Il 27 settembre 2020 successe quello che l’intera popolazione della repubblica non riconosciuta del Nagorno Karabakh temeva da tempo: alle sette del mattino scoppiò la guerra. Fin dai primi minuti si era capito che non si trattava di una schermaglia di confine come quelle che erano state frequenti negli ultimi anni.

La guerra era cominciata con il bombardamento della capitale Stepanakert e di altri centri abitati. Dopo un’ora l’Azerbaigian aveva attaccato le posizioni delle forze armate del Nagorno Karabakh lungo l’intera linea di contatto. Così era scoppiato uno dei più sanguinosi conflitti combattuti nella regione dall’inizio del secolo.

Per capire quale sia la situazione della repubblica non riconosciuta del Nagorno Karabakh oggi, a guerra conclusa, basta percorrere in auto il corridoio di Lachin, che costituisce l’unica via di comunicazione terrestre tra l’Armenia e l’Artsakh (il nome armeno del Nagorno Karabakh). Questa striscia di terra lunga sei chilometri è stata controllata dalla repubblica del Nagorno Karabakh dal maggio del 1992 al novembre del 2020. Da allora sono i militari russi a garantire la sicurezza. Prima di raggiungere il corridoio dal lato armeno si incontra un cartello: “L’Artsakh libero vi dà il benvenuto”. Oggi queste parole suscitano negli abitanti amarezza, ma anche la speranza che tutto possa tornare alla normalità.

Evitare gli schiamazzi

Sulla strada, un tempo molto trafficata, si vedono poche automobili. All’inizio del corridoio c’è un altro cartello, stavolta in russo: “Il corridoio di Lachin è sotto la responsabilità delle forze di pace russe”. I posti di blocco fortificati dei russi si susseguono ogni cinque chilometri. Fare riprese è severamente vietato. Soldati giovani ed educati controllano i documenti e a volte anche il bagagliaio dell’auto, per poi augurare buon viaggio. Si ha la sensazione di essere circondati da una terra di nessuno: villaggi deserti, trincee abbandonate e tracce di bombardamenti sull’asfalto e sulle abitazioni.

Nuovi complessi residenziali sono in costruzione per ospitare gli sfollati

Per gli armeni che percorrono il corridoio, l’immagine più dolorosa si trova nei pressi di Shushi, la cui conquista ha messo fine alla seconda guerra del Karabakh. All’ingresso del centro abitato un grande cantiere attira l’attenzione: gli azeri stanno già costruendo strade e gallerie. L’ultimo checkpoint russo nel corridoio del Lachin è nelle vicinanze della città, e i soldati azeri stazionano a cinque metri di distanza. La scritta armena “Shushi” sulla fortezza è stata sostituita dal nome azero, Şuşa, e la bandiera turca sventola accanto a quella azera. Le postazioni delle forze rivali sono situate tra Shushi e Stepanakert (Khankendi in azero), e in alcuni punti sono a pochi metri di distanza. La capitale del Nagorno Karabakh si trova adesso a portata dell’artiglieria azera.

Chi dovesse ritrovarsi per caso a Stepanakert senza conoscerne il passato recente non sospetterebbe che appena un anno fa la città era stata bersaglio di missili tattici e lanciarazzi multipli. I danni sono stati quasi del tutto riparati. Nuovi complessi residenziali sono in via di rapida costruzione per ospitare le decine di migliaia di sfollati. Alcuni sono tornati nel Karabakh e vivono in alberghi e ostelli. Altri sono rimasti in Armenia o sono emigrati in Russia. Stepanakert è ancora una città pulita e piacevole, con i caffè e le fontane illuminate. Al tramonto il centro si anima, ma dai ristoranti non proviene più musica ad alto volume. Le automobili circolano lentamente e la gente sembra voler evitare gli schiamazzi. Le tracce della guerra sugli edifici sono quasi del tutto sparite, ma le ferite nell’animo della gente sono ancora aperte. Qui quasi ogni famiglia ha perso una persona cara, un parente, un amico.

Nel mercato, un tempo affollato, i venditori cercano di attirare i pochi clienti rimasti. In passato qui venivano turisti dall’Armenia e da altri paesi. Ora il flusso di visitatori è scarso, ammette Donara Barseghyan, che da più di dieci anni vende le tipiche focacce locali alle erbe: “Un mese dopo la fine della guerra c’erano pochissime persone, molte sono andate via. Un tempo c’era molto lavoro”. Zia Donara, come è chiamata da queste parti, non ha smesso di lavorare nemmeno durante la guerra. Al mattino infornava il pane e lo distribuiva gratuitamente ai soldati. Poi tornava a raccogliere gli ingredienti per la nuova infornata. Negli anni è diventata un simbolo della città. Tutti sanno che qualsiasi cosa accada, Donara sarà sempre al suo posto. “Ora è difficile. Gli aiuti economici dello stato sono utili, ma non bastano. La gente scappa dal paese. Alcune persone vengono qui a comprare grandi valigie. Dicono che stanno per partire, vanno in Russia. Ma ci sono anche quelli che tornano. La gente ha paura che la guerra possa ricominciare. I russi dicono che finché loro sono qui possiamo stare tranquilli, ma c’è comunque paura”, spiega Donara.

Le forze di pace russe sono ben accette nella zona, e la gente spera che la loro missione sia prolungata. In base a una dichiarazione del novembre 2020, se nessuno dei due fronti proporrà di mettere fine alla missione dopo cinque anni i russi resteranno. Ma nessuno sa cosa succederà nel 2025. Il ministro degli esteri del Nagorno Karabakh, David Babayan, sostiene che l’Azerbaigian si stia già preparando ad abbandonare la missione di pace: “In generale le persone si fidano delle forze di pace. Ma questo non piace all’Azerbaigian e alla Turchia, che cercano in ogni modo di screditare i russi. Ora stanno provando a sostenere che la Russia abbia gli stessi interessi della Turchia e dell’Azerbaigian, che tutto sia già stato deciso, che l’Azerbaigian assumerà il controllo di Artsakh e nessuno glielo impedirà. Ma noi consideriamo la Russia un paese fratello”.

In ogni caso nemmeno la presenza dei soldati russi ha scongiurato le violazioni del cessate il fuoco. Dopo la guerra non ci sono stati incidenti gravi, ma capita ancora che ci siano spari, feriti e colpi di artiglieria pesante.

Il villaggio di Karmir Shuka si trova sulla linea di contatto, mentre prima della guerra era nelle retrovie. Le postazioni azere sono a un chilometro dalle case. Dopo la guerra il villaggio è stato colpito varie volte dall’artiglieria pesante. Non ci sono state vittime, ma per gli abitanti è difficile vivere in queste condizioni. Eppure dopo la fine delle ostilità quasi tutti sono tornati alle loro case. La scelta tra restare e partire è dura per gli abitanti del Nagorno Karabakh. Dopo la guerra questa terra è cambiata. Non c’è più stabilità né speranza nel futuro. Gli abitanti sono sicuri che gli attacchi e le provocazioni degli azeri servano ad aggravare l’instabilità, costringendo la popolazione ad andarsene.

Pianoforte e violino

Ci vuole un po’ per convincere Juliet Harutyunyan a farsi intervistare. Suo figlio ha lasciato a casa una moglie e cinque figli per arruolarsi come volontario. Ha combattuto fino all’ultimo giorno. Harutyunyan e il marito si erano trasferiti in Armenia quando è scoppiato il conflitto. Sono tornati pochi giorni dopo l’annuncio del cessate il fuoco. “Vivremo qui, non importa cosa succederà. Questa è la terra dei nostri antenati. Certo, le postazioni degli azeri sono molto vicine. Mi piacerebbe andare via per un po’, perché quando sparano il villaggio è subito colpito”, spiega.

Da sapere
Riconquista azera

◆ Il 27 settembre 2020 l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva per riprendere il controllo del Nagorno Karabakh, una regione autonoma in territorio azero abitata in gran parte da armeni e controllata dalla repubblica di Artsakh, uno stato indipendente de facto sostenuto dall’Armenia. Gli armeni avevano preso il controllo della regione nella guerra combattuta tra il 1991 e il 1994. Dopo una prima fase di sostanziale equilibrio, le truppe azere hanno cominciato un’avanzata riconquistando gran parte dei territori precedentemente controllati dagli armeni. In sei settimane di scontri sono morte più di 6.500 persone.

◆ Il 10 novembre dello stesso anno il presidente azero Ilham Aliev e il premier armeno Nikol Pashinyan hanno firmato un accordo, con la mediazione del presidente russo Vladimir Putin, che prevede l’invio nella regione di duemila soldati russi e consente all’Azerbaigian di annettere i territori conquistati. Migliaia di armeni hanno lasciato le loro case.
Afp, The Guardian


Ma nessuno ha intenzione di ritirare le truppe. Karmir Shuka, comunque, ha avuto fortuna. Il vicino abitato di Tagavart è stato diviso in due parti, una armena e l’altra azera. Lì le postazioni dei due schieramenti sono in mezzo alle case, in alcuni casi separate da una ventina di metri.

A differenza di Tagavart e di Karmir Shuka, Martuni vive in una situazione di relativa tranquillità. Qui le postazioni azere sono visibili solo con il binocolo. Martuni è stato pesantemente bombardato durante la guerra, ma oggi qui regna un insolito silenzio. La vita è tornata alla normalità, anche se le facce mostrano la stessa tristezza che si nota altrove. Nel centro del villaggio il silenzio è interrotto dal suono di un pianoforte, di un violoncello e di un violino. La scuola di musica è piena di studenti anche di sabato. Il numero di alunni è aumentato dopo la guerra a causa dell’arrivo degli abitanti dei villaggi passati sotto il controllo azero. “La guerra ha colpito direttamente quasi tutte le famiglie. Per esempio la famiglia Agasyan: due fratelli sono stati uccisi. Uno aveva sedici anni ed era un nostro studente. È una tragedia, è difficile descriverla a parole”, spiega Alvina Baghdasaryan, direttrice della scuola. Baghdasaryan è sopravvissuta a tre guerre. Come quasi tutti gli uomini, anche suo marito si è arruolato volontario. Martuni ha saputo reggere l’onda d’urto del nemico, anche se all’inizio della guerra gli azeri hanno provato a sfondare la linea di difesa in questa direzione.

Potrebbe esserci una quarta guerra? Secondo Baghdasaryan è possibile. In ogni caso lei non ha intenzione di andarsene. “Nessuno accetta l’idea di perdere per sempre Artsakh. È così che vive la gente, con il pensiero di tornare nelle terre perdute e vivere come prima”. Il territorio del Nagorno Karabakh che è rimasto sotto il controllo armeno è sostanzialmente tagliato fuori dal resto del paese. Ma Yerevan non ha intenzione di mollare la presa.

Oggi, un anno dopo la guerra, l’obiettivo principale delle autorità locali è far tornare nel Karabakh le persone emigrate in Armenia. Dicono che serviranno decenni per ritrovare la pace e lo sviluppo del periodo precedente alla guerra. Le persone del posto, invece, sanno che devono essere pronte per un nuovo conflitto in qualunque momento. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati