Nel novembre 2017 Marc Gabolde, egittologo dell’università Paul Valéry di Mont­pellier, in Francia, ricevette sul telefono una foto sgranata da un collega che stava partecipando all’inaugurazione del Louvre Abu Dhabi. Mostrava una stele di granito rosa esposta nel museo. Gabolde l’aveva già vista? In caso contrario, cosa ne pensava? La stele era datata 1327 aC e veniva da Abydo (Arabet el Madfuneh in arabo), una città sacra sulle rive del Nilo. Da quello che Gabolde poteva vedere, la stele sembrava perfettamente conservata. I rilievi suggerivano che risalisse al regno di Tutankhamon. “Lì per lì ho pensato che fosse un falso”, mi ha detto Gabolde. “Era troppo bello per essere vero”.

Il progetto del Louvre Abu Dhabi risale al 2005, da allora ha acquisito il numero di reperti antichi più alto dell’ultimo mezzo secolo. Gli Emirati Arabi Uniti pagano al Louvre di Parigi più di un miliardo di dollari per il nome, le competenze e alcuni prestiti cruciali che sostengono la collezione del museo. L’edificio è stato progettato da Jean Nouvel, l’architetto del museo Quai Branly, a Parigi, e la cerimonia di apertura è stata uno spettacolo grandioso, con fuochi d’artificio e giochi di luce riflessi sulla rete di canali che lo attraversano. I manufatti della collezione sembravano emergere dall’acqua, mentre la “cupola delle meraviglie arabo-galattica”, come l’ha definita il New York Times, scintillava in alto. Erano presenti Emmanuel e Brigitte Macron, il presidente degli Emirati, Mohammed bin Zayed, lo sceicco Mohammad di Dubai e i re del Marocco e del Bahrein.

Quasi impossibile

A Montpellier Gabolde aveva esaminato il testo della stele. Era un decreto che garantiva a Raya, sommo sacerdote del tempio di Osiride, la protezione reale, e Gabolde aveva concluso che fosse quasi certamente autentico. Tutankhamon regnò solo per un decennio. Nonostante le molte indagini condotte sul suo corpo mummificato, le conoscenze che abbiamo sono scarse. Non sappiamo ancora se Nefertiti fosse o meno sua madre né cosa ne abbia causato la morte a diciannove anni o cosa l’abbia spinto a ribaltare la decisione del padre di adorare il dio Aten, una divinità solare, e a riportare gli egizi al culto di Amon. Gabolde era impaziente di decifrare qualsiasi indizio che il decreto potesse contenere e si era rivolto al Louvre Abu Dhabi e a un’importante rivista di egittologia per fare ricerca sulla stele e pubblicare le sue scoperte. Aveva chiesto anche informazioni sulla provenienza della stele.

Passarono tre mesi prima che ricevesse una risposta. Nell’aprile 2018 gli scrisse un funzionario dell’Agence France-Muséums, l’ente istituito dal governo francese per gestire i prestiti e le acquisizioni per il Louvre Abu Dhabi spiegandogli che la stele proveniva dalla collezione di Johannes Behrens, un ufficiale della marina mercantile tedesca, che l’aveva acquistata al Cairo nel 1933 da un commerciante di nome Habib Tawadros. Gabolde voleva saperne di più. All’epoca, solo pochissimi ricchi commercianti egiziani avevano accumulato collezioni importanti e le loro identità e proprietà erano ben note. Durante le sue ricerche Gabolde aveva trovato alcuni vaghi riferimenti “non molto affidabili” che suggerivano l’esistenza di un commerciante di nome Tawadros, che forse aveva un negozio vicino all’hotel Shepheard, in precedenza chiamato Hotel des Anglais, dove s’incontravano spie e generali tedeschi. Ma non c’erano foto o prove della presenza di Tawadros e del negozio. A quanto pare, la stele era rimasta per anni nel magazzino di un commerciante parigino, che l’aveva comprata dagli eredi di Behrens nel 2000, fino all’acquisto del Louvre Abu Dhabi nel 2016. Gabolde era scettico. Pensava che fosse “quasi impossibile che un oggetto così importante fosse rimasto sconosciuto e nascosto” per quasi settant’anni. Secondo le ipotesi, Tawadros doveva aver venduto la stele appena dieci anni dopo che Howard Carter aveva scoperto la tomba di Tutankhamon, un evento di portata mondiale. Il pubblico del Cairo e di Londra era affascinato dagli scavi. Il Times ottenne un accordo di esclusiva per seguirli. La gestione autoritaria di Carter, la scelta di una testata britannica e l’abitudine di portare gli aristocratici britannici in visita al sito, evitando i funzionari egiziani, avevano infiammato le autorità del Cairo e l’opinione pubblica egiziana. Per un periodo, gli egiziani sigillarono la cripta e tennero alla larga Carter. L’idea che la stele fosse potuta passare inosservata e non fosse stata registrata, ma venduta da un “collezionista quasi sconosciuto”, era fantasiosa.

L’identità del presunto acquirente, Johannes Behrens, non era più convincente. “Non so quale fosse il reddito di un ufficiale della marina mercantile tedesca nel 1933, l’anno in cui Hitler salì al potere durante la grande depressione”, mi ha detto Gabolde, “ma dubito che potesse bastare a comprare un simile capolavoro”. Gabolde aveva chiesto ai curatori di Abu Dhabi e all’Agence France-Muséums una copia della ricevuta di acquisto del 2000, senza ottenere risposta. Più di dieci Johannes Behrens compaiono nei registri pubblici tedeschi. Almeno due erano stati legati alle forze armate tedesche, ma nessuno era un capitano di marina o aveva a che fare con le antichità. Gabolde cominciò a chiedersi se fosse tutto falso.

L’inaugurazione del Louvre Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, il 2 novembre 2017 (Hubert Fanthomme, Paris Match/Getty)

Dietro le quinte

Negli ultimi anni le notizie sui saccheggi di antichità si sono spesso concentrate sugli sconvolgimenti politici cominciati con la primavera araba. In occidente gli articoli sono stati a volte accompagnati dall’idea che i movimenti islamici della regione – le principali forze che quasi ovunque sul territorio vogliono il cambiamento – siano intrinsecamente violenti. Le dittature laiche e gli estremisti hanno fatto leva sullo stesso pregiudizio. Quando nel 2011 il museo egizio del Cairo fu preso d’assalto durante la rivoluzione di piazza Tahrir, si temeva che le proteste dei manifestanti antigovernativi stessero degenerando nel vandalismo. Molti analisti ora ritengono che sia stata un’operazione dell’esercito egiziano per screditare gli oppositori.

Nel 2014 il gruppo Stato islamico (Is) fece esplodere a Mosul la moschea di Nabi Yunus, che ospitava la tomba del profeta Giona, affermando che l’obiettivo era distruggere le lapidi, considerate eretiche. L’Is ha diffuso video in cui i combattenti distruggono con le mazze i manufatti del museo e fanno saltare in aria le ziggurat di Nimrud. La distruzione degli idoli è diventata un genere popolare nei video dell’Is. I mezzi d’informazione occidentali hanno coperto questi eventi, tralasciando gli scavi rudimentali, i saccheggi su scala industriale e i traffici che il gruppo conduceva dietro le quinte.

La “divisione reperti antichi” dell’Is ha raccolto milioni di dollari per finanziare le operazioni del gruppo, che al suo apice controllava un terzo dell’Iraq e aree della Libia e della Siria ricche di antiche rovine, tra cui almeno dieci siti patrimonio dell’Unesco. In Siria anche i gruppi di opposizione finanziati dagli Stati Uniti e dai paesi del Golfo si sono buttati nel traffico. Quando sono andata in Siria e in Turchia per un reportage sull’Is, i comandanti dei miliziani mi mostravano sui cellulari immagini di reperti – antichi rosari islamici, fregi dalle forme ovali – che tenevano in casa, e a volte mi chiedevano cosa potessero essere.

Gli esperti di finanziamento del terrorismo e gli archeologi non concordano su quanto l’Is abbia guadagnato dal traffico di antichità: è difficile trovare dati affidabili. Ma il sospetto che si tratti di una somma significativa ha incoraggiato una riforma nel mondo della compravendita e del collezionismo, che ancora un decennio fa agiva in modo spregiudicato e spesso era indifferente alle questioni della provenienza. Tuttavia i collezionisti facoltosi che non si sono impegnati per proteggere il patrimonio culturale dei paesi in guerra, forse sono stati scossi dall’insinuazione che stessero finanziando l’Is. Organizzazioni come la Clooney foundation for justice hanno commissionato rapporti che descrivono l’impiego di antichità saccheggiate nel finanziamento di crimini di guerra e terrorismo, sottolineando che i trafficanti di reperti possono occuparsi di vari tipi di beni allo stesso tempo: armi, persone e animali selvatici, oltre a preziosi manufatti. Il gruppo jihadista somalo Al Shabaab ha esportato avorio in Cina per finanziare le sue operazioni, tra cui l’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi in cui sono morte 71 persone.

Reperti sequestrati a casa del miliardario newyorchese Michael Steinhardt (New York District Attorney’s Office/The New York Times/Contrasto)

I reperti provenienti dalle regioni controllate dall’Is si sono riversati sul mercato globale, dove erano richiestissimi. I pezzi più piccoli sono stati venduti illegalmente su Facebook ed eBay, mentre gli esemplari più notevoli sono comparsi nelle aste stagionali. Negli Stati Uniti i cristiani evangelici erano così avidi di manufatti giudeo-cristiani che hanno formato un loro mercato. Dopo la primavera araba la famiglia Green si è fatta prendere da una smania di collezionismo per riempire il suo museo della Bibbia a Washington. Nel 2017 il museo è stato costretto a restituire 3.600 tavolette cuneiformi contrabbandate dall’Iraq e nel 2020 ha ceduto all’Iraq e all’Egitto altri 11.500 manufatti: papiri, frammenti di Bibbia, tavolette con impressi passi dell’epopea di Gilgameš. I collezionisti miliardari privati, quasi tutti residenti a New York (dove si riversano i maggiori investimenti nel mercato delle antichità), hanno continuato a comprare.

Senza regole

L’economia politica globale dell’estrazione di antichità è cambiata poco dalla metà dell’ottocento, quando gli archeologi coloniali cominciarono a scavare gli antichi tesori delle civiltà egizia, persiana e irachena e a spedirli nelle capitali occidentali. Allora come oggi, il flusso va per lo più dai paesi indebitati e politicamente deboli del sud del mondo verso il nord economicamente avanzato e solido. Le principali armi escogitate per fronteggiare questo traffico, le varie leggi sul patrimonio nazionale e gli accordi dell’Onu sono state quasi inutili. La regolamentazione è di fatto inesistente. Gli stati di origine, con l’eccezione di Grecia e Italia, non hanno i mezzi e le risorse per proteggere il loro patrimonio, e i paesi di destinazione sono storicamente rimasti a guardare. Le antichità rimangono, con la possibile eccezione della fauna selvatica, l’unico bene illecito che i gruppi criminali transnazionali possono commerciare apertamente. Non si possono comprare o vendere persone, droghe o armi su eBay o nelle case d’asta internazionali. Gli autori di Trafficking culture (2019), un utile saggio sul traffico di antichità, scrivono che “il Metropolitan museum of art non può spendere un milione di dollari per cinquanta chili di cocaina di contrabbando, esporla, difenderne l’acquisto sui giornali in quanto ‘bene pubblico’ e riconsegnarla alle autorità solo trent’anni dopo restando impunito”. Questo è accaduto al cratere di Eufronio, un antico vaso greco dissotterrato illegalmente da tombaroli italiani nel 1971, acquistato dal Met nel 1972 e restituito a Roma nel 2008 dopo anni di indagini delle autorità italiane.

Le leggi in vigore per perseguire le antichità rubate servono per lo più a recuperi sporadici. Dato che i procedimenti penali contro le persone coinvolte sono rari, i deterrenti sono scarsi. Quello che ha fatto la differenza nel mondo dei musei sono state le proteste pubbliche e la prospettiva di un danno d’immagine. Nel 2020 l’attivista congolese Mwazulu Diyabanza ha trasmesso in diretta video delle sue visite in alcuni musei francesi dove indicava i manufatti africani depredati dai colonialisti. Nel 2017 Macron ha promesso di restituire alcuni esemplari alle ex colonie, ma il processo è stato incerto e lento.

Il tema del Met Gala 2018 era “Corpi celesti”. Decine di celebrità si sono presentate in vesti cardinalizie e abiti da crociato. Kim Kardashian indossava una guaina dorata tempestata di croci. Ma l’abito più sfarzoso era quello di Nedje­mankh, un sacerdote egiziano vissuto nel I secolo aC, il cui sarcofago d’oro era al centro di una grande mostra. Il Met l’ha esposto in posizione verticale, in modo che sembrasse un ospite disorientato e gloriosamente vestito. Kardashian ha posato accanto a lui per una foto, che ha fatto il giro di internet.

Il Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, il 6 novembre 2018 (Giuseppe Cacace, Afp/Getty)

Soffiata

A migliaia di chilometri di distanza, un tombarolo egiziano che scorreva un sito di gossip sul cellulare ha visto la foto. Ha riconosciuto subito Nedjemankh: lui e i suoi colleghi avevano estratto la cassa d’oro dal terreno sei anni prima, senza preoccuparsi di conservare il corpo mummificato. L’accordo che avevano raggiunto con il trafficante era che il pagamento sarebbe stato effettuato al momento della vendita finale del sarcofago. Ma lui continuava a rimandare. Ora era evidente che Nedjemankh era stato venduto, nientemeno che al Metropolitan museum of art, e il tombarolo non aveva ricevuto la sua parte. Furioso, ha chiamato un amico commerciante per lamentarsi. Quell’uomo era un informatore dell’unità per il traffico di antichità del procuratore distrettuale di Manhattan. Ha chiamato subito Matthew Bogdanos, il capo dell’unità, per riferire la soffiata: Nedjemankh era stato depredato e portato via dall’Egitto illegalmente.

Bogdanos ha trascorso il resto del 2018 a gestire un’indagine sull’acquisizione del Met. Per anni era stato sulle tracce di una potente e sofisticata rete di contrabbando di antichità che operava in Medio Oriente, Europa e Stati Uniti. Nel 2013 aveva ricevuto una serie di email che si erano scambiate commercianti, saccheggiatori e contrabbandieri, in cui si parlava di antichità appena scavate. Tra le persone coinvolte c’erano trafficanti libanesi ed egiziani, alcuni di origine armena, radicati a Beirut e al Cairo, e con basi ad Amburgo e Los Angeles. Le email contenevano immagini del sarcofago di Nedjemankh, coperto di sporcizia e a malapena riconoscibile.

Bogdanos è un ex marine laureato in legge e in lettere antiche. Durante il servizio con le forze armate statunitensi in Iraq nel 2003 era stato assegnato al contingente che ha messo in sicurezza il museo nazionale. Ha trascorso nove mesi dormendo sul pavimento della biblioteca per catalogare migliaia di oggetti mancanti ed è riuscito a rintracciare migliaia di manufatti. Tornato all’ufficio del procuratore nel 2010, ha cercato di convincere i superiori a prendere più seriamente il traffico di antichità. Il fatto che i criminali fossero ricchi e indossassero completi italiani, spiegava, non li rendeva meno distruttivi dei saccheggiatori a Baghdad o Kabul. Ha coltivato fonti, trovato colleghi solidali nelle forze dell’ordine e nelle agenzie dell’Onu, mappato le reti e accumulato prove. Nel 2021 ha portato in tribunale il collezionista miliardario newyorchese Michael Steinhardt, un manager di hedge fund accusato anche di molestie sessuali da diverse donne. Bogdanos ha sequestrato nel suo appartamento 180 oggetti rubati per un valore di 70 milioni di dollari (più di 80 milioni di euro). Nello stesso anno, Bogdanos ha perseguito anche la filantropa Shelby White, che aveva fatto parte del consiglio di amministrazione del Met per 33 anni e aveva riempito le collezioni del museo con i suoi prestiti. Gli avvocati hanno portato via dall’appartamento decine di antichità presumibilmente trafugate.

Quando gli investigatori di Bogdanos hanno esaminato il processo di acquisizione del Met di Nedjemankh, hanno riscontrato un’incredibile serie di negligenze.

Sulle tracce di Nedjemankh

Nel maggio 2016 Diana Craig Patch, curatrice del Met per l’arte egizia, riceve un’email da Richard Semper, un commerciante con sede a Parigi, che propone un “pezzo difficile in vendita”. È il sarcofago di Nedjemankh. Semper e il suo socio, Christophe Kunicki, vogliono 4,5 milioni di euro. Kunicki è un punto di riferimento nel mondo dell’arte europea, apprezzato dai curatori dei musei. Di solito lavora attraverso la casa d’aste Pierre Bergé, ma Nedjemankh è una vendita diretta. Durante l’estate, mentre Patch riflette sull’acquisto, i mercanti le chiedono di gestire gli scambi in modo “confidenziale”. Lei non trova la cosa strana. A settembre i commercianti, impazienti, ribassano il prezzo.

A dicembre Patch vola a Parigi per vedere il reperto. Poi comincia l’indagine formale sulla provenienza necessaria per ottenere l’approvazione del consiglio del Met. Kunicki e Semper le inviano documenti con revisioni, lacune, errori e incongruenze: due traduzioni di una licenza di esportazione egiziana con date contrastanti e due versioni in arabo, entrambe prive della firma dell’autorità egiziana per le antichità e con un timbro della Repubblica Araba d’Egitto ancora inesistente (dal 1958 fino al settembre 1971, l’Egitto era conosciuto come Repubblica Araba Unita). Inoltre contengono testimonianze contraddittorie sul proprietario del sarcofago, a volte una “Madame Chatz” dalla Svizzera e altre Serop Simonian di Amburgo, un commerciante al centro della rete di contrabbando inseguita da Bogdanos.

È compito di un curatore assicurarsi che i manufatti acquistati non siano stati trafugati da un paese in guerra o alle prese con un conflitto politico. Per questo Patch chiede a una collega d’inviare un’email alle autorità egiziane per verificare l’autenticità della licenza di esportazione. Gli egiziani vogliono la scansione dei documenti per verificarli. La collega di Patch risponde di non avere “alcuna copia, elettronica o di altro tipo”, ma ribadisce che il permesso “sembra corretto”. Le autorità egiziane non rispondono. A febbraio, nonostante la mancanza di quasi tutti i documenti di prova della credibilità della vendita e dell’esportazione del sarcofago dall’Egitto, Patch invia un’email a Kunicki: “Sono felice di annunciare che il museo ha deciso di portare avanti l’acquisizione”. L’avverte, però, che serve la licenza di esportazione originale. Ma Kunicki confessa di avere “un piccolo problema”. Il proprietario l’ha “persa”.

Nell’aprile 2017 il sarcofago di Nedjemankh arriva a New York con l’American Airlines per rimanere un anno in un magazzino del Met, fino a quando il museo ha lanciato la sua mostra. L’indagine di Bogdanos si è allargata e le prove si sono accumulate. Ha stabilito che Nedjemankh era stato saccheggiato nella regione di Minya, in Egitto, nell’ottobre 2011, mentre i manifestanti a piazza Tahrir affrontavano il consiglio militare che aveva deposto Hosni Mubarak. I ladri avevano inviato le fotografie del reperto a un commerciante che lavorava con Kunicki, e quasi certamente a Kunicki stesso, per poi spedirla a Dubai in un container. Kunicki e Simonian avevano architettato il trasferimento del sarcofago in Germania, incaricando nel febbraio 2013 un commerciante emiratino di produrre una fattura falsa che descrivesse Nedjemankh come una “cassa di legno rivestita di gesso” del valore di cinquemila euro. Il commerciante l’aveva spedito tramite FedEx in Germania, dove le sue tracce erano scomparse fino all’inizio del 2016, quando Kunicki l’ha proposto al Met come “pezzo forte” della collezione Habib Tawadros.

Decine di celebrità si sono presentate in vesti cardinalizie e abiti da crociato

Nel 2018 Bogdanos ha comunicato al Met le sue scoperte. I funzionari del museo si sono scusati, dichiarando in un comunicato che “tutte le acquisizioni di arte antica sono sottoposte a un rigoroso processo di verifica”, ma in questo caso il Met era stato “vittima di una frode e aveva involontariamente partecipato al commercio illegale di antichità”. Nel settembre 2019 la polizia di New York ha scortato Nedjemankh all’aeroporto e il sarcofago è stato riportato in Egitto. Bogdanos non ha nascosto la sua frustrazione per la negligenza e la mancanza di controlli. A volte c’è un incentivo a essere lassisti quando è necessaria una verifica su oggetti straordinari e di enorme valore.

I calcoli di Abu Dhabi

L’episodio di New York ha messo in allarme la Francia: il comitato per le acquisizioni del Louvre per Abu Dhabi aveva comprato sette pezzi da Kunicki e Semper. Bogdanos ha messo le prove in alcune chiavette e le ha consegnate alla polizia di Londra, Bruxelles, Parigi e Berlino. Nel febbraio 2019 Marc Gabolde ha scritto a un funzionario del Louvre per esprimere le sue preoccupazioni sulla presunta provenienza della stele di Tutankhamon. Qualche settimana dopo ha incontrato un curatore del Louvre per parlare di quello che aveva appreso. Mi ha detto che era stata una “discussione complessa”. A quel punto i presunti ex proprietari della stele erano collegati a una serie di “reperti problematici”. Gabolde ha pubblicato lo studio nella Revue d’Égyptologie. Gli scavi e i traffici illegali, mi ha detto, non solo distruggono informazioni cruciali sul contesto archeologico, ma alimentano crimini più gravi. “Questo significa violenza, corruzione, mercato nero, denaro sporco”.

Il direttore del Louvre dell’epoca, Jean-Luc Martinez, sembra non aver fatto nulla con queste scoperte. Secondo un rapporto dell’Ufficio centrale francese di lotta contro il traffico dei beni culturali, Martinez era più preoccupato di riempire le sale vuote di Abu Dhabi e di mantenere buoni rapporti diplomatici con gli Emirati. Nel paese del Golfo le infrastrutture artistiche sono centrali per la sua modernizzazione e per un settore in cui ha un vantaggio naturale rispetto all’Arabia Saudita, un alleato chiave ma anche un rivale. I sauditi possono spendere molto di più, ma sono in ritardo di anni negli investimenti nel turismo culturale. Come l’ultimo scià dell’Iran, che ha accumulato la più grande collezione di arte contemporanea occidentale al di fuori dell’occidente, Bin Zayed è un modernizzatore laico. Anche lui spesso è accusato di avere tendenze autoritarie dai suoi detrattori in occidente, che invocano i diritti umani per condannare qualsiasi iniziativa nel Golfo – programmi di energia verde, finanziamenti allo sport – come un pretesto per “ripulirsi l’immagine”.

È vero che Abu Dhabi tollera poco il dissenso e ha contrastato la primavera araba. Ma i più recenti riallineamenti globali hanno favorito i suoi calcoli. La democrazia araba non preoccupa l’occidente, e certamente non l’Europa, dove i governi stanno stringendo accordi con regimi reazionari come parte della loro guerra all’immigrazione. Nella situazione attuale, la scommessa iniziale degli Emirati contro le forze islamiste popolari nella regione sembra essere stata lungimirante. E poi c’è la guerra in Ucraina. L’impegno dell’occidente nella difesa della sovranità ucraina ha suscitato risentimento nel sud globale, dove le popolazioni non si sentono minacciate direttamente dalla Russia e ne sopportano il costo in termini di prezzi alti dei prodotti alimentari e di diminuzione del potere d’acquisto. In un simile contesto, la decisione di costruire un Louvre ad Abu Dhabi come una sorta di museo universale subalterno, una destinazione culturale alternativa per le popolazioni che non possono permettersi di andare in occidente, o non sono più disposte a farlo, è stata geniale.

Non capire il senso

A giugno ho visitato il Louvre Abu Dhabi, raggiungendo l’isola Saadiyat (felicità in arabo), dove il museo occupa un angolo della penisola artificiale che si protende nel golfo Persico. Quando i lavori saranno completati nel 2025, la penisola sarà un distretto culturale e ospiterà altri quattro musei, tra cui un Guggenheim e un museo degli Emirati curato dal British museum. Al momento il Louvre si affaccia su una distesa di magazzini, piattaforme petrolifere e gru. I golf cart guidati da lavoratori del sudest asiatico sono fermi nel parcheggio in attesa di traghettare i visitatori per cinquanta metri fino all’ingresso. Il museo è una medina bianca e scintillante che si affaccia su una rete di corsi d’acqua, sovrastata da una gigantesca cupola d’acciaio con i motivi geometrici della mashrabiya, la tradizionale finestra islamica. I musei di Teheran, Damasco, Baghdad e Il Cairo sembrano indietro di un secolo.

I visitatori erano cosmopoliti: uigure con elaborati gioielli in testa, turisti francesi che indossavano la dishdasha (l’abito tradizionale islamico), un gruppo israeliano in visita privata, operai immigrati nel giorno libero, imprenditori dell’Asia centrale, studenti della New York university in abaya (l’abito femminile della tradizione musulmana) e borse firmate abbinate. Una statunitense ha sbuffato perché non capiva il senso della mostra.

La collezione permanente contiene centinaia di pezzi antichi e contemporanei scelti per aiutare i visitatori ad abbracciare la visione del museo di un patrimonio artistico globale caotico ma condiviso. Nella galleria di apertura sono esposte figure di maternità provenienti da diverse civiltà antiche: la dea egizia Iside che allatta il figlio Horus, una scultura in legno di una donna che culla il suo bambino appartenuta al popolo yombe della regione del fiume Congo. La comparsa dei primi villaggi preistorici è descritta tramite utensili e altri reperti. Ci sono tesori che fanno gola a qualsiasi museo, come il sarcofago dorato della principessa Henuttaui, proveniente dalla valle delle Regine.

Il novecento rappresenta una sfida per i curatori. Nessuno dei grandi modernisti arabi è esposto e non ci sono nudi. La filosofia del museo, secondo cui le civiltà si somigliano, vacilla quando gli artisti affrontano i tabù: l’oppressione politica, la fatica del lavoro, il fascino del postribolo, l’inquietudine dei corpi. L’ultima opera esposta, punto di arrivo di questo tour attraverso le grandi civiltà, è un disco di porcellana su cui è inciso un motivo ricavato dall’impronta del pollice dello sceicco Zayed bin Sultan al Nahyan, fondatore degli Emirati Arabi Uniti nel 1971.

È compito di un curatore assicurarsi che i manufatti non siano stati trafugati

I veri responsabili

Nel maggio 2022, Jean-Luc Martinez, che l’anno precedente si era dimesso dalla carica di presidente del Louvre ma era rimasto ambasciatore culturale della Francia per la protezione delle antichità nei conflitti, è stato accusato da un giudice francese di complicità in frode di gruppo e riciclaggio per il suo ruolo nell’acquisto di antichità contrabbandate per il Louvre Abu Dhabi. La natura delle accuse suggerisce che Martinez sapesse di vendere antichità con documenti falsi e che ne abbia tratto profitto. Anche Jean-François Charnier, che è stato direttore scientifico dell’Agence France-Muséums e consulente per il progetto di valorizzazione del patrimonio di Al Ula, in Arabia Saudita, è stato arrestato e accusato di aver fornito false informazioni sulla provenienza di opere d’arte acquistate per Abu Dhabi per un valore di cinquanta milioni di dollari (57,7 milioni di euro). Il giornale francese Libération ha riferito che Charnier potrebbe aver ignorato i dubbi relativi alla stele di Tutankhamon, assecondando i desideri di un funzionario emiratino del comitato per le acquisizioni del Louvre Abu Dhabi. Risultano depositi “anomali” sul conto bancario di Charnier, per esempio versati da una casa d’aste belga, anche questa indagata, che ha venduto diverse opere ad Abu Dhabi con la sua assistenza. Gli avvocati di Martinez e Charnier hanno respinto ogni accusa.

La polizia francese, sulla base delle informazioni fornite da Bogdanos, ha indagato per due anni. Nel giugno del 2020 ha arrestato Christophe Kunicki con l’accusa di associazione a delinquere, complicità in frode e riciclaggio di denaro. Da allora è agli arresti domiciliari. Due mesi prima di arrestare Martinez, l’Europol ha emesso mandati di cattura per gli affiliati alla rete residenti in Germania, compresi i componenti della famiglia Simonian, il clan armeno al centro della rete. Ma la Germania, dove l’interesse dei mezzi d’informazione e delle autorità per il caso è rimasto basso, ha rifiutato di estradarli.

A quel punto è cominciato il dibattito su chi fosse il maggior responsabile. Kunicki ha insistito sulla “fiducia cieca” nei Simonian, anche se secondo Libération ha ammesso che alcuni oggetti avevano “tasselli mancanti”. Il Louvre Abu Dhabi si è costituito parte civile, ottenendo accesso ai fascicoli d’indagine, e si è dichiarato “vittima del traffico”. Un avvocato ha ammesso che “forse i commercianti non sono sempre stati diligenti”, ma ha sostenuto che “i veri responsabili” – i musei internazionali che chiudono un occhio e i trafficanti in Medio Oriente – non sono stati perseguiti.

In Francia, la questione delle responsabilità ha fatto tribolare gli investigatori, che per ora hanno incriminato solo poche persone. L’informatore-trafficante Georges Lotfi, un importante nodo della rete, vive ancora a Tripoli malgrado un mandato di arresto dell’Interpol. I trafficanti del sottobosco come lui tendono a sfuggire alla giustizia, nonostante i loro servizi siano parte integrante della struttura. Secondo Trafficking culture, “fungono da perno, da collegamento essenziale che permette a un oggetto antico, saccheggiato dai poveri del mondo e trasferito dai trafficanti, di entrare nei nostri spazi culturali più elitari, trasformandolo da merce di contrabbando in bene legale”. Lotfi ha negato qualsiasi illecito. Un avvocato di Charnier ha accusato le autorità francesi di aver fatto del suo cliente un capro espiatorio. “Se vogliamo creare un museo universale ad Abu Dhabi, ci sono dei rischi”, ha detto, “e non possiamo farne ricadere la responsabilità su una sola persona”.

A Manhattan Bogdanos ha colpito l’intera catena criminale. Le sue incursioni negli appartamenti di collezionisti di alto profilo hanno fatto luce su un mondo raffinato in cui, come dice lui stesso, “le transazioni avvenivano ai cocktail party e nei club”. Ha sequestrato così tante antichità al Met che il museo ha creato un’unità speciale dedicata alla ricerca sulla provenienza. Bogdanos mi ha detto che l’effetto di questi sforzi è stato “un risveglio delle coscienze” del collezionismo newyorchese: “I pezzi più sospetti non arrivano più negli Stati Uniti”.

A un certo punto sembrava che le accuse contro Martinez e Charnier potessero essere ritirate, ma il 3 febbraio la corte d’appello di Parigi ha annunciato che il procedimento sarebbe andato avanti. Gli Emirati Arabi Uniti sono rimasti in silenzio. Gli avvocati dei due uomini hanno affermato che le pressioni del comitato per le acquisizioni di Abu Dhabi hanno avuto un ruolo nella loro decisione. Ma la portata delle relazioni tra la Francia e gli Emirati – che comprendono investimenti, condivisione di informazioni e cooperazione militare (l’unica base francese nella regione è ad Abu Dhabi) – significa che è in gioco molto di più della reputazione di alcuni funzionari del museo. Se Martinez e Charnier saranno condannati, Abu Dhabi sarà la parte lesa. Saranno le autorità francesi ad apparire corrotte e ipocrite.

L’indagine francese non riguarda solo la stele di Tutankhamon e il sarcofago di Nedjemankh, ma anche altri cinque oggetti, tutti egiziani, venduti dalla rete Kunicki, tra cui un ippopotamo in porcellana blu, un ritratto funerario del Fayyum e un busto di Cleopatra che ora è stato riclassificato. Zahi Hawass, il patriarca dell’egittologia di stato, ha dichiarato che Il Cairo stava lavorando per recuperare la stele. Ma è stato smentito da un funzionario del patrimonio archeologico, secondo il quale il governo stava aspettando la conclusione dell’indagine francese. Potrebbero volerci anni. Nedjemankh è stato restituito solo grazie agli sforzi di Bogdanos. Il più delle volte, le proteste egiziane non portano a nulla.

Cancellare lo stato

La collezione irachena del Louvre Abu Dhabi ha suscitato meno polemiche in occidente. Quando il museo è stato inaugurato, nel 2017, gli iracheni si sono infuriati sui social network, sostenendo che molti degli oggetti esposti erano stati saccheggiati dopo l’invasione del 2003. Un funzionario iracheno ha annunciato che il governo avrebbe indagato e rimpatriato tutti i manufatti rubati. Ma non c’è stata alcuna iniziativa statale e la campagna è passata sotto silenzio. Non è chiaro quali delle antichità irachene – se ce ne sono – nella collezione del museo siano illecite: alcune sono in prestito dal Louvre di Parigi, altre sono recenti acquisizioni di Abu Dhabi.

A Manhattan Bogdanos ha colpito l’intera catena criminale

La reazione irachena è comprensibile. Il paese ha assistito a trent’anni di distruzione del patrimonio culturale avviata dall’occidente. La prima ondata cominciò nel 1996, quando una popolazione spinta alla povertà dal programma dell’Onu che prevedeva la vendita di petrolio in cambio di aiuti umanitari cominciò a saccheggiare i siti culturali per sopravvivere. La seconda avvenne nel 2003, quando né gli statunitensi né l’esercito iracheno protessero il museo e la biblioteca nazionale di Baghdad dai saccheggi. La terza si è verificata sotto l’Is, che ha tratto profitto dal crollo dello stato iracheno, scavando e saccheggiando vaste aree del patrimonio mesopotamico. L’identità nazionale dell’Iraq fa molto affidamento su questo patrimonio, condiviso dai vari gruppi etnici e religiosi: caldei, ebrei, assiri, armeni, curdi, musulmani sciiti e sunniti, turkmeni. Sotto Saddam Hussein una forza di polizia sorvegliava i luoghi di interesse culturale, mentre l’edilizia e la pianificazione nelle aree di rilevanza archeologica erano regolamentate dallo stato.

La distruzione e la dispersione del patrimonio culturale iracheno dopo l’invasione del 2003 ha preannunciato la frammentazione del paese in feudi religiosi. Anche se alcuni saccheggi sono avvenuti spontaneamente nel caos del momento, c’erano già i segni di una sistematicità. Chi ha beneficiato di questa distruzione? Forse una decina di figure regionali e locali. Con il governo centrale annientato, i baathisti esclusi dalla vita pubblica, i tesori depredati e le istituzioni culturali saccheggiate o bruciate, era inevitabile che le comunità religiose ed etniche si muovessero per proteggere i propri siti e manufatti. Oggi i curdi svolgono le loro attività di tutela del patrimonio culturale nel nord del paese, l’Iran finanzia i lavori di ricostruzione nelle aree sciite e gli Emirati sostengono gli sforzi nelle regioni sunnite.

Il presidente iracheno, Abdul Latif Rashid, ha dichiarato all’inizio di quest’estate che la ricostruzione del patrimonio nazionale “deve essere una delle massime priorità”, un modo per dimostrare che “la pace e la sicurezza sono state ripristinate”. Ma come mi ha detto un archeologo iracheno, il ministero della cultura, del turismo e delle antichità è praticamente in bancarotta. Lo stato iracheno non stanzia quasi nulla per il patrimonio culturale, e tutti i fondi sono gestiti da partiti politici confessionali. I controlli della polizia nei siti archeologici sono così poco rigorosi che le tavolette cuneiformi, facilmente contrabbandabili date le piccole dimensioni, hanno inondato i mercati illegali. Inoltre non servono sofisticate reti criminali o documenti falsificati: nel 2022 un geologo britannico in visita in Iraq si è sentito in diritto di riempire la sua valigia con antichi frammenti di ceramica. Quando è stato arrestato dalle autorità irachene all’aeroporto di Baghdad, ha dichiarato di non sapere che il commercio di antichità fosse illegale.

Quasi tutti i lavori sul patrimonio culturale condotti in Iraq sono finanziati da donatori esterni. Il modo in cui operano, mi ha detto l’archeologo, indebolisce il ruolo già compromesso dello stato iracheno. Quando nel 2020 l’Unesco aveva annunciato la ricostruzione della moschea di Nouri a Mosul, il direttore dell’ufficio per l’Iraq aveva dichiarato che il progetto sarebbe stato “orientato alla comunità” e che i lavori avrebbero seguito i desideri della popolazione di Mosul, perché “si tratta della loro città e del loro patrimonio”. Secondo l’archeologo, “i donatori usano il concetto di comunità per legittimare i propri programmi e interventi. Ogni volta che parliamo di Iraq cancelliamo deliberatamente lo stato”. Il principale donatore è l’Alleanza internazionale per la protezione del patrimonio nelle aree di conflitto (Aliph), un consorzio fondato da Emirati e Francia nel 2017 con il sostegno dell’Unesco. Attraverso l’Aliph, Abu Dhabi versa 50 milioni di dollari (57,7 milioni di euro) per la ricostruzione di zone storiche di Mosul, che sarà completata con il sostegno del Louvre. Il finanziamento è indispensabile ed è difficile immaginare chi altro potrebbe saldare un conto simile nel cuore sunnita dell’Iraq. Ma le dipendenze finanziarie e politiche che s’instaurano sono complesse.

La conquista del settore del patrimonio culturale iracheno compiuta da attori internazionali ha fatto apparire l’Iraq come una proprietà coloniale ottocentesca, dove i funzionari locali sono allontanati nei momenti chiave di uno scavo. I ministri firmano accordi basati su modelli di cooperazione vecchi di decenni che danno il controllo alle istituzioni esterne. Spesso questi progetti dovrebbero formare e sostenere gli archeologi iracheni nel “recupero post-bellico”, ma nella pratica la formazione è scarsa. “Le istituzioni occidentali sono felici che la parte irachena dipenda da loro sia per le competenze sia per il denaro”, sostiene l’archeologo.

Una questione di giustizia

Un effetto di questa dipendenza, che l’Egitto e l’Iraq sperimentano in modi diversi, è che i loro governi non sono in grado di esigere la restituzione del patrimonio, sia dalle case d’asta sia dai musei. Nel 2002 diciotto musei europei e statunitensi, tra cui il Met e il Louvre, rilasciarono una “dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali”, sostenendo che “i musei non servono i cittadini di un solo paese, ma quelli di tutti i paesi” e che “restringere il campo d’interesse dei musei le cui collezioni sono diverse e sfaccettate sarebbe un disservizio per tutti i visitatori”. In altre parole, niente rimpatrio. Cinque di questi musei – il Rijksmuseum, nei Paesi Bassi, il Museum of fine arts di Boston, il Getty di Los Angeles e il Moma e il Met a New York – sono stati costretti a restituire i manufatti illeciti ai paesi di origine. Se la premessa della dichiarazione oggi può non essere più politicamente sostenibile, nel 2002 era già discutibile. L’idea che un ventenne nigeriano, iracheno o iraniano possa visitare la Francia o il Regno Unito per vedere i bronzi del Benin o i rilievi assiri o l’intera città persiana di Susa è ridicola. Ma anche se, per ipotesi, una giovane irachena riuscisse a ottenere un visto per entrare nel Regno Unito quest’anno, al British museum non troverebbe l’intera serie di rilievi assiri dato che molti sono in prestito alla villa Getty di Los Angeles. Come mi ha detto un ex curatore, la pratica di prestare oggetti ad altri musei per un ritorno economico – come fa il Louvre di Parigi con Abu Dhabi – è una tacita ammissione che la collezione del museo è abbastanza abbondante da poterne fare a meno. “A mio parere, è un modo irresponsabile di trattare il patrimonio culturale di un altro paese”, ha osservato il curatore. “Quando se ne è in possesso, deve essere curato adeguatamente e va reso disponibile. Se i musei hanno così tanta roba da potersi permettere di spedirla in altri luoghi, dovrebbero pensare a rimandarla da dove è venuta”.

Restituzione e acquisizione sono inestricabilmente legate. La Francia, e per estensione gli Emirati Arabi Uniti, dovrebbero essere ritenuti responsabili di pratiche di acquisto illecite nel ventunesimo secolo mentre altre istituzioni si rifiutano ancora di esaminare le loro collezioni storiche, accumulate nello stesso modo? Molti archeologi ed esperti di patrimonio culturale ritengono che sia necessaria una risoluzione o un accordo internazionale, magari promosso dall’Unesco. In questo modo si potrebbero concordare linee guida etiche per le nuove acquisizioni e per la valutazione delle collezioni storiche. “È una questione di giustizia”, mi ha detto Mark Altaweel, archeologo dell’University college di Londra. “Altrimenti ci troviamo in una situazione in cui alcune persone devono seguire standard diversi perché vivono nel Golfo. Accusiamo i musei più giovani di incoraggiare il saccheggio, e forse è vero, ma c’è dell’altro”.

Una risoluzione internazionale che affronti sia il saccheggio coloniale sia il traffico attuale sembra impossibile. I paesi che ne trarrebbero più beneficio hanno meno influenza in contesti come l’Onu. E neanche “soluzioni ad hoc per convenienza politica saranno utili o vantaggiose per i paesi che vogliono indietro le loro cose”, mi ha detto un ex curatore.

È passato un secolo da quando Howard Carter scavò la camera funeraria di Tutankhamon e nascose decine di pezzi che il Met poi comprò dalla sua proprietà (sono stati restituiti all’Egitto nel 2010). I segni di cambiamento ci sono. L’argomentazione a lungo sostenuta dagli oppositori del rimpatrio – che le antichità sono più sicure nelle istituzioni occidentali che nelle mani corrotte degli stati del sud del mondo – suona sempre più pretestuosa. Recenti scandali hanno fatto emergere la mancanza di protezione per le antichità presenti in collezioni occidentali molto apprezzate. Il British museum, alle prese con una serie di furti nelle sue sale, è in trattative con la Grecia per un prestito dei marmi del Partenone, in cambio di pesanti garanzie.

Nelle regioni che affrontano il collasso economico e le sanzioni globali spesso sono molto attivi i privati. L’imprenditore libanese Jawad Adra è diventato un controverso custode del patrimonio nel suo paese e in Siria, per aver acquistato antichità della zona e averle esposte nel suo museo privato o restituite allo stato di origine. Ha collaborato con le autorità libanesi per creare un registro delle antichità, sia per proteggere chi ne è in possesso in caso di furto sia per raccogliere informazioni su oggetti e collezioni che altrimenti rimarrebbero nascoste. Adra ha i suoi detrattori. Ma il suo approccio è pragmatico e si concentra sul ritorno degli oggetti nella regione, che concepisce in senso ampio “non come l’eredità dell’accordo Sykes-Picot” in base al quale Francia e Regno Unito si spartirono il Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale. Se un’opera della Palestina è esposta in Libano, o un’opera libanese a Damasco, si tratta comunque di una sorta di rimpatrio morale, meglio che averla in un museo di Parigi o nella casa di un collezionista privato a New York. “Se non lo compri e non lo riporti indietro, cosa fai? Gridi e basta? Devi contribuire alla soluzione”. ◆ svb

Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice statunitense di origine iraniana. Il suo ultimo libro è Guest house for young widows (Random House Audio 2019). In Italia ha pubblicato Viaggio di nozze a Teheran (Newton Compton 2009), Lipstick jihad (Pisani 2006) e Il mio Iran (Sperling&Kupfer 2006), scritto con l’avvocata e premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. È stata corrispondente dal Medio Oriente per Time e per il Los Angeles Times, e collabora con il New York Times e il Guardian. Dirige il progetto Genere e conflitto dell’International crisis group.

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati