Avendo dimensioni, massa e densità simili alla Terra, Venere dovrebbe generare calore al suo interno – attraverso il decadimento degli elementi radioattivi – più o meno come il nostro pianeta. Sulla Terra il calore si manifesta principalmente attraverso l’attività vulcanica: ogni anno eruttano in media più di cinquanta vulcani.

Nonostante decenni di ricerche, però, finora non erano stati rilevati segni evidenti di attività vulcanica su Venere. Ora grazie a uno studio condotto dal geofisico Robert Herrick dell’università dell’Alaska a Fairbanks, negli Stati Uniti, pubblicato sulla rivista Science, uno dei vulcani venusiani è stato finalmente visto in azione.

Studiare la superficie di Venere non è facile perché il pianeta ha un’atmosfera densa ed è avvolto da uno strato ininterrotto di nuvole tra i 45 e i 65 chilometri di altitudine, che risulta opaco alla maggior parte delle lunghezze d’onda. Acquisire un’immagine dettagliata del suolo attraverso le nubi è possibile solo da un velivolo orbitante che sia dotato di radar.

Per produrre l’immagine della superficie si usa una tecnica nota come sintesi d’apertura, che combina la forza variabile degli echi del radar che rimbalzano al suolo e i lievi cambiamenti di frequenza che corrispondono alla maggiore o minore distanza del velivolo dall’origine di una determinata eco. Il risultato è un’immagine in bianco e nero in cui le zone chiare sono le superfici più aspre e quelle scure le più lisce.

La sonda Magellano della Nasa ha orbitato intorno a Venere tra il 1990 e il 1994, usando questa tecnica per mapparne la superficie. È emerso che più dell’80 per cento era ricoperto da colate di lava. A quando risalissero le più recenti, e se ci sono ancora vulcani attivi, è invece rimasto un mistero per quasi trent’anni.

Alcuni indizi di attività vulcanica erano stati osservati. È emerso, per esempio, che le rocce erano così giovani che i minerali non avevano ancora subìto le alterazioni causate dalla reazione con l’atmosfera acida, segno che la lava doveva essere recente. Erano state anche rilevate anomalie termiche, forse dovute a colate attive, e variazioni temporanee nella concentrazione di anidride solforosa, un altro potenziale segno di eruzioni vulcaniche. Niente di tutto questo, però, convinceva fino in fondo gli scienziati.

Il cratere si espande

Herrick e i suoi colleghi sembrano ora aver risolto ogni dubbio individuando cambiamenti nella superficie chiaramente riconducibili all’attività vulcanica. Gli autori dello studio hanno passato centinaia di ore a confrontare le vecchie immagini radar di zone di Venere ritratte più volte. Analizzandone una hanno notato mutamenti significativi tra febbraio e ottobre 1991, spiegabili con un’eruzione vulcanica avvenuta in quel periodo.

Le due immagini mostrano un cratere con un diametro di circa un chilometro e mezzo che nel giro di pochi mesi s’ingrandisce, espandendosi verso est. Dato che diventa anche meno profondo, l’ipotesi è che un camino vulcanico sia crollato parzialmente per poi riempirsi di nuova lava. A nord del cratere si notano colate fresche lunghe vari chilometri, defluite oltre il bordo o uscite da una fenditura. Il cratere attivo si trova sulla vetta del Maat Mons, uno dei principali vulcani venusiani, alto circa cinque chilometri.

Molti scienziati erano già convinti che su Venere ci fosse attività vulcanica. Ora l’obiettivo è capire quanti vulcani ci sono e quanto spesso eruttano. Analizzare l’attività vulcanica in corso è uno dei principali obiettivi delle missioni Veritas della Nasa ed EnVision dell’Esa. Approvate nel 2021, saranno entrambe dotate di radar migliori di quello di Magellano. EnVision dovrebbe entrare nell’orbita di Venere nel 2034, mentre l’arrivo di Veritas era previsto qualche anno prima, ma il programma ha subìto dei ritardi. Considerando anche la missione DaVinci della Nasa, che dovrebbe precedere sia Veritas sia EnVision fornendo immagini ottiche da sotto le nubi, ci aspettano anni entusiasmanti. ◆ sdf

David Rothery è professore di geologia planetaria alla Open university a Milton Keynes, nel Regno Unito.

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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati