Nell’ospedale Al-Najjar di Rafah, nella Striscia di Gaza, 8 febbraio 2024. (Mahmud Hams, Afp)

Mercoledì 14 febbraio il numero dei palestinesi uccisi dall’esercito israeliano da quando la guerra è cominciata, il 7 ottobre, è arrivato a 28.576, scrive l’agenzia di stampa Afp. In gran parte sono donne e bambini.

Tra le vittime ci sono anche dei giornalisti, cioè le persone che cercano di far sapere al resto del mondo quello che succede sul posto. La loro lista è aggiornata dal Committee to protect journalists. Sono 85 e si tratta soprattutto di palestinesi (78), ma ci sono anche israeliani (4) e libanesi (3).

Le autorità israeliane continuano a impedire ai giornalisti stranieri di entrare nella Striscia di Gaza. Molti di quelli uccisi erano freelance o lavoravano per giornali locali, quindi senza tutte le tutele che di solito può permettersi solo chi lavora per i grandi mezzi d’informazione internazionali.

Il Washington Post è riuscito a intervistare colleghi, amici e parenti di alcuni di loro. Ricordare chi erano è anche un modo per non dimenticare che oltre ai numeri ci sono persone in carne e ossa.

Mosab Ashour aveva 22 anni, era un freelance e frequentava l’ultimo anno di università. Nella sua ultima telefonata con uno zio aveva detto di voler lasciare Gaza. È stato ucciso in un attacco israeliano nel campo profughi di Nuseirat.

Roshdi Sarraj aveva 31 anni, era un videogiornalista. Pochi giorni prima di essere ucciso aveva lanciato un appello per la sicurezza dei giornalisti: “Abbiamo bisogno di protezione internazionale”, aveva detto in un messaggio vocale. È morto in un attacco israeliano mentre si trovava nella casa dei genitori.

Ayat Khadoura aveva 27 anni, era una freelance. Un attacco israeliano ha colpito la casa dove viveva, nel nord di Gaza, uccidendo lei e alcuni fratelli, ha raccontato la sorella Yasmin. I parenti non hanno potuto seppellirla perché il suo corpo è stato fatto a pezzi. “Ayat voleva diventare una grande giornalista, studiare di più, procurarsi un’attrezzatura per le riprese”. Ma nei suoi ultimi giorni di vita, “mi diceva: ‘Non voglio più nulla. Voglio solo che la guerra finisca’”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati