Ci sono le interviste, e poi ci sono le conversazioni in cui te ne stai lì con il registratore e senti che il tuo interlocutore ti sta trasformando. C’è sempre una parte di me, convinta di essere molto giovane e molto inesperta, che sta su una poltrona in un salotto di Bologna davanti a Emidio Clementi a parlare dell’uscita di Aspettando i barbari dei Massimo Volume. È il 2013, sto facendo un’intervista per il Mucchio Selvaggio e non so ancora che undici anni dopo mi ritroverò a citare brandelli di quella conversazione a un artista appena conosciuto mentre è quasi buio, fa molto freddo e siamo in mezzo al Cretto di Burri a parlare d’invenzione, riciclo della materia e della salute che splende sul viso quando non si ha nostalgia, soprattutto del tempo che non ci è mai appartenuto.

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In mezzo a quella lapide e a quel labirinto penso a Stagioni. Tributo ai Massimo Volume, uscito per la NOS Records. So che voglio recensirlo, ma fatico per la mia falsa coscienza, perché mi sembra di tradire un’idea originaria in me, e cioè che i Massimo Volume siano incantabili, irriproducibili. E anche se molte cose nei loro dischi generano un urlo, quell’urlo è sempre senza bocca. O meglio, è sempre quella bocca, quella voce, e non possono essercene altre. E se invece in una dimensione parallela le altre voci esistessero? Non nominerò gli artisti che partecipano a questo omaggio, dono o perfino richiesta di una restituzione – se consideriamo che la bellezza è un furto – perché meritano di essere scoperti nella loro ricerca.
P.s. Durante la coda strumentale di Qualcosa sulla vita ho pianto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati