Si dice che quando si immerge una rana nell’acqua fredda e si fa bollire l’acqua molto lentamente, la rana si intorpidisce, si abitua alla temperatura e finisce per morire cotta. Nella sua interpretazione metaforica, la rana siamo noi e la storia è usata per spiegare come un cambiamento importante possa più facilmente essere accettato se avviene gradualmente, con piccoli passi impercettibili. La rana intorpidita e cotta viene in mente quando si parla di manifestazioni fasciste in Italia.

Ci siamo abituati a sentir dire che singolarmente prese molte di queste manifestazioni non rappresentano nulla di grave, anzi sono anacronistiche pagliacciate. In fondo non ci sono carri armati per le strade, la libertà d’espressione è garantita, i diritti fondamentali sono rispettati. Ma il punto è che il ripetersi di questi raduni contribuisce a banalizzarli e a spostare progressivamente il confine di quello che è considerato accettabile, dunque normale, e li fa diventare rituali di gruppo che non preoccupano più nessuno. Come la doppia commemorazione per i militanti neofascisti uccisi il 7 gennaio 1978 in via Acca Larenzia, a Roma: una la mattina, con esponenti politici e, a volte, figure istituzionali (ed è difficile capire perché quest’anno abbia sentito il bisogno di partecipare anche l’assessore alla cultura della giunta di centrosinistra del comune di Roma); l’altra il pomeriggio, con centinaia di persone che fanno il saluto fascista. La storia raccontata da Zerocalcare questa settimana descrive bene cosa succede quando un paese uscito da una dittatura, e passato per la democrazia, si trasforma lentamente in un’altra dittatura. La linea di confine tra farsa e tragedia, tra pagliacciata e regime, è sottile al punto da non essere sempre visibile. E quando ci si accorge di averla superata è troppo tardi, non solo per le rane. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati