Solo quando nella sua strada compaiono i militari, Sira-
nush Sargsyan, 39 anni, capisce che se ne deve andare. È una delle ultime persone rimaste in città. Il caos è completo: i collegamenti telefonici sono interrotti, non c’è quasi elettricità e per la strada cammina gente traumatizzata che ha appena lasciato la propria casa. Sargsyan aiuta come volontaria nel ricovero di emergenza e nel frattempo gira brevi video che diffonde sui social network. Sono già nove mesi che questa zona è isolata dal resto del mondo, il cibo scarseggia e non c’è nemmeno un giornalista straniero che possa documentare l’entità del disastro umanitario in corso.

Appena avvista i soldati, Sargsyan corre verso casa. Raccoglie un po’ di cose in fretta e fugge nella piazza centrale. È già sera quando riesce a trovare posto in un’auto pronta a unirsi alla lunga colonna che si è formata nei giorni precedenti. Salgono impauriti verso il valico di montagna. Sul sedile posteriore c’è una donna anziana che non è mai uscita dal suo villaggio. Hanno fame. Dopo 27 ore bloccati al valico, l’auto non ce la fa più. Il vecchio veicolo non ha resistito a tutte le volte che si è dovuto fermare e poi ripartire. Sarg-
syan afferra lo zaino e decide di proseguire a piedi. “Resta con noi, troveremo una soluzione”, le dicono i compagni di viaggio. Ma lei non vuole aspettare. Vuole andare avanti. Supera il lungo corteo di automobili cariche di persone e cose, in alcuni casi impilate fino al tetto.

Poco prima del confine, Sargsyan trova un posto in piedi su un autobus. Supera la frontiera con il cuore in gola. Nel primo villaggio in territorio armeno le danno una bottiglietta d’acqua. L’unica cosa che riesce a pensare è: sono ancora viva. Solo in seguito comincia a farsi delle domande.

Alla fine del settembre 2023 l’intera popolazione del Nagorno Karabakh è fuggita oltre il confine con l’Armenia in seguito all’invasione dell’esercito dell’Azerbaigian: un esodo di proporzioni bibliche. Questo conflitto ai margini dell’Europa è rimasto poco tra le notizie internazionali, fino a quando, una settimana dopo, è scoppiata la guerra a Gaza e tutti gli occhi si sono puntati su Israele. I colloqui di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian sono in corso, ma sul destino dei profughi regna ancora molta incertezza.

Il 1 gennaio 2024 la repubblica del Nagorno Karabakh (non riconosciuta dalla comunità internazionale) ha smesso formalmente di esistere. Poco dopo l’invasione compiuta dall’Azerbaigian, il presidente aveva firmato un decreto in cui aveva promesso di sciogliere tutte le istituzioni statali entro quella data. In realtà le istituzioni non sono mai state riconosciute dall’Azerbaigian o dalla comunità internazionale. Ex regione autonoma a maggioranza armena all’interno dell’Azerbaigian, all’epoca repubblica dell’Unione Sovietica, il Nagorno Karabakh aveva proclamato unilateralmente l’indipendenza nel 1991. Tre anni dopo gli armeni dell’enclave vinsero la guerra che nel frattempo era scoppiata e per più di trent’anni hanno tenuto viva l’illusione di poter avere uno stato proprio, con tanto di presidente, parlamento, bandiera e inno nazionale. Il 2 settembre di ogni anno si celebrava con grande solennità il giorno dell’indipendenza, mentre ai confini con l’Azerbaigian di tanto in tanto scoppiavano degli scontri e i giovani soldati di leva avevano cominciato a capire che la realtà era più complicata. Con il sostegno dell’Armenia e della Russia, però, gli abitanti si credevano al sicuro, almeno fino a quando, nel 2020, è scoppiato un nuovo conflitto e la situazione è cambiata radicalmente. Ecco il ritratto di un paese che nessuno ha mai riconosciuto e che cessa di esistere.

Una nuova vita

Saro Saryan, 61 anni, è cresciuto a Baku, un’importante città portuale dell’Unione Sovietica e poi capitale multiculturale della repubblica dell’Azerbaigian. Negli anni sessanta e settanta del novecento l’atmosfera è piacevole e cosmopolita. Nelle lunghe sere d’estate Saryan passeggia con gli amici sul viale lungo il mar Caspio e nessuno fa caso a chi è armeno o azero. Insieme parlano russo e non immaginano che di lì a breve le loro vite prenderanno una svolta drastica.

Anche nella regione montuosa del Nagorno Karabakh gli armeni e gli azeri convivono. In realtà, negli anni successivi alla morte di Stalin, tra gli armeni della repubblica azera aumenta lo scontento: ritengono che lo spazio per la loro lingua e la loro cultura sia troppo esiguo e vedono calpestati i loro diritti politici. Le proteste contro l’assimilazione culturale forzata trovano spazio con l’arrivo di Michail Gorbačëv e della sua politica di glasnost e perestroika. Con il motto miatsum (riunificazione), nel 1988 molte persone scendono in piazza per chiedere l’annessione all’Armenia. Le manifestazioni alimentano le tensioni nelle due repubbliche sovietiche e presto l’atmosfera si fa più tesa. Sia in Azerbaigian sia in Armenia ci sono dei pogrom in cui decine di civili vengono brutalmente uccisi. Negli anni successivi, centinaia di migliaia di persone passano in tutta fretta i confini da una parte e dall’altra.

Saryan e i suoi genitori scappano appena in tempo da Baku. Fuggono nel Nagorno Karabakh, rivendicata da entrambe le repubbliche come una sorta di Gerusalemme del Caucaso. Secondo gli armeni è l’ultima roccaforte cristiana in una zona dominata per secoli dal nemico islamico. Con i suoi antichi monasteri l’Artsakh, come la chiamano gli armeni, è il simbolo della loro civiltà. Per gli azeri la regione è la culla della loro cultura, essendo il luogo natale di alcuni dei loro più celebri poeti e musicisti.

Il territorio è molto meno cosmopolita di Baku. Per di più, anche se è vero che possiede una certa bellezza data dalle montagne e dalla storia, l’economia perde colpi e la vita è piuttosto provinciale. D’altronde, Saryan non ha molto tempo per ambientarsi. Appena gli armeni proclamano l’indipendenza comincia la prima guerra del Nagorno Karabakh, come è comunemente chiamata.

Saryan, che ha quasi trent’anni, decide di unirsi alle truppe armene. L’esperienza come soldato di leva nell’esercito sovietico gli torna comoda. Combatte al fronte per due anni finché, nel 1993, rimane ferito. Un anno dopo la Russia fa da mediatrice per il cessate il fuoco. La guerra è costata la vita a quasi trentamila persone. Gli armeni escono vincitori: hanno ottenuto il controllo sul Nagorno Karabakh e annesso grandi porzioni di territorio azero. Per gli azeri è un trauma che ha tuttora un ruolo importante nell’identità nazionale. E continuano a circondare la zona con i loro soldati.

L’odore dei gelsi

Siranush Sargsyan trascorre la gioventù nei rifugi antiaerei. I suoi genitori allevano mucche, pecore e maiali, ma la situazione non è mai abbastanza sicura per poterli portare al pascolo come faceva da ragazzina, prima della guerra. A casa loro a Sos, nella parte orientale del Nagorno Karabakh, hanno un grande frutteto di gelsi. Con quei frutti dolci fanno un distillato, specialità della regione. L’odore però comincia a nausearla. Per rimediare alla carenza di zucchero, infatti, sua nonna fa torte al gelso, biscotti al gelso, caramelle al gelso. Così, l’odore delle more di gelso cotte per Sargsyan significa guerra. E nel 2020 lo sentirà ancora una volta.

Suo zio viene ucciso in battaglia. A guerra finita, nel Nagorno Karabakh quasi tutti hanno perso un fratello, un padre o uno zio. Il paese è in lutto, ma onora i soldati caduti e la popolazione tenta di riprendere a vivere tra le macerie del Nagorno Karabakh “liberato”. Del fatto che la sua popolazione azera sia stata cacciata non si parla molto. Saro Saryan decide di rifarsi una vita a Şuşa, una città di montagna in posizione strategica nel sudovest del Nagorno Karabakh, completamente distrutta. Con le sue scuole di musica, i teatri, i musei e le biblioteche, alla fine dell’ottocento la cittadina era soprannominata “piccola Parigi”, ma di quella vivacità non è rimasto molto. Saryan va a vivere in un grande edificio circondato dalle macerie, dove prima abitavano degli azeri. Non ha dubbi morali: alla sua casa di Baku sarà successa la stessa cosa.

Profughi del Nagorno Karabakh si registrano nel centro di accoglienza di Goris, Armenia, 26 settembre 2023 (Nanna Heitmann, Magnum/Contrasto)

Come profugo deve pur andare da qualche parte e dallo stato non può aspettarsi molto aiuto. Mette in piedi un’organizzazione che difende i diritti dei profughi armeni arrivati dall’Azerbaigian. Contemporaneamente fa lavori nella sua nuova casa, che ne ha urgente bisogno. Nel terreno intorno all’edificio Saryan e la moglie coltivano patate. Hanno un figlio e una figlia, che crescono in un pezzetto di terra circondato da rovine. Nel giardino della casa c’è un enorme albero di noce che ogni anno è carico di frutti.

Anni d’oro

Settecento coppie di sposi si radunano nella piazza centrale di Stepanakert, la capitale della repubblica dell’Artsakh. Ballano tutti un valzer, con gli abiti delle spose che ondeggiano al vento. Con questo matrimonio di gruppo, nel 2008, il piccolo stato non riconosciuto sale alla ribalta delle cronache internazionali: l’imprenditore e filantropo russo-armeno Levon Hajrapetjan dona a ogni coppia duemila dollari e una mucca. Vuole dare impulso all’aumento della popolazione: per ogni bambino nato da questa unione, i genitori riceveranno una generosa somma di denaro. L’idea è che più armeni ci sono nel Nagorno Karabakh, più sarà difficile negare al paese il diritto di esistere. La giornata festiva si può seguire dal vivo in tv e gli armeni acclamano il benefattore. Nessuno può immaginare che anni dopo, nel 2017, morirà in una cella russa da prigioniero politico.

Il matrimonio collettivo avviene negli anni d’oro del Nagorno Karabakh, quando nella zona s’investe in abbondanza. Sia l’Armenia sia la diaspora internazionale sostengono il sistema scolastico, quello sanitario e le infrastrutture. Nella piazza centrale di Stepanakert si stanno costruendo imponenti edifici governativi e uno splendido parco. Il fatto che la regione sia ancora circondata dall’esercito azero e che nessun paese al mondo riconosca questo ministato del Caucaso non sembra scalfire più di tanto l’ottimismo dilagante. Gli armeni hanno la corrente geopolitica a loro favore e godono del sostegno della Russia.

È proprio in quel periodo che Laurence Broers, del centro studi internazionale Chatham House, mette piede per la prima volta nel Nagorno Karabakh. La sua prima impressione è positiva. “A Stepanakert la situazione era decisamente migliore rispetto al resto del Caucaso”, spiega. “Il Nagorno Karabakh era un’isola democratica in un mare autoritario, questo era il mantra a suo tempo. Ma ho sempre trovato quell’immagine troppo rosea. Anche qui i veri detentori del potere erano gli oligarchi”. Che la storia sia complessa gli appare ancora più chiaro quando ha l’opportunità di visitare Ağdam, la città che durante la guerra è stata annessa dagli armeni e che funge da zona cuscinetto tra l’Azerbaigian e il Nagorno Karabakh. Ci sono macerie a perdita d’occhio. “Questo lato oscuro non era messo molto in evidenza dalla comunità internazionale”.

Con Conciliation resources, l’organizzazione internazionale per la pace di cui è direttore per il programma sul Caucaso, Broers stava lavorando a un progetto per favorire il dialogo tra azeri e armeni. Mentre le vecchie generazioni avevano convissuto con gli azeri, i giovani nati dopo il 1990 non avevano mai incontrato “l’altro”. L’immagine del nemico ripetuta nei mezzi d’informazione e dai leader politici non è affatto tenera e ai giovani dei due paesi vengono presentate versioni opposte della storia. L’obiettivo di Broers e della sua organizzazione è modificare quell’immagine.

Futuro incerto

Intanto cresce la frustrazione di molti giovani dell’enclave. Si sentono rinchiusi e non riescono ad avere un’istruzione decente: basta una bottiglia di cognac o una scatola di cioccolatini per comprare un buon voto all’università. Molti vogliono andarsene, ma non è semplice: se si viene da un paese che ufficialmente non esiste, ottenere un visto è praticamente impossibile. I loro diplomi non sono riconosciuti da nessuno e le università internazionali restano inaccessibili. Nel frattempo fioriscono corruzione e nepotismo: solo chi ha conoscenze riesce a trovare lavoro, soprattutto nel settore pubblico. Sono sempre di più le persone incompetenti che ricoprono posizioni importanti e il sistema marcisce lentamente dall’interno.

Anche Siranush Sargsyan non ha illusioni sulla sua vita nell’enclave e sul modo in cui è governato il paese. Ha studiato la storia dell’Armenia e vorrebbe impegnarsi nell’ambito dei diritti umani e della salvaguardia ambientale, ma nessuna organizzazione internazionale è disposta ad avviare progetti in questo territorio conteso. In un simile vuoto internazionale, Sarg-
syan capisce che, se vuole cambiare qualcosa, dovrà fare da sola. Si candida per il consiglio comunale di Stepanakert. Ma la sua ambizione di cambiare il paese dall’interno è subito soffocata: non viene eletta, come le altre due giovani donne che si sono candidate. Assiste frustrata all’ennnesima elezione di quindici uomini, uno più incompetente dell’altro.

Resa dei conti

Il 27 settembre 2020, di mattina presto, Saro Saryan sente un’esplosione. All’inizio pensa che siano fuochi d’artificio, ma appena risuona il secondo colpo, seguito poco dopo dall’allarme aereo, capisce che qualcosa non va. Presto si ritrova a correre da un rifugio antiaereo all’altro; con altri uomini fa in modo che tutti trovino un riparo sicuro. Suo figlio è già partito per il fronte. La separazione è difficile, ma nessuno ha dubbi: il paese va difeso. Se tutto va bene suo figlio tornerà presto a casa, anche nel 2016 ci sono stati scontri al confine e sono finiti in fretta. Dopo tre giorni però viene richiamato anche Saryan: servono rinforzi. Lui ha ormai 59 anni, eppure non ha un attimo di esitazione. Lascia precipitosamente casa, senza sapere che non tornerà mai più a Şuşa.

La seconda guerra del Karabakh dura 44 giorni. L’esercito azero occupa molte parti dell’enclave e tutti i territori circostanti che erano stati annessi dall’Armenia nella guerra degli anni novanta. Gli abitanti vengono cacciati dai villaggi, alcuni macellano in fretta e furia il bestiame e danno fuoco alle case, pur di non far cadere in mani nemiche i loro beni più preziosi. Questa volta Saryan torna illeso dal fronte. A suo figlio non va altrettanto bene: è ferito e devono amputargli una gamba. Può ancora dirsi fortunato: suo cugino è rimasto ucciso, proprio come qualche altro migliaio di soldati.

Gli armeni non avevano previsto che il loro destino era segnato

Il presidente russo Vladimir Putin conduce le trattative per la pace e invia delle truppe per sorvegliare l’enclave. Alcuni armeni fuggono definitivamente, ma la maggior parte torna nella zona del Nagorno Karabakh rimasta sotto il controllo armeno. Saryan e la sua famiglia si trasferiscono in un appartamento dei parenti di sua moglie. È la seconda volta che è costretto a lasciare tutto. Gli mancano la sua casa a Şuşa, i suoi libri e il grande albero di noce.

“Russi e armeni sono amici per sempre”, recitano gli striscioni ai lati della strada. Quasi tutti gli abitanti del Nagorno Karabakh sono tradizionalmente filorussi e, nonostante lo shock di avere perso gran parte del loro paese, sono convinti che ora Putin li proteggerà. Dopotutto, i suoi soldati sono schierati lungo il confine.

Poi, però, Mosca invade l’Ucraina e i rapporti geopolitici cambiano. Gli armeni non possono ancora prevedere che da questo dipenderà anche il loro destino.

Una protesta a Erevan, Armenia, 21 settembre 2023 (Nanna Heitmann, Magnum/Contrasto)

Il 12 dicembre 2022 c’è scompiglio al posto di frontiera del corridoio di Laçın, l’unica via di comunicazione tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia, arteria di vitale importanza per l’enclave. Con il pretesto di reprimere una “protesta ambientalista” di alcuni gruppi azeri, l’esercito di Baku chiude il confine. Solo i militari russi e i veicoli della Croce rossa possono ancora passare, e dopo un po’, nemmeno questi. Quando gli abitanti del Nagorno Karabakh cominciano a fare provviste, è già troppo tardi: in poco tempo tutti i negozi si svuotano. Anche gas e benzina scarseggiano e l’elettricità c’è per poche ore al giorno. Nei primi mesi ci si affida al baratto: due chili di farina per un tubetto di dentifricio, tre uova per un pacchetto di fazzolettini. Gli abitanti del Nagorno Karabakh non si danno per vinti e diventano creativi, molti hanno vissuto la guerra degli anni novanta e tornano in modalità di sopravvivenza. Le donne cucinano sui falò, preparano il caffè con la farina di ceci, fanno dolci con le more di gelso. In classe i bambini tengono addosso la giacca e fanno i compiti a lume di candela. Dopo un po’, però, la disperazione comincia a crescere. Sono sempre di più le persone che soffrono la fame e alcune donne per la tensione non riescono più ad allattare. C’è grande scarsità di latte in polvere. Gli anziani si ammalano, aumenta il numero di aborti spontanei. La gente sta ore in fila per un pezzo di pane.

“Genocidio”, accusa Luis Moreno Ocampo, ex procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi). Cerca di attirare l’attenzione sulla crisi umanitaria in corso nell’enclave. Anche Amnesty inter­national e Human rights watch danno l’allarme e i leader internazionali chiedono al presidente azero Ilham Aliyev di rispettare i diritti degli abitanti del Nagorno Karabakh. Nel febbraio 2023 la Cpi intima all’Azerbaigian di interrompere il blocco. Ma non serve a niente: il confine resta sigillato. “Viviamo in una prigione a cielo aperto”, scrive Siranush Sargsyan sui social media. Comincia a girare video per far capire al mondo quanto sia drammatica la situazione. I suoi messaggi vengono notati dai mezzi d’informazione internazionali e ben presto lei riceve minacce per la sua “propaganda separatista”. Su internet vede la lunga fila di camion pieni di aiuti umanitari, fermi nel corridoio di Laçın. Si sente tradita dalla Russia, dagli Stati Uniti e perfino dall’Armenia. Perché nessuno fa niente? Vorrebbe una tazza di caffè, ma l’odore della bevanda di ceci la fa inorridire.

Poi, il 19 settembre 2023, risuonano altre esplosioni. In un’offensiva lampo, l’Azerbaigian occupa anche il resto dell’enclave. Ci sono circa duecento morti, tra cui cinque militari russi. Nel giro di ventiquattr’ore il presidente si arrende: la popolazione è sotto shock. Mentre l’esercito azero si avvicina, la gente corre per le strade terrorizzata. Alcuni continuano a sostenere che non se ne andranno mai dal luogo in cui sono nati. Il 25 settembre salta in aria un deposito di carburante vicino alla capitale, dove varie persone si erano accalcate nella speranza di procurarsi un po’ di benzina per fuggire: muoiono 170 persone.

Per Saryan è un punto di svolta: il Nagorno Karabakh non è più sicuro, bisogna andarsene. Brucia sul balcone le sue onorificenze militari e altri documenti che potrebbero metterlo in pericolo al confine. Con la sua famiglia sale in auto e lascia la città. Entro una settimana fuggono tutti gli abitanti dall’enclave, circa 120mila persone . Il timore che gli uomini possano essere fermati al confine si rivela infondato: passano quasi tutti. Solo quattro ex presidenti e alcuni altri leader politici vengono arrestati; oggi sono in carcere a Baku con l’accusa di separatismo e terrorismo. Sulla loro sorte non si sa molto.

Laurence Broers non è convinto del fatto che la popolazione del Nagorno Karabakh sia partita di sua iniziativa, come affermano gli azeri. “Si è trattato di una pulizia etnica come quelle degli anni novanta, ma a parti invertite”, dice. Non crede nemmeno che i diritti degli armeni saranno rispettati se decideranno di tornare nella loro terra. “Se si considera la retorica del presidente azero Aliyev, si capisce che non fa sul serio quando parla di reintegrazione. Chiama l’Armenia ‘Azerbaigian dell’ovest’ e questo fa intuire quale potrebbe essere il suo prossimo passo”.

Secondo Broers, il fatto che l’esercito azero abbia potuto conquistare il Nagorno Karabakh in 24 ore mentre le forze di pace russe stavano a guardare dipende dal cambiamento dei rapporti geopolitici. “L’ordine mondiale liberale internazionale è in declino, sta emergendo un ordine multipolare in cui acquistano rilevanza potenze regionali come la Turchia, che appoggia l’Azerbaigian. Inoltre, è cambiato anche il ruolo della Russia: non è più il protettore dell’Armenia, ma piuttosto un partner”. Mentre gli abitanti del Nagorno Karabakh credevano che Mosca li avrebbe protetti se le fossero rimasti fedeli, l’Armenia aveva già capito che non poteva più puntare tutto su un’unica carta. “Dopo la guerra del 2020 si è messa alla ricerca di nuovi alleati in occidente. E anche l’adesione alla Corte penale internazionale, che nel 2023 ha emesso un mandato di arresto per Putin, ha complicato la situazione”.

Nella capitale armena, Erevan, Sira-
nush Sargsyan ordina il suo primo caffè. L’ha desiderato tanto, ma adesso che ce l’ha davanti non riesce a gustarlo. Gli scaffali pieni nei negozi causano un cortocircuito nella sua testa, le sembrano surreali. Come molti altri profughi, Sargsyan ha trovato un alloggio temporaneo tramite dei conoscenti, ma non sa quanto a lungo potrà restarci. In questo piccolo paese (l’Armenia ha tre milioni di abitanti scarsi) con l’arrivo dei profughi i prezzi delle case sono saliti alle stelle, alcuni dormono ancora in palestre o alberghi abbandonati.

La città fantasma

Due mesi dopo la fuga, Sargsyan vive ancora con le cose che è riuscita a infilare nello zaino, tutto il resto ha dovuto lasciarlo nel suo appartamento nel Nagorno Karabakh. A volte gira ancora brevi video per attirare l’attenzione sul destino di chi viveva nel suo paese, ma non sempre ha l’energia necessaria. A volte resta tutto il giorno a letto. “Perché tutti ci hanno abbandonato?”, continua a chiedersi. “Negli anni novanta i soldati sono morti per la nostra libertà. Ma abbiamo comunque perso il Nagorno Karabakh. Quei ragazzi sono morti per niente”.

“Il nostro spirito è spezzato”, dice Saro Saryan dall’undicesimo piano di un palazzo di cemento in un quartiere periferico di Erevan. Un bambino gironzola per il soggiorno: è il nipote Saro, chiamato così in onore del nonno. Tre generazioni della famiglia vivono insieme in questo appartamento avuto in affitto da una persona che aveva servito nell’esercito del Nagorno Karabakh; è stata una fortuna. Ogni tanto Saryan guarda la sua casa a Şuşa tramite le immagini satellitari: è ancora in piedi? È andato a viverci qualcun altro? Vede solo il tetto e la chioma del suo amato albero di noce.

Le prime immagini dell’enclave svuotata le ha diffuse Al Jazeera. Un giornalista cammina nella piazza centrale di Stepanakert all’indomani dell’esodo. Le strade sono deserte, qui e là s’intravedono degli oggetti abbandonati. Gli unici esseri viventi sono i cani randagi, che seguono curiosi l’inviato. “È surreale”, dice, “Khankendi è diventata una città fantasma”. Khankendi è il nome azero di Stepanakert. La riconquista è ormai un dato di fatto. ◆ oa

Da sapere
Guerre d’indipendenza

1991 Il 2 settembre la regione del Nagorno Karabakh, un’enclave a maggioranza armena in territorio azero, annuncia la secessione dall’Azerbaigian. Comincia la prima guerra.
1994 Con il cessate il fuoco gli armeni prendono il controllo dell’enclave. Il bilancio della guerra è di trentamila morti e centinaia di migliaia di profughi, in maggioranza azeri.
1995-2015 Lungo la linea di contatto ci sono alcune sporadiche violazioni del cessate il fuoco.
2016 Tra il 2 e il 5 aprile scoppia la cosiddetta guerra dei quattro giorni. Un nuovo cessate il fuoco è negoziato con la mediazione di Mosca.
2020 Il 27 settembre un’offensiva azera dà il via alla seconda guerra del Nagorno Karabakh. L’Azerbaigian riconquista i terrori persi nel 1994 e diverse aree dell’Artsakh (come gli indipendentisti armeni chiamano il Nagorno Karabakh).
2023 A luglio l’Azerbaigian blocca il corridoio di Laçın, l’unica strada che collega l’enclave con l’Armenia. A settembre lo riapre. Il 19 settembre l’Azerbaigian attacca l’enclave. Il 20 settembre si raggiunge una tregua. L’Azerbaigian riprende il controllo di tutto il Nagorno Karabakh.
2024 La repubblica armena dell’Artsakh smette di esistere. Continuano i negoziati di pace tra Armenia e Azerbaigian. Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati