Quando la famiglia gli chiedeva delle sue origini, John Damon raccontava sempre di essere un orfano di Chicago. In un certo senso era vero. Nel 1958, a sedici anni era effettivamente diventato orfano, dopo aver sparato ai suoi genitori, a Omaha. E nove anni dopo, dopo aver segato le sbarre della prigione ed essere evaso dal penitenziario di stato del Nebraska, era effettivamente scappato a Chicago per cominciare una nuova vita. All’epoca, però, Damon era conosciuto con un altro nome: William Leslie Arnold. Dopo più di mezzo secolo, il suo mistero è stato svelato.

Di recente, la polizia federale di Omaha, nel Nebraska, ha accertato attraverso il dna che l’agente di commercio noto come John Damon e deceduto in Australia nel 2010 era in realtà Arnold, l’omicida evaso dal penitenziario di stato nel 1967 e scomparso senza lasciare traccia.

Anche se alla fine è morto dall’altra parte del mondo, per venticinque anni Arnold era vissuto negli Stati Uniti senza che nessuno si accorgesse di nulla

Arnold, 67 anni, ha lasciato una moglie e due figli in Australia, oltre a tre figlie adottive da un precedente matrimonio negli Stati Uniti, tutte e tutti completamente ignari del suo oscuro passato. “È uno shock assoluto”, ha detto la figlia adottiva Kelly che, come le sue sorelle, ha chiesto di non usare il suo cognome per motivi di privacy. “Pazzesco”.

L’incredibile rivelazione ha costretto i familiari a ripercorrere a ritroso la vita dell’uomo che credevano di aver conosciuto, quello che pensavano fosse un tipo solitario, con pochissimi amici e geloso della sua privacy. Ma in realtà era un ricercato che, per necessità, aveva dovuto mantenere un profilo basso.

Arnold, noto come sassofonista di talento sia alla Central high school di Omaha sia in carcere, era stato talmente attento a nascondere la sua vera identità che quando suo figlio aveva cominciato a suonare il sassofono non aveva più preso in mano lo strumento. “È parte del mistero di mio padre”, ha detto il figlio. “A causa del suo passato ha dovuto vivere la sua vita in questo modo”.

La soluzione del caso è arrivata cinque anni dopo la pubblicazione sul quotidiano Omaha World-Herald del “Mistero di Leslie Arnold”, una serie di articoli che hanno raccontato nei particolari l’accattivante saga del fuggitivo del Nebraska.

Nel 1958 Arnold, un ragazzo intelligente ma problematico, aveva ucciso il padre e la madre nella loro casa di Aksarben e ne aveva seppellito i corpi in giardino. Per due settimane aveva continuato ad andare a scuola come se niente fosse, poi il delitto era stato scoperto.

Condannato all’ergastolo, per quasi dieci anni il ragazzo fu un detenuto modello. Secondo i funzionari della prigione entro pochi anni avrebbe ottenuto uno sconto di pena e sarebbe stato scarcerato.

Ma nel luglio 1967 l’enigmatico Arnold lasciò di nuovo tutti di stucco. A 24 anni organizzò un’evasione da film e scomparve nel nulla. È stato l’ultimo detenuto riuscito a evadere da quel penitenziario.

Ora può essere scritto anche il capitolo finale dell’incredibile storia di Arnold. Grazie a numerose interviste con familiari e conoscenti, alla consultazione di documenti pubblici e a informazioni provenienti dalle forze dell’ordine, è possibile ricostruire un quadro esauriente dei 43 anni di vita da ricercato di Leslie Arnold.

Anche se alla fine è morto dall’altra parte del mondo, per venticinque anni Arnold era vissuto negli Stati Uniti senza che nessuno si accorgesse di nulla. Appena quattro mesi dopo l’evasione aveva sposato una madre divorziata con quattro figli che faceva la cameriera in un ristorante del South side di Chicago dove lui aveva trovato lavoro come cuoco.

Protetto dal suo falso nome, John Damon, e dalla sua nuova e numerosa famiglia, Arnold cominciò a lavorare come commesso viaggiatore indipendente. Dopo due anni a Chicago, nel 1969 la famiglia si trasferì a Cincinnati e poi, due anni dopo, a Miami. In seguito si separò dalla moglie e intorno al 1977 si stabilì a Los Angeles, divorziò, si risposò e a 44 anni, nel 1986, diventò padre della sua prima figlia bio­logica.

Poi, all’inizio degli anni novanta, evidentemente qualcosa lo mise in allarme. Arnold troncò improvvisamente i rapporti con le figlie adottive, si fece togliere un vistoso neo dalla faccia e si trasferì con la sua nuova famiglia oltreoceano, prima, nel 1992, in Nuova Zelanda poi, nel 1997, in Australia.

Arnold è morto a casa sua il 6 agosto del 2010 per complicazioni legate a una trombosi. Suo figlio lo descrive come un uomo carismatico e patriottico, appassionato di scienza e tecnologia, e come un padre affettuoso che ha insegnato ai figli l’amore per la musica. “Mio padre ci ha lasciato in eredità molto più del suo crimine di gioventù e della sua evasione”, dice.

Le sue figlie adottive hanno un ricordo più contrastante. Provano gratitudine per l’uomo intelligente e operoso che gli ha fatto da padre per una decina d’anni e le ha salvate da una vita nelle case popolari. D’altra parte, lo descrivono come esigente e severo, paradossalmente simile a come lo stesso Arnold descriveva sua madre. “Adesso capiamo tante cose che non si spiegavano o ci mettevano a disagio”, dice un’altra figlia adottiva, Shawn. “Abbiamo tutti bisogno di elaborare la cosa”.

Oltre alla sua intraprendenza, quel che ha permesso ad Arnold di non farsi scoprire è di essere sempre riuscito a evitare ulteriori guai con la legge. Al di là di qualche semplice multa, le autorità non hanno trovato precedenti a carico di Damon, a differenza di quanto capita alla maggior parte dei ricercati.

Beatrice Bandiera

Intorno ad Arnold e alla sua vita restano molte domande e, con la sua morte, probabilmente rimarranno senza risposta.

Per esempio, perché in Brasile fu rilasciato un permesso d’immigrazione con il vero nome di Arnold un anno e mezzo dopo la sua evasione?

Forse Arnold, o qualcuno per lui, andò in Brasile usando il suo vero nome nel tentativo di depistare le autorità statunitensi? È plausibile, soprattutto dato che all’epoca si era già creato una nuova identità come John Damon. “Anche se è stato risolto, il caso rimane un mistero”, dice Matt Westover, l’ufficiale delle forze dell’ordine di Omaha che ha chiuso questo cold case lungo 55 anni. “Bisogna ancora aggiungere altri pezzi al puzzle”.

Un puzzle cominciato con uno scioccante delitto a Omaha nell’autunno del 1958.

Il delitto e l’evasione

In quel terso pomeriggio di ottobre, quando Leslie Arnold accompagnò gli agenti di polizia nel giardino della sua casa all’incrocio tra la 66a strada e Poppleton avenue, il suo giovane volto non tradiva il minimo segno di emozione. Indicò un punto sotto un cespuglio di lillà. Era lì che dovevano scavare. Dopo poche palate di terra, un poliziotto in uniforme scoprì la prima traccia della verità: una mano umana. I corpi dei genitori del ragazzo, Opal e William Arnold, furono subito dissotterrati.

Stando ai notiziari del 1958, Arnold aveva sparato ai genitori perché non gli avevano permesso di prendere l’auto di famiglia per uscire con la sua ragazza. A decenni di distanza si è scoperto che molto altro covava sotto la cenere nella casa degli Arnold ad Aksarben. Arnold suonava in due bande e in un’orchestra da ballo ed era un bravo studente. Ma era anche un ragazzo irascibile, pieno di rabbia e risentimento, riconducibili soprattutto al suo rapporto con la madre.

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Successivamente Leslie Arnold aveva raccontato agli psichiatri che lei lo educava in modo dispotico e arbitrario. Sembrava impossibile accontentarla. Una versione che trova conferma da altre persone. “Mi sembrava che sua madre fosse eccessivamente e ossessivamente dura con lui”, ha raccontato l’amico d’infanzia Jim Child.

Parlando con i medici Arnold aveva aggiunto che probabilmente il comportamento instabile della madre aveva cause più profonde. Era stata ricoverata due volte per “esaurimento nervoso”, la definizione che si usava all’epoca per descrivere i casi di malattia mentale.

Negli ultimi tempi, un grande motivo di conflitto tra madre e figlio era stata Crystal, una studentessa che Leslie frequentava da un anno. Sua madre era molto contraria alla relazione a causa delle origini operaie della ragazza. “Sapevo solo che disapprovava me e tutta la mia famiglia”, ha raccontato Crystal. “Non eravamo all’altezza di suo figlio”.

Come ha osservato uno psichiatra che ha avuto in cura Arnold, gli atteggiamenti della madre e i suoi tentativi di allontanarlo dalla fidanzata rappresentavano una minaccia alla virilità stessa del ragazzo. “L’influenza castrante del dominio materno, più il fatto di essere trattato come un bambino anziché come un giovane uomo nella fase della crescita, non potevano che suscitare risentimenti e antagonismi nascosti nei confronti dei genitori. Potremmo paragonare Arnold a un vulcano dormiente”, ha scritto il medico.

Il 27 settembre 1958 il vulcano eruttò.

Tra madre e figlio era scoppiato un altro furioso litigio perché Leslie voleva andare al cinema con Crystal. Fu allora, come avrebbe poi confessato agli inquirenti, “che mi venne un’idea folle”.

Andò a prendere un fucile calibro 22 dall’armadio dei genitori. Secondo quanto dichiarò, voleva solo dimostrare alla madre che faceva sul serio e che nessuno gli avrebbe impedito di uscire con la sua ragazza. Quando la madre cominciò a ridere di lui e gli disse di mettere via il fucile, sollevò l’arma e premette il grilletto. Dopo averla vista crollare a terra, le sparò altre cinque volte al petto. “Non riesco a spiegarlo, sembrava che soffrisse e volevo smettere di farle del male, eppure ho continuato a sparare”, disse agli inquirenti.

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Proprio in quel momento suo padre entrò in casa e si avventò sul ragazzo. Leslie sparò sei volte anche al padre, che stramazzò al suolo nel soggiorno accanto alla moglie. Non sapendo cosa fare, si rannicchiò sul divano e scoppiò a piangere. Un’ora dopo, però, aveva abbozzato un piano.

Disse a tutti che i suoi genitori erano partiti all’improvviso per andare a cercare un nonno malato di demenza che si era allontanato da casa sua, in Wyoming. Poi sentì il bisogno di vedere la sua ragazza e la portò al cinema, come da programma. In seguito ha raccontato di aver passato una serata orribile, torturato dai sensi di colpa. La notte seguente, con il favore del buio, Arnold trascinò i corpi dei genitori in giardino e li seppellì. Per due settimane seguì la stessa routine, passando in centro per aprire il negozio del padre prima di andare a scuola.

Dopo circa una settimana, però, un giorno tornò a casa e con sua grande sorpresa ci trovò il nonno, lo stesso che secondo la sua versione doveva essere scomparso. Non convinti dalle risposte evasive del ragazzo, cinque giorni dopo i suoi familiari andarono alla polizia. La mattina di sabato 11 ottobre Arnold fu interrogato e confessò tutto. Qualche mese dopo si dichiarò colpevole di duplice omicidio e fu condannato all’ergastolo.

Arnold avrebbe dovuto scontare almeno dieci anni in carcere, ma all’epoca la commissione per la grazia dello stato del Nebraska di solito commutava le condanne all’ergastolo in un numero prestabilito di anni di detenzione, permettendo ai condannati per omicidio di essere rilasciati in libertà vigilata.

Ai funzionari del carcere Leslie sembrava un ragazzo operoso e serio, un detenuto modello che coltivava la passione per la musica suonando nella banda del penitenziario. “Eravamo tutti convinti che alla fine avrebbe ottenuto la libertà vigilata e si sarebbe realizzato nella vita”, ha detto uno di loro.

A un certo punto, però, la vita del carcere cominciò a stare stretta ad Arnold. Nel 1967, insieme a James Harding, anche lui condannato per omicidio, organizzò una fuga attraverso il dormitorio, una struttura interna al penitenziario riservata ai detenuti a basso rischio e prossimi alla scarcerazione.

Arnold e Harding convinsero un detenuto che era stato messo da poco in libertà vigilata a lanciare un tubo con dei seghetti e un paio di maschere nel cortile del penitenziario, dove lo raccolsero, lo nascosero nella sala prove della banda e segarono le sbarre di una finestra, rimettendole poi a posto con della gomma da masticare.

La fuga era stata organizzata talmente bene che i fuggitivi erano già a metà del viaggio quando si scoprì che non erano più nelle loro celle

La notte stabilita, il 14 luglio 1967, usarono le maschere di gomma e crearono delle sagome nei letti per ingannare le guardie di turno. Quindi scesero in sala prove, saltarono dalla finestra, scavalcarono il filo spinato e raggiunsero di corsa uno spiazzo dove un loro complice li aspettava su un’auto. L’uomo accompagnò i due evasi a Omaha, dove Jim Child, l’amico d’infanzia di Arnold, procurò loro dei vestiti, un po’ di soldi e due biglietti per l’autobus delle tre del mattino per Chicago.

La fuga era stata organizzata talmente bene che i fuggitivi erano già a metà del viaggio quando si scoprì che non erano più nelle loro celle. Harding fu catturato meno di un anno dopo l’evasione e poi rilasciato in libertà vigilata. Prima della sua morte, nel 2008, ha detto in un’intervista che vide Arnold per l’ultima volta a Chicago, qualche giorno dopo il loro arrivo: gli aveva detto di aver trovato lavoro come cuoco in un ristorante in un quartiere polacco. Si era anche fidanzato con una donna più grande. “Io ho fatto la mia parte”, disse a Harding in quell’occasione. “Adesso ognuno per la sua strada”.

Il matrimonio

Kelly ricorda ancora la prima impressione del giovanotto snello e sbarbato che sua madre invitò a cena a casa una sera del 1967. “Non mangiò molto, forse un po’ di piselli e di purè”, racconta. “Sembrava abbastanza simpatico. Non parlava tanto. Non diceva niente di sé”.

La madre di Kelly, Jeanne Bouvia, aveva incontrato da poco questo sconosciuto di nome John Damon al David’s, un ristorante tra la 31a strada e South Halsted a Chicago. Jeanne, divorziata e madre di quattro figli, faceva la cameriera. Damon era appena stato assunto come cuoco, un mestiere che aveva imparato in carcere. David’s era famoso per le sue coppe gelato, e si trovava in un quartiere a forte maggioranza polacca.

Il corteggiamento durò poco. Arnold si trasferì quasi subito a casa della sua nuova fidanzata. Dal registro dello stato civile della contea di Cook risulta che Damon sposò Bouvia con rito civile il 25 novembre 1967, appena 134 giorni dopo l’evasione.

Le figlie non ricordano una proposta, una cerimonia o un anello. “Da un giorno all’altro si sposarono”, dice Kelly.

Ai funzionari del carcere Leslie sembrava un ragazzo operoso e serio, un detenuto modello che coltivava la passione per la musica suonando nella banda del penitenziario

Bouvia aveva 34 anni ed era più grande di Arnold, che ne aveva 25. Soprattutto, era una donna molto attraente. Nata e cresciuta a Chicago, era un tipo elegante, snella, i capelli biondi con l’acconciatura ad alveare, le mani curate e un filo di trucco. Aveva una personalità vivace, e le piaceva la compagnia degli uomini. È facile capire perché avesse catturato l’attenzione di un giovane uomo che era rimasto in carcere dall’età di 16 anni.

Quell’unione repentina giovò a entrambi. Per Bouvia, una donna che cercava sempre un modo di cavarsela, significava stabilità. Dopo aver incontrato Arnold la nuova famiglia lasciò gli alloggi popolari vicino al ristorante e si trasferì in una casa molto più bella, su West Race avenue.

Per Arnold il matrimonio fu una copertura immediata, che lo aiutò a integrarsi rapidamente. Da un giorno all’altro non era più un evaso del Nebraska: era diventato un marito e padre di quattro figlie di quattordici, dodici, nove e cinque anni. “Dissi a mia madre che per sposare una donna con quattro figli bisognava essere o molto ignoranti o molto coraggiosi”, racconta Shawn, che all’epoca aveva dodici anni. “Ora ho capito che John aveva deciso di fare quel passo perché gli serviva”.

Bouvia aveva detto alle figlie che il loro nuovo padre era cresciuto in un orfanotrofio. Ma Deb, la più grande, è convinta che la madre – morta nel 2000 – sapesse qualcosa di più del passato di Arnold. “Non era facile farsi carico di una madre single, e capivo che lei volesse qualcuno che fosse in grado di mantenerci”, dice. “Forse aveva un sentore di quello che stava succedendo. Ma non lo sapremo mai”.

Oltre alla nuova famiglia, un elemento chiave per il consolidamento della sua nuova identità fu un falso certificato di nascita dell’Illinois che Arnold si procurò in qualche modo sotto il falso nome di John Damon. L’anno di nascita indicato era il 1941 anziché il 1942 di Leslie, e sua madre risultava essere una certa Jeanne Stanley, che in realtà era il nome da nubile di Bouvia. Con quel documento falso Arnold sarebbe riuscito a ottenere tutti i suoi documenti di identità, dalla patente di guida alla tessera sanitaria. Poche settimane dopo la fuga Arnold aveva un nuovo nome, una nuova vita e i mezzi per mantenersi.

Nella vita coniugale Arnold e la moglie scoprirono di avere alcune cose in comune, come la passione per il cinema e la musica. Arnold si era comprato un sassofono e lo teneva sempre pronto nell’angolo del soggiorno di Race avenue. A volte invitava a casa un chitarrista e un batterista per suonare insieme a lui. “Improvvisavano, facevano scat e un sacco di altre cose”, racconta Deb. Shawn ricorda addirittura che il padre si esibì varie volte in pubblico quando si trasferirono a Miami, e mostra una foto di famiglia dei primi anni settanta in cui si vede Arnold in smoking con il sax in mano.

In generale però, era raro che il padre socializzasse con qualcuno. Se ne stava quasi sempre a casa per conto suo. Una volta, la madre invitò un gruppo di vicini per organizzare una festa a sorpresa per Arnold. “Andò fuori di testa”, ricorda Kelly. “Non l’apprezzò per niente”.

Dopo qualche mese, Arnold cambiò lavoro. Smise di fare il cuoco e diventò un commesso viaggiatore. Lavorava come rappresentante indipendente, facendo l’intermediario tra i distributori e i potenziali clienti. Le figlie adottive ricordano che nel corso degli anni Arnold trattò un sacco di cose diverse: lenzuola, distributori automatici, prodotti chimici, perfino strumenti musicali. Lavorava duro, spesso viaggiava per tutta la settimana. Vestiva sempre in giacca e cravatta. Era un ottimo comunicatore. Sembrava molto bravo nel suo lavoro e guadagnava bene.

All’inizio degli anni novanta, evidentemente qualcosa lo mise in allarme. Arnold troncò improvvisamente i rapporti con le figlie adottive

Sempre il lavoro fu probabilmente il motivo per cui nel 1969 Arnold e la famiglia si trasferirono a Cincinnati, nell’Ohio. Andarono ad abitare in una bella casetta di legno a due piani, con un giardino e un pianoforte in soggiorno. Per le ragazze era la prima volta che abitavano in una casa tutta loro e lo stesso era per Arnold, dai tempi della casa di Poppleton avenue a Omaha. “A Chicago eravamo poveri, venivamo dai quartieri malfamati”, dice Deb. “Poi, improvvisamente, è arrivato questo salvatore che ci ha strappato a una vita di stenti”.

A Deb, Shawn e Kelly (Dawn, la più giovane, è morta nel 1998) sembrava che il padre lavorasse sempre. Oggi, però, hanno un bel ricordo di Arnold, l’unico uomo che hanno mai chiamato papà. Apprezzano la passione per la musica che ha trasmesso a tutte loro, soprattutto per il jazz. Deb racconta che le insegnò a suonare il piano. Kelly si ricorda con piacere di quando la portò a un concerto di Henry Mancini.

Le sorelle, tuttavia, lo descrivono anche come un uomo esigente, severo e inflessibile, molto simile a sua madre. Prima di partire per lavoro, assegnava a tutte loro dei compiti da sbrigare durante la sua assenza. Diceva che a tredici anni dovevano trovarsi un lavoro. Non tollerava che gli rispondessero a tono. E dato che le ragazze avevano lo stesso spirito battagliero della mamma, capitava spesso. Se non facevano quello che diceva, le metteva “in restrizione”, come diceva quando voleva punirle. A volte la restrizione durava anche più di un mese. Era un’espressione che sembrava risalire ai tempi del penitenziario. In effetti, la vita quotidiana delle ragazze era irreggimentata quasi come quella dei carcerati. La sua esperienza, del resto, era quella. “In sostanza ha fatto scontare a noi il fatto di essere stato in prigione e di essere stato bullizzato dalla madre”, dice Shawn. “Sicuramente avrebbe potuto cercare altri modi per mantenere la disciplina”. “C’est la vie, ormai è passata”, dice Deb. “Ma a volte era veramente difficile. Era molto severo”.

Ci sono altre storie interessanti sulla vita della famiglia. Deb ricorda che una volta, in Race avenue, lei e le sorelle si svegliarono nel cuore della notte perché Arnold si lamentava e piangeva come se avesse avuto un incubo. La madre disse che erano i postumi della malaria. A distanza di anni, Deb si chiede se in realtà Arnold non fosse tormentato dal ricordo di aver ucciso i genitori. Nel 1971 la famiglia si trasferì a Miami, in Florida, in circostanze insolite e sospette. Kelly ricorda che a un certo punto i genitori fecero un viaggio alle Bahamas passando per Miami. Sua madre non tornò mai a Cincinnati: restò in Florida per cercare una nuova casa mentre Arnold organizzava il trasloco. Deb era all’ultimo anno delle superiori e decise di restare.

Qualche tempo dopo, un agente dell’Fbi si presentò alla sua porta e le chiese di John Damon. Deb rispose che non sapeva dove fosse, come la madre le aveva detto di fare. Dai registri dell’Fbi dell’epoca non risulta che l’agenzia abbia mai collegato Damon e Arnold. A tutt’oggi Deb non si spiega il motivo di quella visita.

A Miami, Arnold diede sfogo alla sua creatività riarredando il soggiorno della nuova casa. Tappezzò le pareti di mosaici in gesso intarsiati con specchi fumé, comprò un tappeto bicolore con un camminamento di ardesia e installò uno stereo quadrifonico. “Mi ricordo la prima volta che l’ha provato. Mi ha fatto mettere in mezzo alla stanza e abbiamo ascoltato Emerson, Lake and Palmer”, dice Shawn. “Era eccitatissimo”. Aveva anche cambiato stile: portava i capelli un po’ più lunghi e indossava abiti sportivi.

Dopo tre o quattro anni a Miami, l’instancabile Arnold cominciò ad accennare alla possibilità di un nuovo trasferimento, stavolta in Costa Rica. Disse che il motivo era che lì il costo della vita era più basso. Oggi, a distanza di anni, la famiglia si domanda se le motivazioni non fossero altre. Comunque, gli dissero che non avevano intenzione di spostarsi. Durante un viaggio alle Hawaii, Arnold convinse la moglie a comprare un pezzo di terra con l’idea di trasferirsi lì in futuro.

Pochi anni dopo il divorzio Arnold cominciò a frequentare la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, una studente che si trovava a Los Angeles per un programma di scambio culturale

Bouvia, però, era sempre contraria a cambiare città, e questa probabilmente fu una delle cause della loro successiva separazione. “Il motivo della rottura è stato quello”, ricorda Deb. All’inizio sembrava tutto normale. Poi, a un certo punto, Arnold cominciò ad assentarsi per lavoro sempre più spesso e per periodi sempre più lunghi. “Dopo un po’ ha smesso di tornare a casa nei fine settimana”, dice Kelly.

Nel 1977, quando ormai le ragazze erano quasi tutte andate via di casa, Arnold si stabilì in un appartamento nel quartiere residenziale di Burbank, a Los Angeles, in California. Senza rivolgersi a un avvocato, il 27 luglio 1977 – pochi giorni dopo il decimo anniversario della sua evasione dal carcere – presentò domanda di divorzio. Bouvia non si oppose e nemmeno inviò una risposta, e il divorzio diventò effettivo nel febbraio del 1978. Il distacco, però, non fu amichevole.

In privato la coppia aveva concordato di spartirsi il patrimonio di famiglia senza passare per la legge, e secondo Bouvia l’ex marito non aveva rispettato i patti. Per ripicca, gli sfasciò il sassofono e glielo spedì per posta in California. “Era un bravissimo padre di famiglia, ma un pessimo marito”, avrebbe successivamente detto del suo ex.

Anche dopo il divorzio Arnold mantenne i contatti con le figlie adottive, chiamandole al telefono e andando a trovarle di tanto in tanto. Quando Deb si diplomò alla scuola infermieri fu presente alla cerimonia di consegna. Quando gli nacque una figlia mandò a tutte un biglietto di partecipazioni.

Poi, nel 1992, Arnold, che aveva cinquant’anni, chiese d’incontrare le figlie adottive di persona. Qualche tempo prima le ragazze avevano sentito dire che stava pensando di nuovo di lasciare il paese, e pensarono che volesse salutarle.

Kelly, che all’epoca aveva 34 anni, incontrò il patrigno al ristorante Red Lobster di Miami e gli diede un consiglio: “Adesso che hai una figlia tua, ricordati che ogni tanto ha bisogno di sentirsi dire che è una brava bambina e non solo ‘fai questo, fai quello’”.

A distanza di anni, è orgogliosa di averglielo detto. Quelle, per altro, sono state le ultime parole che lui avrebbe sentito dalla sua prima famiglia. Dopo di allora non avrebbe più contattato né lei né le sue sorelle. Con il senno di poi, è chiaro che Arnold voleva di nuovo fare tabula rasa del passato, per cominciare quello che sarebbe diventato il terzo e ultimo atto della sua vita.

Il figlio dice di essere riuscito a fare i conti con il passato segreto di suo padre. Non ha rimpianti sulla scelta di fare il test del dna. La verità che ha scoperto e i nuovi contatti umani che ha stabilito con le figlie adottive di Arnold e altre persone sono stati catartici

L’ultimo atto

John Damon era un grande fan di Clint Eastwood. Ripensandoci ora, però, suo figlio non riesce a capacitarsi di quella sera di tanti anni fa in cui suo padre, tra tutti i film di Eastwood, decise di guardare Fuga da Alcatraz insieme a tutta la famiglia. Nel film, del 1979, c’è addirittura una scena in cui i fuggitivi creano delle sagome di stracci da sistemare nei letti. “A ripensarci, chissà cosa avrà pensato mentre lo guardava”, ha detto il figlio in un’intervista.

Negli ultimi tempi, si è fatto mille di queste domande. Il figlio biologico di Arnold ha detto di essere disposto a raccontare la storia del padre a condizione di non dire il suo nome né quelli della madre, della sorella e della città in Australia in cui ha vissuto la famiglia. Così siamo venuti a conoscenza d’informazioni cruciali sugli ultimi anni della vita dell’uomo.

Pochi anni dopo il divorzio Arnold cominciò a frequentare la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, una studente che si trovava a Los Angeles per un programma di scambio culturale. I due si sposarono nel 1983. Nel 1986 Arnold, a 44 anni, diventò per la prima volta il padre biologico di una bambina. Cinque anni dopo nacque suo figlio.

La famiglia si spostò in diverse località dell’area di Los Angeles, tra cui Long Beach, Torrance e Glendale, mentre Arnold continuava a lavorare nelle vendite. Si era messo in proprio e aveva fondato una sua azienda, la Damonico, dal suo cognome acquisito. Poi, nel 1992, all’improvviso decise che la famiglia doveva lasciare il paese.

Dopo le rivolte scoppiate a Los Angeles per il pestaggio di Rodney King, picchiato della polizia, Arnold spiegò a moglie e figli che il paese era cambiato e che “gli Stati Uniti, o almeno Los Angeles, non sono un buon posto per crescere una famiglia”, ricorda il figlio. Sua moglie era fermamente contraria, ma alla fine acconsentì. A distanza di anni, la famiglia è convinta che probabilmente i motivi che lo spinsero a lasciare il paese erano altri. “Mi chiedo se non abbia fatto nuove valutazioni sul rischio di essere scoperto”, dice il figlio. In effetti, con l’arrivo di internet negli anni novanta, le forze dell’ordine avevano a disposizione strumenti molto più efficaci per rintracciare i movimenti delle persone e scambiarsi impronte digitali, foto dei documenti d’identità e altre informazioni.

Il trasferimento all’estero, però, non era l’unico segnale della paura di essere ritrovato: più o meno nello stesso periodo, Arnold andò da un medico per farsi rimuovere un neo dalla guancia. Il neo era stato un tratto distintivo del volto di Arnold fin dall’adolescenza, tanto da essere costantemente menzionato nelle comunicazioni dell’Fbi sulle caratteristiche fisiche dell’evaso. Alla famiglia disse che se l’era fatto togliere perché si era stancato di tagliarsi quando si faceva la barba. Se aggiungiamo il fatto che sempre in quel periodo Arnold salutò le figlie adottive per poi troncare ogni contatto, è probabile che qualcosa lo avesse messo in allarme.

Bouvia aveva detto alle figlie che il loro nuovo padre era cresciuto in un orfanotrofio. Ma Deb, la più grande, è convinta che la madre – morta nel 2000 – sapesse qualcosa di più del passato di Arnold

Inizialmente la famiglia andò a vivere in Nuova Zelanda. Poi, dopo cinque anni, si spostò in Australia. Anche dopo essersi trasferito all’estero, per quasi dieci anni Arnold continuò saltuariamente a tornare negli Stati Uniti per lavoro. Dopo la nascita dei suoi figli, però, il lavoro, che per tanti anni era stato il centro della sua vita, passò in secondo piano.

Arnold non faceva che ripetere ai figli quanto la loro nascita lo avesse profondamente cambiato. Gli avevano dato uno scopo, diceva, facendogli capire cosa fosse veramente importante e dandogli una lezione di vita. Il figlio e al figlia lo conoscevano come un padre amorevole, premuroso e spensierato, che desiderava dargli il meglio. È stata una sorpresa ancora più grande, per loro, scoprire come aveva trattato le figlie adottive.

Anche la seconda famiglia di Arnold fu educata all’amore per la musica. Il figlio aveva deciso di seguire le orme paterne, scegliendo senza esitazioni di cimentarsi con il sassofono. Il padre gli aveva detto che anche lui da giovane aveva suonato il sax. Quando erano insieme, però, non prendeva mai in mano lo strumento. Solo in un’occasione, ricorda il figlio, Arnold diede un saggio del suo talento musicale. Un giorno il figlio stava cercando senza riuscirci di suonare un complicato riff jazz al pianoforte. Allora Arnold gli si sedette accanto e gli disse: “Perché non provi in questo modo?”, ed eseguì il riff perfettamente.

Al tempo il figlio non diede peso alla cosa. Era solo infastidito dal fatto che il padre gli avesse dato una lezione. Oggi, a distanza di anni, ha capito che Arnold stava reprimendo il suo talento musicale, altro segno che stava deliberatamente nascondendo il suo passato. “Rinunci a tutte le cose che un tempo ti piacevano in modo che nessuno possa collegarti a niente”, dice il figlio.

In generale, il padre non parlava mai molto del passato. Anche alla sua nuova famiglia aveva raccontato di essere cresciuto in un orfanotrofio a Chicago. Quando gli chiedevano i particolari, rispondeva che aveva avuto una vita difficile e non aveva voglia di parlarne, e che non sentiva né il bisogno né il desiderio di sapere di più sui suoi genitori naturali. Agli occhi della moglie e dei figli, la storia dell’orfanotrofio spiegava non solo la riluttanza di Arnold a parlare del passato, ma anche il suo carattere riservato e introverso.

A volte Arnold metteva nella storia della sua vita dei frammenti di verità. Per esempio, una volta disse alla famiglia che aveva lavorato come odontotecnico. Ovviamente non disse che era successo in carcere. “Molte delle cose che sapevamo e che ci venivano raccontate erano verità parziali”, dice il figlio. “Lui non si apriva, e io non facevo domande”. Alla fine, si è portato i suoi segreti nella tomba.

Al tempo degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 Arnold si trovava in viaggio di lavoro in California. Una volta tornato in Australia decise di non viaggiare più all’estero e di sbrigare gran parte del lavoro online e per telefono.

Arnold non faceva che ripetere ai figli quanto la loro nascita lo avesse profondamente cambiato. Gli avevano dato uno scopo, diceva, facendogli capire cosa fosse veramente importante e dandogli una lezione di vita

Poco più tardi cominciò a soffrire di trombosi. Forse la patologia era collegata a un infarto che aveva avuto alla fine degli anni novanta, o forse al fatto di stare seduto per ore durante i viaggi in aereo. Gli fu diagnosticata una trombosi venosa profonda. Con l’aggravarsi della malattia, la sua salute generale peggiorò rapidamente. A un certo punto cominciò ad avere difficoltà respiratorie. Il 6 agosto 2010 crollò a terra in casa e morì.

Sul suo necrologio c’era scritto che aveva 69 anni. In realtà, ne avrebbe compiuti 68 di lì a pochi giorni. Dopo aver passato gli ultimi 43 anni a guardarsi le spalle, Arnold era finalmente in pace.

Il dna

Quando John Damon morì, suo figlio aveva solo 19 anni. Subito dopo il funerale decise d’indagare più a fondo sulle sue origini. Determinato a scoprire le sue radici, nel 2018 il giovane sbarcò a Chicago, senza però trovare traccia dell’orfanotrofio di cui gli aveva parlato il padre. Si presentò all’anagrafe e mostrò ai funzionari il certificato di nascita del padre. Con sua grande sorpresa scoprì che il documento era falso. Più che dargli delle risposte, il viaggio aveva sollevato nuove domande.

Decise allora di andare dalle figlie adottive del padre per capire cosa sapessero. Anche loro conoscevano solo la storia dell’orfanotrofio. Nel 2022 ha fatto il test del dna e ha pubblicato il risultato su una banca dati pubblica, nella speranza contenesse il codice genetico di qualcuno appartenente alla famiglia biologica del padre. Un riscontro positivo lo avrebbe aiutato a mettersi in contatto con la sua famiglia perduta. “Nessuno ti avvisa che forse quello che scoprirai non ti piacerà”, dice.

Nell’agosto 2022 l’hanno informato che era stata trovata una corrispondenza. A mettersi in contatto con lui, però, non è stato un parente prossimo del padre, ma Matt Westover, il poliziotto di Omaha. Nel marzo 2023 Westover è andato in Australia per incontrare il figlio di Arnold e raccogliere altre prove dalla famiglia. Quando è tornato a Omaha il caso del fuggitivo scomparso William Leslie Arnold è stato ufficialmente chiuso.

Elaborare la verità

Il figlio di Arnold dice che la sua famiglia ha avuto parecchie cose da elaborare nelle ultime settimane. Dopo il primo contatto con Westover, ha incontrato un giornalista del quotidiano Omaha World-Herald che aveva seguito la vicenda. Ha soprattutto ascoltato, venendo a conoscenza di ulteriori particolari sugli anni di gioventù del padre e sui suoi reati. E ha versato parecchie lacrime. “Credo di essermi fatto un quadro molto preciso della situazione”, ha detto.

Il figlio di Arnold non vuole minimizzare i delitti commessi dal padre in gioventù, che definisce “davvero raccapriccianti”. Si è sentito confortato, però, leggendo le testimonianze di tutti quelli che hanno espresso comprensione per Arnold e per la posizione difficile in cui si era ritrovato in età giovanissima.

Ha parlato su Zoom con Kelly, Deb e Shawn, con cui si sono scambiati ricordi intimi delle rispettive esperienze d’infanzia con Arnold. Le figlie adottive sono state contente di sapere che il padre si era ammorbidito con la sua seconda famiglia. Il modo di essere un genitore è cambiato molto tra gli anni sessanta e gli anni novanta, ma Kelly spera che la sua ultima conversazione con il padre abbia in qualche modo lasciato il segno. Le figlie adottive si sono affezionate al figlio naturale di Arnold, che hanno trovato gentile e sincero. Il figlio, a sua volta, ha mostrato loro il bambino nato da poco, il primo nipote biologico di Leslie Arnold. Tutti insieme si definiscono “la nostra nuova famiglia disfunzionale”.

Il figlio dice di essere riuscito a fare i conti con il passato segreto di suo padre. Non ha rimpianti sulla scelta di fare il test del dna. La verità che ha scoperto e i nuovi contatti umani che ha stabilito con le figlie adottive di Arnold e altre persone sono stati catartici. “Volevo solo saperne di più su mio padre e sulle sue origini, e questi sono i risultati”, dice. Nulla di ciò che ha scoperto ha cambiato l’affetto che prova per il padre o la sua opinione di sé. “Sono a posto con me stesso”, dice. “È stato un buon padre, che ha dedicato tutta la sua vita a me e a mia sorella, e gli devo tutto”. La famiglia è convinta che Arnold, nel profondo, provasse un sincero rimorso e si fosse pentito del suo passato criminale.

Ultimamente hanno sfogliato la vecchia Bibbia rilegata in cuoio del padre. Risaliva probabilmente ai tempi di Chicago, e Arnold l’aveva letta varie volte da cima a fondo. In quelle vecchie pagine hanno trovato un tema ricorrente nei passaggi che Arnold ha annotato e sottolineato. Peccato e perdono.

Ripercorrendo le migliaia di conversazioni con il padre, entrambi i figli naturali ricordano che Arnold a volte si lamentava di non riuscire a parlare di più del suo passato. “C’è tanto altro che vorrei poter raccontare”, diceva. Al tempo pensavano che si riferisse alla sua infanzia traumatica negli Stati Uniti. In effetti era così. “Adesso abbiamo capito quanto gli pesasse la verità”, dice il figlio. ◆ fas

Henry J. Cordes è un giornalista dell’ Omaha World-Herald dagli anni ottanta. È specializzato in grandi inchieste, si è occupato di scandali finanziari nelle università del Nebraska e di stragi nelle scuole. Questo articolo è uscito sull’Omaha World-Herald con il titolo Leslie Arnold mystery solved: man who died in Australia was enigmatic Nebraska fugitive . La traduzione è di Fabrizio Saulini.

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Questo articolo è uscito sul numero 1543 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati