Negli anni settanta la navigazione per mare era una zona di frontiera con poche regole e ancor meno controlli, soprattutto nelle aree più remote, come nelle acque intorno alla Tasmania. Proprio da un porto nel sudovest dell’isola australiana salpò la Blythe Star, una nave cargo che trasportava un carico forse eccessivo di bancali di fertilizzante e barili di birra. Nonostante le previsioni del tempo favorevoli e nessun ostacolo alla navigazione, la nave cominciò a piegarsi su un lato e sprofondò. Il capitano, che non aveva fatto in tempo a lanciare la richiesta di soccorso, riuscì a sganciare un gommone di salvataggio sul quale salì tutto l’equipaggio di dieci persone. La giornalista Piia Wirsu racconta, a cinquant’anni dall’evento, la storia di un naufragio così avventuroso che sembra la Storia di Arthur Gordon Pym di Poe. Il sound design, all’inizio un po’ ruffiano, lascia posto alle voci dell’ultimo tra i sopravvissuti, dei protagonisti e dei familiari di quella vicenda, raccontata da tutti i punti di vista: quello dei naufraghi, che in undici giorni attraversarono scogli, fame, freddo, sete e allucinazioni collettive. E poi c’è il punto di vista di chi li aveva già dati per morti e di chi invece continuava ostinatamente a cercarli. Per cinque puntate, l’ascoltatore è in mare aperto, a contatto con una vicenda umana estrema, fatta di testimonianze autentiche e commoventi. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati