività, il vulcano ha eruttato, distruggendo la città di Rabaul. Anche se non esiste alcun modo per affermare che lo stesso accadrà nei Campi Flegrei, le ricerche di Kilburn indicano che la crosta terrestre potrebbe spaccarsi anche in assenza di un forte aumento della pressione. Si tratta di un elemento da tenere in considerazione per i piani di evacuazione.

In Italia i disastri del passato hanno prodotto processi penali a carico di scienziati e politici che avevano cercato di garantire la sicurezza della popolazione. Dopo il terremoto del 2009 nell’Italia centrale, che ha provocato 309 vittime, sette esperti sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo con l’accusa di aver condotto un’analisi superficiale del rischio e di aver diffuso false rassicurazioni. Gli imputati sono stati condannati a sei anni di carcere, anche se in seguito sono stati tutti assolti, tranne uno.

Quando gli chiediamo un’opinione su quella causa, Di Vito sottolinea che i terremoti non possono essere previsti con la stessa precisione delle eruzioni di un vulcano ben monitorato, e che nella valutazione del rischio in un sito vulcanico sono coinvolti molti politici e funzionari. “In caso di emergenza in un’area vulcanica la situazione è abbastanza diversa”. Tuttavia il vulcanologo aggiunge che il terremoto del 2009 è stato “una lezione per la protezione civile e per gli scienziati”.

L’osservatorio vesuviano di Napoli, giugno 2015  (Giuseppe Carotenuto)

Il rione Terra

Nel 1970 la giornalista Eleonora Puntillo notò qualcosa di strano nel porto di Pozzuoli. Quando le persone scendevano dai traghetti dovevano salire per raggiungere il molo, mentre in passato dovevano scendere. “O il mare si era abbassato o la terra si era alzata”, racconta Puntillo, che oggi ha 84 anni. Nel 1970 parlando con gli abitanti del posto riuscì ad avere la conferma che il suolo si era effettivamente alzato danneggiando diversi edifici, ma sorprendentemente gli scienziati non stavano facendo molto per individuare la probabile causa di quel bradisismo, cioè la caldera, parte della quale si estende fin sotto il porto. Puntillo sapeva che nel 1538 il vulcano del Monte Nuovo aveva eruttato scagliando ceneri e magma a pochi chilometri dal centro di Pozzuoli. All’epoca il suolo si era sollevato, accompagnato da una serie di spaventosi terremoti. Puntillo mise insieme gli indizi e pubblicò un articolo intitolato Il mare si ritira, bolle il vulcano, ricordando alla comunità locale che un fenomeno simile si era già verificato nella stessa regione cinque secoli prima.

“Vorrei non averlo mai fatto”, ammette oggi, ricordando le orde di giornalisti che si sono precipitati a Pozzuoli per chiederle dove sarebbe saltato fuori il prossimo vulcano. Molti scrissero articoli allarmistici che provocarono il panico tra la popolazione. Pochi giorni dopo, i residenti del rione Terra, dove era avvenuto gran parte del sollevamento, la mattina si svegliarono e scoprirono che nella zona erano arrivati centinaia di soldati con il compito di sgomberare l’area. Ci furono scene drammatiche: sfratti forzati, madri che trascinavano materassi e bambini in lacrime. Il panico si diffuse nel resto della città, spingendo anche gli abitanti degli altri rioni a fuggire.

Secondo il New York Times almeno trentamila persone lasciarono Pozzuoli. “Ho ancora i brividi all’idea di quella fuga spaventosa”, racconta Puntillo. Secondo la giornalista non c’era nessun bisogno che il governo usasse la forza. Il sollevamento del terreno proseguì per altri due anni, ma il vulcano non eruttò. I residenti del rione Terra non ebbero mai la possibilità di tornare nelle loro case e furono trasferiti stabilmente in un altro quartiere, che si trovava comunque sopra la caldera.

Oggi gli abitanti di Pozzuoli conservano un ricordo generazionale fatto di case, attività commerciali e mezzi di sussistenza persi, non a causa di un vulcano che lancia pietre nel cielo ma dello stato italiano che li ha trasferiti contro la loro volontà. “Abbiamo il bradisismo nel sangue”, conferma Giuseppe Minieri, 53 anni, proprietario del ristorante A’ Scalinatella. “Siamo nati qui”.

Nel fatiscente rione Toiano, il pittore Antonio Isabettini, che ha ritratto i Campi Flegrei da molte angolazioni, è seduto nel terrazzo della casa consegnata dallo stato ai suoi genitori negli anni settanta, dopo che avevano lasciato il rione Terra (già prima dell’evacuazione avevano valutato la possibilità di partire). Punta il dito verso il suolo. “Sto su questa pianura che in realtà è un vulcano. Cosa dovrei fare? Andare via?”. Prima di trasferirsi qui, Isabettini ha vissuto per quindici anni in un appartamento al confine della solfatara, un cratere vulcanico che emette costantemente vapore e fumi sulfurei. “Conviviamo con questa realtà. Sappiamo che è una terra ballerina e sappiamo che laggiù c’è una camera magmatica”, dice. Ma se l’intera caldera dovesse eruttare, come fece millenni fa, gli effetti sarebbero catastrofici.

Telefonate preoccupate

Al terzo piano della sede dell’Osservatorio vesuviano, Mario Castellano, direttore tecnico del centro di controllo, è in piedi davanti a decine di schermi che mostrano dati in arrivo da più di sessanta stazioni di rilevamento nei Campi Flegrei. La notte prima è stato registrato un terremoto di magnitudo 2,8. “Se si verifica un forte sisma, avvisiamo subito la protezione civile”, spiega. Negli ultimi diciassette anni ha notato un aumento costante nella frequenza e nell’intensità dei terremoti.

Oltre a usare i sismometri per registrare le scosse, gli scienziati dell’osservatorio si affidano alle stazioni terrestri e marine per rilevare quelle che sono definite deformazioni del suolo, ovvero i punti in cui il terreno si solleva o abbassa a causa della pressione creata dai gas sotterranei o dal magma. Inoltre degli strumenti chiamati clinometri misurano le impercettibili variazioni nella pendenza. Questo flusso costante di dati è fondamentale per rilevare tempestivamente il movimento ascendente del magma, spiega Prospero De Martino, lo scienziato che si occupa di monitorare le deformazioni del suolo.

De Martino ha notato un incremento nella rapidità di sollevamento, ma gli scienziati non ne hanno ancora accertato la causa. Sono i gas? Il magma? In ogni caso un cambiamento così consistente nella superficie terrestre lo preoccupa.

I ricercatori mettono insieme i dati di monitoraggio in un bollettino diffuso ogni martedì sul sito dell’osservatorio e sui social network, in modo che tutti possano essere informati sullo stato del vulcano. Ogni tanto l’osservatorio riceve telefonate da persone preoccupate che chiedono come e quando dovranno lasciare la zona, informazioni che solo la protezione civile può dare, non gli scienziati.

Tra le persone che vivono nella caldera la percezione della minaccia dei Campi Flegrei è cambiata nel corso del tempo. In un sondaggio del 2006 la maggior parte degli intervistati considerava un’eruzione del Vesuvio come un pericolo nonostante il fatto che gli scienziati la ritengano estremamente improbabile. Le stesse persone non erano a conoscenza del vulcano che c’era sotto i loro piedi. Inoltre avevano detto di avere poca fiducia che l’autorità locale potesse gestire un’emergenza vulcanica.

Il sondaggio ha spinto l’osservatorio e i comuni della zona ad avviare una campagna per sensibilizzare di più gli abitanti sull’esistenza della caldera. Gli esperti hanno parlato agli studenti, negli uffici pubblici e nelle piazze. Nel 2019 Rossella Nave e la sua squadra hanno fatto un secondo sondaggio per verificare se la percezione del rischio vulcanico fosse cambiata. Lo studio non è stato ancora pubblicato, ma i risultati preliminari indicano che per il 37 per cento dei residenti il Vesuvio rappresenta ancora la minaccia principale (nel 2006 la percentuale era del 70 per cento), mentre il livello di fiducia nella risposta delle istituzioni resta minimo.

Inoltre il sondaggio ha rilevato che la maggior parte dei residenti non considera il vulcano come uno dei sette problemi più gravi per la comunità. Ma il 60 per cento degli intervistati riconosce che i Campi Flegrei sono il vulcano più minaccioso, e rispetto al 2006 è aumentato il numero di persone informate sui piani d’emergenza. “La consapevolezza dei residenti del pericolo vulcanico è maggiore”, ha scritto Nave in un’email a Undark.

Forse, paradossalmente, oggi alcuni abitanti credono che la caldera possa esplodere senza preavviso, uno scenario che nessuno scienziato ha ipotizzato. Alcuni ricercatori non sono sorpresi da questa reazione. Secondo Francesco Santoianni, che ha lavorato per quarant’anni nella protezione civile, la percezione del panico “è istituzionalizzata dai piani d’emergenza”, ed “è criminale” che le esercitazioni di evacuazione si svolgono “come se l’unica soluzione fosse fuggire il più lontano possibile e rapidamente”. Santoianni ricorda un’esercitazione in cui i volontari hanno mostrato ai residenti come scappare uscendo dalle finestre.

Antonio Ricciardi, geologo che monitora i Campi Flegrei e altri vulcani dalla sede romana della protezione civile, spiega che la presidente del consiglio italiana, su indicazione dalla commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi e della protezione civile, emanerebbe il cosiddetto preallarme solo se la situazione fosse drammatica: migliaia di scosse al giorno, una significativa deformazione e inclinazione del terreno, un’abbondanza di gas carichi di anidride carbonica e anidride solforosa (segno che il magma sta per affiorare), crepe nell’asfalto e tubature spaccate. In queste circostanze il governo ordinerebbe di evacuare gli ospedali e le carceri, mentre il patrimonio culturale sarebbe trasferito o protetto per assorbire l’impatto del calore. In uno scenario simile è probabile che molti residenti deciderebbero di partire spaventati dalla confusione. Se le cose dovessero peggiorare ulteriormente, scatterebbe la piena emergenza, chiamata “fase di allarme”.

Domande senza risposta

Ci vorrebbero settantadue ore per allontanare le cinquecentomila persone che vivono nella zona più pericolosa, spiega Antonella Scalzo, geologa della protezione civile che si occupa di pianificare la gestione delle emergenze nei Campi Flegrei. L’obiettivo dell’evacuazione, aggiunge, è quello di assicurarsi che non ci sia più nessuno quando erutta il vulcano. Chiunque dovesse restare nella zona, infatti, potrebbe essere travolto da un violento fiume di gas e materiale vulcanico creato dall’eruzione e capace di spostarsi a velocità di centinaia di chilometri all’ora, con temperature che potrebbero superare i cinquecento gradi.

Durante la fase d’emergenza la popolazione dovrebbe sapere quali strade percorrere per abbandonare l’area. Scalzo precisa che nel caso in cui qualcuno non volesse spostarsi con i propri mezzi, i trasporti pubblici lo porterebbero al sicuro. “Dobbiamo lavorare molto per fare accettare agli abitanti che – non oggi e non domani, forse un giorno – dovranno lasciare le loro case per sempre”, spiega Nave. “Se non lo faranno, potrebbero fare la fine degli abitanti di Pompei”.

Non tutti hanno bisogno di essere convinti. Secondo Anna Peluso, che da tempo abita a Pozzuoli, molti residenti della zona partiranno spontaneamente alle prime avvisaglie di un’eruzione imminente. La donna ricorda che nel 2015 un terremoto aveva spinto molti genitori a precipitarsi a scuola per prendere i figli senza aspettare l’annuncio di un’evacuazione previsto dal piano del governo. In quell’occasione l’aumento del traffico aveva paralizzato la circolazione.

“Sta succedendo qualcosa. Noto un cambiamento”, dice Peluso. Mentre cammina lungo il porto, indica una decina di barche che galleggiano ben al di sotto del molo a cui sono ormeggiate. In un altro porto lì vicino, l’acqua è poco profonda e le piccole barche da pesca quasi toccano il fondale, segno evidente che il terreno si è alzato. Allontanandosi dal mare e dirigendosi verso il centro, Peluso indica una serie di edifici che mostrano crepe e segni di danneggiamento, come in un palazzo di quattro piani a cui mancano grossi pezzi di intonaco.

Racconta che molti suoi vicini di casa la considerano un’allarmista perché parla sempre del vulcano, ma non le importa. Ciò che la preoccupa sono le domande che ancora non hanno una risposta: qual è la causa del sollevamento del suolo? L’osservatorio riuscirà a rilevare i cambiamenti più pericolosi nell’attività vulcanica? Se ci sarà un’evacuazione, quanto tempo passerà prima che le autorità permettano ai residenti di tornare a casa?

Mente ci salutiamo, Peluso si ferma e spiega che un cratere vulcanico “potrebbe aprirsi proprio qui, in mezzo alla strada”. Poi si volta e guarda il mare. Il tramonto dipinge l’acqua di un arancione pacificante. La costa rocciosa abbraccia il porto. “A volte la gente mi chiede ‘perché vivi ancora a Pozzuoli?’. La risposta è qui”.◆ as

Agostino Petroni è un reporter freelance italiano. Scrive di ecologia ed economia per varie testate tra cui National Geographic, The Guardian e The Atlantic.

Da sapere
Due mesi di scosse

◆ Il 7 settembre 2023 è stata registrata una scossa di terremoto ai Campi Flegrei di magnitudo 3,8. È stato l’evento sismico più forte registrato nella zona negli ultimi dieci anni. La scossa, come molte altre negli ultimi due mesi, è stata avvertita dalla popolazione anche a Napoli e Pozzuoli. L’osservatorio vesuviano afferma che questa intensa attività comunque non suggerisce uno scenario eruttivo. Dal gennaio di quest’anno ci sono state 1.500 scosse di magnitudo rilevante. Ansa


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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati