Le donne lo odiano, quel tragitto alla fine di una lunga giornata di lavoro: da Rummelsburg, stazione della ferrovia urbana, al complesso degli orti urbani e poi tra i lotti. In agguato tra i cespugli, lungo i vialetti bui e tortuosi, non è raro trovare acquattato qualche malintenzionato che sfrutta l’oscuramento imposto a causa dei bombardamenti inglesi. Nell’est di Berlino, tutti sanno che in questa zona succedono cose terribili.

Se solo le donne potessero farsi venire a prendere alla stazione dai loro uomini! Ma quelli, nell’autunno del 1940, sono quasi tutti al fronte e alle donne non rimane che percorrere da sole quel labirinto di vialetti. C’è la guerra e chi ha perso la casa nei bombardamenti non ha altra scelta che gli orti urbani.

Lungo i vialetti bui e tortuosi, non è raro trovare acquattato qualche malintenzionato che sfrutta l’oscuramento imposto a causa dei bombardamenti inglesi

Anche Gerda Ditter, 20 anni, con i due figli Helga e Wolfgang si è sistemata qui, nel comprensorio Gutland II: vivono nel lotto 33, vialetto 5a. Il 3 ottobre i vicini la vedono trafficare in giardino, ma il giorno dopo di lei non c’è più traccia. All’ora di pranzo arriva un funzionario, Konrad Braun, capodipartimento dell’ente nazionalsocialista per l’assistenza sociale. Porta cattive notizie: i figli di Ditter finiranno in orfanotrofio. Lui l’aveva avvertita: non riesce a occuparsi della casa, non è in grado di gestire il bilancio familiare e le incombenze quotidiane. Il marito è di stanza a Potsdam con la Wehrmacht. Quando Braun bussa a casa Ditter, però, non riceve risposta. Il lotto assegnato alla giovane madre è immerso in un silenzio inquietante, rotto solo dal pianto dei bambini. La porta sembra chiusa a chiave. Allora Braun passa dalla finestra: nel cucinino trova Gerda Ditter. È morta.

Il corpo giace senza vita, le membra straziate e contorte. Accanto alla donna una stia con le galline troneggia sul cesto dei panni. La donna ha il grembiule tirato su, le calze di nylon esposte fino al reggicalze. Braun chiama la polizia.

Il caso viene assegnato a due commissari della questura di Alexanderplatz, Lüdtke e Zach. I due si recano al comprensorio Gutland II e chiedono in giro: che tipo era, Gerda Ditter? Ha litigato due volte con il signor Herlitz, Hermann, del lotto 32, per colpa delle galline. Pare che lui abbia gridato: “Io a te da qui ti caccio e ti lascio un ricordo che non ti dimenticherai più”. Ma che possa averla uccisa, per due galline che razzolavano sul suo prato? Lüdtke e Zach fanno le loro considerazioni. Sanno bene cosa sta succedendo nella zona di Rummelsburg. Nell’ultimo anno si contano più di trenta violenze sessuali, tante donne molestate e abusate, di solito con il favore del buio e quasi sempre nello stesso identico modo: l’assalitore coglie di sorpresa le sue vittime, le abbaglia con una torcia e le violenta. Più di una volta è stato visto un uomo appoggiato alle recinzioni con le mani in mano. E due settimane prima della morte di Gerda Ditter lungo la tratta ferroviaria Rummels­burg-Wuhlheide c’è stato un tentato omicidio: qualcuno ha aggredito alle spalle la signorina Kargoll, seduta da sola in un vagone, l’ha picchiata, violentata e gettata giù dal treno, in un punto imprecisato tra Karlshorst e Wuhlheide. Lei però è stata incredibilmente fortunata: se l’è cavata quasi senza un graffio.

Mentre Lüdtke e Zach indagano sul caso Ditter, l’uomo del treno colpisce ancora. Agisce molto tardi o molto presto, per assicurarsi che le sue vittime siano sempre sole nello scompartimento di seconda classe. Spesso siedono al buio, perché quando scatta l’allarme antiaereo vengono oscurati anche i treni.

L’aggressore immobilizza le donne, le strangola o le colpisce in testa con un oggetto pesante e, in alcuni casi, prima di gettarle sui binari tirandogli dietro cappello, guanti e borsetta, le violenta. Qualcuna sopravvive, ma riporta un trauma cranico; otto muoiono. Tra loro c’è Elfriede Franke, 26 anni, il cui cadavere viene ritrovato lungo i binari il 3 di dicembre. Il rapporto di polizia recita: “La calotta cranica presenta un foro delle dimensioni di una moneta da cinque marchi, dal quale fuoriesce materia cerebrale”. Dopo qualche ora tocca a un’altra giovane abitante degli orti urbani, Irmgard Freese, 19 anni, che muore nel vicino ospedale St. Antonius Klinik, dove Franke aveva lavorato come infermiera.

La commissione omicidi di Rummelsburg è alle prese con un enigma. Due diverse modalità operative nella stessa zona: che significa? Ci sono due assassini che prendono entrambi di mira le donne o è uno solo? E se a colpire è sempre lo stesso uomo, perché a volte agisce sui treni e altre volte nel comprensorio degli orti urbani?

Né gli interrogatori né la distribuzione di volantini nei pressi della stazione fanno fare passi avanti all’indagine. E non c’è modo di coinvolgere ulteriormente la popolazione, perché il Völkischer Beobachter e gli altri giornali non possono raccontare i delitti di Rummelsburg: si darebbe l’impressione che nel popolo tedesco si possano nascondere persone capaci dei crimini più efferati.

Eppure qualcosa trapela, e ha qualche effetto: molte donne, spaventate, quando prendono il treno diretto a est salgono davanti, vicino alla cabina del macchinista, cercando di non ritrovarsi mai sole nello scompartimento.

I due commissari si concentrano sulla sopravvissuta Elisabeth Schadow, che ha visto qualcosa. Sul treno, lottando contro l’aggressore, ha notato che indossava l’uniforme dei ferrovieri. Durante un riconoscimento, anche altre sopravvissute, messe di fronte a uomini in varie uniformi, indicano quella dei ferrovieri.

I dipendenti delle ferrovie urbane sono interrogati uno per uno e le loro foto sono mostrate alle donne. C’è un sospetto, Oskar Kniera, che però ha un alibi di ferro. Interrogano anche Fritz Ahrensdorf, che una volta, con l’uniforme indosso, ha molestato una ragazza. Per lui, il suo superiore non dimostra nessuna benevolenza: “Gli piace bere e corre dietro alle donne”. Ma pure Ahrensdorf dev’essere rilasciato, perché ha un alibi e non corrisponde alla descrizione, visto che è alto quasi un metro e 80 e le donne aggredite parlano del loro aguzzino come di uno alto quanto loro. Solo uno dei sospettati nel mirino degli investigatori ha una statura compatibile. È Paul Ogorzow.

Ogorzow, pregiudicato per furto con scasso, ha evitato il carcere grazie a un’amnistia. Durante gli interrogatori fa una buona impressione: è educato e collaborativo. Con le aggressioni, però, sostiene di non avere nulla a che fare. Anche i suoi datori di lavoro, le ferrovie dello stato, lo dipingono come un uomo integerrimo: “Ogorzow è un gran lavoratore, sposato con due figli, iscritto al Partito nazionalsocialista e fa parte delle sue squadre d’assalto”. Neanche la moglie ha nulla da eccepire: Ogorzow non rincasa mai dal lavoro tardi o con i vestiti sporchi. In guerra ha partecipato alla campagna di Francia, ma è stato congedato dopo quattro settimane con una caviglia slogata. A volte va a giocare a pallone, ovviamente senza di lei. E dei 42 marchi alla settimana del suo stipendio ne tiene per sé solo due.

Insomma, Lüdtke e Zach devono lasciarlo andare. Sono passati diversi giorni e non hanno nessun sospettato per le mani. Ma almeno la polizia scientifica ha trovato qualcosa, una possibile arma del delitto: un cavo di piombo, duro e rigido quanto una spranga di ferro.

Angelo Monne

Secondo il medico legale, il cavo potrebbe aver causato le ferite riscontrate sui crani di diverse donne. Misura circa 40 centimetri e ha un capo chiuso con un tappo, sotto il quale è impresso il marchio del materiale di proprietà delle ferrovie del reich. È stato prodotto nelle sue fabbriche: un nastro nero e giallo fuga ogni dubbio. Il cavo era stato consegnato allo scalo merci berlinese Schlesischer e, passando per la stazione di Grunewald, era arrivato a quella di Rummelsburg, dov’era stato posato. Gli spezzoni residui, invece, erano stati riposti in una cassa accessibile a chiunque.

Poco prima del Natale 1940 sui binari di periferia giace un altro cadavere: è la commessa Elisabeth Büngener, 30 anni, ferita alla testa.

Potrebbe anche trattarsi di suicidio. Büngener, infatti, soffriva di depressione, come attestava un certificato medico. La sua vicina, però, dice che era tutta una finta: se vuoi morire, quando ci sono gli allarmi antiaerei mica arrivi sempre per prima in cantina. Insomma, Büngener usava la scusa della depressione per prendersi un giorno libero quando il marito, “il presunto grande amore”, tornava in licenza. Siccome ne parlavano tutti male, finisce brevemente tra i sospettati e in effetti si scoprirà che “praticava lo sfruttamento della prostituzione a danno della moglie”. Ma neanche lui è l’assassino del treno.

Lüdtke e Zach decidono di passare al setaccio la tratta Rummelsburg–Erkner: gli agenti battono i vagoni dei treni, controllano banchine e binari, passano in rassegna tutti i ferrovieri, ma niente. Allora mandano le poliziotte a fare da esche. Ma nel rapporto successivo si legge: “Nessuna poliziotta è stata molestata o approcciata”.

Lüdtke e Zach non sanno più che pesci prendere: e se il ricercato sapesse delle operazioni di polizia? Se fosse un ferroviere non sarebbe troppo strano, visto che in questi giorni i dipendenti della ferrovia urbana non fanno che spettegolare sulle indagini. Molti dei ferrovieri berlinesi, poi, vorrebbero collaborare a dare la caccia all’assassino. A capodanno, un caposquadra chiama all’appello tutti i suoi uomini e fa in modo che un gruppo di donne aggredite li possa osservare senza essere visto. Una bigliettaia segnala un collega che giudica sospetto perché una volta non l’ha salutata al grido di “Heil Hitler”. Secondo i più zelanti “magari il colpevole è ebreo, hai visto mai”: del resto, ultimamente quelli là si sono fatti assumere in massa dalle ferrovie. A questo punto, per la cattura dell’assassino viene offerta una ricompensa di tremila marchi.

A pochi giorni dall’appello di capodanno lungo la tratta Karlshorst–Wuhlheide viene trovata un’altra donna, gravemente ferita, poi un’altra ancora. La prima, al quarto mese di gravidanza, muore per le ferite riportate. La seconda invece sopravvive.

I poliziotti chiamano in commissariato diverse donne aggredite, che riconoscono la voce di quello che adesso è il principale sospettato. Lui nega tutto

Alla fine, anche nelle alte sfere si rendono conto della gravità della situazione. I nazisti decidono di consentire ai mezzi d’informazione di parlarne, sia alla radio sia sui giornali. Il ministro della propaganda esorta gli iscritti al partito a scortare le donne quando è buio. “Com’è ormai noto”, si legge nel rapporto di polizia, “la sezione locale del Partito nazionalsocialista di Berlino-Karlshorst ha istituito spontaneamente una ronda allo scopo di proteggere le donne sole”.

La polizia fa un ultimo disperato tentativo: manda negli scompartimenti, al mattino e alla sera, sei agenti maschi travestiti da donna. Ma neanche loro riescono a prendere l’assassino: tutto quello che ottengono è una foto di uomini in tailleur e cappellino per gli annali della polizia berlinese.

La vittima successiva è del 12 febbraio 1941: Johanna Voigt, 38 anni, incinta al terzo mese. Gli inquirenti trovano il suo nécessaire: era andata a farsi un bagno a casa di una conoscente. Siccome ormai la vicenda non è più segreta, la polizia chiede aiuto alla popolazione. “Qualcuno ha fatto esternazioni sospette (vendetta contro le donne, ostilità verso le ferrovie) o si è reso altrimenti sospetto?”: ecco una delle tante domande rivolte ai berlinesi tramite i giornali Morgenpost e 12-Uhr-Blatt.

Ma anche così non si ottiene nessun risultato.

Passano quasi sei mesi, un periodo sorprendentemente lungo.

Che l’assassino si sia spaventato? Che si sia pentito? Che si sia trasferito altrove? Che sia morto? Il 3 luglio 1941, mentre cominciava a crescere la speranza che fosse tutto finito, viene ritrovato un altro cadavere, questa volta non vicino ai binari ma proprio nel comprensorio di Gutland II, dove è morta anche Gerda Ditter. Frieda Koziol giace nel bel mezzo di un sentiero, a gambe aperte e senza mutande, con le calze di nylon calate sui polpacci e un buco enorme in testa. Agli atti si legge: “È probabile che il colpevole si sia sporcato di sangue”.

Tra le sue gambe, per la prima volta, c’è un indizio: l’impronta di una scarpa maschile numero 40 si staglia “nitidissima sulla terra umida”

Nel borsellino della vittima ci sono dei pezzi di carta e le tessere annonarie distribuite dalle forze armate. Ma tra le sue gambe, per la prima volta, c’è un indizio: l’impronta di una scarpa maschile numero 40 si staglia “nitidissima sulla terra umida”.

Anche i vicini stavolta dicono di aver visto qualcuno: “Dall’aspetto sembrava italiano, circa un metro e mezzo d’altezza, capelli neri, rughe attorno agli occhi, gambe storte”. E un ferroviere segnala un vecchio collega che gli è sempre sembrato spagnolo e che, come addetto al controllo binari, avrebbe dovuto fare su e giù sempre lungo la stessa tratta, ma invece preferiva “imboscarsi da qualche altra parte”, anche fuori dell’area di pertinenza delle ferrovie. Il nome del collega però gli sfugge. Una cosa tipo Konrad Capito? O magari un altro nome? Cinque giorni dopo, il ferroviere telefona alla polizia. Il nome gli è tornato in mente: è Paul Ogorzow.

Gli inquirenti drizzano le orecchie. Quell’Ogorzow lì? Quello che prima avevano preso e poi lasciato andare, quello che poi ha collaborato con particolare zelo alla caccia all’assassino del treno? Sì, proprio lui.

Lüdtke e Zach sono elettrizzati. Mettono Ogorzow sotto torchio e una cosa la scoprono: di certo non è un marito fedele.

Pare che con le donne il ferroviere abbia un bel problema: sono il suo chiodo fisso. A Parigi si era preso la gonorrea e a Berlino è andato a letto con una certa signora Kluge, che abita in un comprensorio di orti urbani: è stata una relazione piuttosto lunga. Quando gli trovano del sangue sui vestiti, intorno alla patta dei pantaloni, Ogorzow dice che è perché ha avuto rapporti con la moglie e con la Kluge quando erano “indisposte”. Interrogata, Kluge non nega la relazione, ma i rapporti sessuali durante le mestruazioni sì.

I poliziotti chiamano in commissariato diverse donne aggredite, che riconoscono la voce di quello che adesso è il principale sospettato. Lui nega tutto, riconosce solo che qualche volta ha spaventato delle donne che tornavano a casa abbagliandole con una torcia.

La commissione omicidi di Rummelsburg è alle prese con un enigma. Due diverse modalità operative nella stessa zona: che significa? Ci sono due assassini che prendono entrambi di mira le donne o è uno solo?

Dopo qualche ora d’interrogatorio, Ogorzow ammette che spesso sente il desiderio di avere rapporti sessuali con le sconosciute. A casa, con la “moglie frigida”, non prova desiderio né ottiene soddi­sfazione.

I commissari passano un’altra ora a interrogarlo e poi un’altra e un’altra ancora. Siccome dagli interrogatori non si cava niente di utile, alla fine il commissario Lüdtke opta per un trucco: mostra a Ogorzow le fotografie dei crani spaccati delle donne e gli chiede direttamente con quale oggetto le abbia colpite. Ogorzow, preso alla sprovvista, risponde: “Con un cavo di piombo”. È in trappola. A parte la polizia e l’assassino, infatti, in quel momento nessuno può essere a conoscenza dell’arma del delitto. Di lì a poco, il sospettato confessa di essere lui il responsabile di tutte le aggressioni e di tutti gli omicidi.

Però dice anche di non poterci fare niente: soffre di un disturbo mentale. Il responsabile di questa sua condizione è il dottor Wilhelm Schwarzbach, il medico che l’aveva in cura quando temeva di avere una malattia venerea, la gonorrea o la sifilide. “Siccome questo medico è ebreo, quando io, iscritto al partito, ero suo paziente deve avermi curato male, cosa di cui dopo qualche tempo mi sono anche accorto”, aveva scritto l’assassino nel suo curriculum, che diventa anche la sua confessione. “Sono stato ricoverato per qualche settimana nell’ospedale St. Antonius ma non sono guarito: quell’ebreo mi ha rovinato”.

Ogorzow riferisce altre circostanze della sua vita, parlando del periodo scolastico in Prussia orientale, del trasferimento della famiglia in Brandeburgo e di come aiutasse il padre agricoltore in campagna. Dice di aver cominciato a lavorare per le ferrovie nel 1934 e di essere stato presto trasferito all’ufficio d’ispezione ferroviaria numero 44 di Karlshorst.

Poi confessa di aver picchiato tutte quelle donne sul treno e nel comprensorio di orti urbani colpendole con un pezzo di cavo di piombo e una spranga.

Nega, però, l’intenzione di uccidere.

Voleva ottenere solo dei “rapporti sessuali“, che descrive in poche parole: “Ho abusato di lei strappandole le mutandine”, dice di una donna. “Poi ho gettato via la spranga e sono tornato al lavoro”.

Il perito medico che visita Ogorzow, il barone von Marenholtz, lo ritiene pienamente in grado d’intendere e di volere. Non soffre di nessun genere di delirio. “La gonorrea“, scrive nel suo rapporto, “in qualche caso può anche provocare gravi patologie articolari e cardiache, ma mai disturbi psichici come quelli immaginati da Ogorzow”. Anche nel suo stato di servizio nell’esercito l’uomo è stato giudicato sano. Quello che Marenholtz però gli diagnostica – all’interno di un quadro di complessiva buona salute – è “una personalità apatica, indifferente, anaffettiva”.

“Aveva certamente un istinto sessuale molto sviluppato e perverso, ma non ci sono elementi per ritenere che non fosse in grado di controllarlo per ragioni ascrivibili a una patologia”.

Dopo pochi giorni, Ogorzow va a processo. Il 24 luglio 1941 la terza sezione speciale del tribunale di Berlino gli infligge otto condanne a morte per omicidio. Il mattino dopo, Ogorzow viene consegnato al boia del carcere di Plötzensee.

P.s. È probabile che ancora oggi a Berlino vivano diversi testimoni degli omicidi di Ogorzow, persone che hanno dovuto guardarsi dall’“assassino del treno” perché vivevano in zona e sono state anche sentite dalla polizia. La signora Gerda Heidenreich all’epoca aveva vent’anni e viveva in Dorotheastraße 24, a Karls­horst. Mentre suo padre, un macellaio, stava affiggendo i manifesti per la caccia all’assassino del treno, accanto a lui arrivò improvvisamente il suo vicino. “Appendi un manifesto a un muro e che ne sai, magari, l’assassino vive proprio in quella casa”, gli disse il macellaio e il vicino rispose: “Chissà, magari è proprio così”. Il vicino si chiamava Paul Ogorzow. ◆ sk

Judka Strittmatter è una giornalista tedesca. Collabora con la Berliner Zeitung e la Süddeutsche Zeitung. Dal 2000 è specializzata in storie di true crime . Questo articolo è uscito sul settimanale tedesco Stern con il titolo Die frauen an den schienen . La traduzione è di Susanna Karasz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1543 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati