Spesso è giusto chiamare “abuso” la violenza esercitata dai genitori sui figli, dagli uomini sulle donne, dai poliziotti statunitensi sugli afroamericani, dall’esercito israeliano contro gli abitanti di Gaza. Ma è anche importante distinguere questo tipo di attacco, che implica sempre la dominazione di un attore su un soggetto, da altre forme di conflitto meno sbilanciate.

È quanto si propone di fare la scrittrice e attivista queer statunitense Sarah Schulman in questo libro-manifesto, convinta che oggi di abusi si parli troppo spesso e che il rivendicare di aver subìto un abuso quando non è così porti alla colpevolizzazione dell’altro, produca ingiustizia e renda più difficile una soluzione.

Con esempi tratti dalla pratica dell’intervento sociale più che dalla teoria, traccia un filo rosso che va dalle relazioni interpersonali a quelle internazionali, nota convergenze inquietanti (tra suprematisti e traumatizzati) e fornisce concetti utili per pensare e ridefinire gli scontri in cui ci troviamo invischiati: l’esagerazione del danno (la tecnica usata da persone e stati per definirsi vittime di abusi quando non lo sono); il trigger (la reazione spropositata di chi confonde conflitto e abuso); l’escalation (conseguenza del rifiuto di negoziare); l’esclusione (dell’altro). Alla fine Schulman suggerisce strategie di soluzione come la posticipazione e, soprattutto, l’assunzione della responsabilità. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati