La mente di Kevin Lunney vagava mentre lui percorreva la strada di campagna verso casa, a Kinawley, nella contea di Fermanagh, in Irlanda del Nord, a pochi chilometri dalla linea invisibile che separa il Regno Unito dalla Repubblica d’Irlanda. Era un pomeriggio insolitamente luminoso del settembre 2019. Ricordò a se stesso che doveva tagliare il prato. Forse era l’ultima occasione per farlo prima dell’inverno.

Prima di raggiungere casa, come avrebbe raccontato in seguito alla Bbc, Lunney notò un’auto bianca parcheggiata poco lontano, con il motore al minimo. La strada era stretta, appena sufficiente per un solo veicolo, e delimitata su entrambi i lati da fitte siepi. Quando Lunney rallentò, fermandosi a meno di trenta metri di distanza, sentì il battito cardiaco accelerare. Il Fermanagh è un luogo isolato, dove le auto sconosciute attirano sguardi sospettosi. E da poco i fatti legati al suo datore di lavoro avevano messo tutti in allarme.

Lungo il confine la sua storia era popolarissima: Quinn era il contadino cattolico che aveva usato il suo ingegno e le sue conoscenze per creare migliaia di posti di lavoro

Lunney era uno dei direttori della Quinn industrial holdings (Qih), un ramo di un vasto conglomerato manifatturiero e assicurativo che aveva attraversato una difficile crisi ed era finito nelle mani di fondi speculativi. Da allora, la Qih e i suoi dirigenti erano stati oggetto di sabotaggi, incendi dolosi e minacce di morte, cose che nella zona non si vedevano dai tempi bui dei Troubles.

“Forse si sono solo persi”, si disse Lunney, scrutando l’auto bianca attraverso il parabrezza. All’improvviso il veicolo cominciò a fare retromarcia ad alta velocità, sobbalzando sulla superficie sconnessa. Lunney non ebbe il tempo di reagire che il veicolo si era già schiantato contro il cofano della sua auto. Scesero due uomini con il passamontagna. Mentre Lunney cercava il cellulare, i finestrini laterali andarono in frantumi. Uno degli uomini lo trascinò a terra e gli strappò il telefono. Poi apparve un terzo uomo mascherato e gli puntò un taglierino alla gola. “Entra lì dentro”, disse, indicando il bagagliaio di un’Audi nera che aspettava lì vicino. “Se non lo fai, ti uccidiamo”.

Dodici anni prima Sean Quinn si trovava nella sala da ballo dell’hotel Slieve Russell e cercava di tenere un discorso. Era il 7 marzo 2007, dieci anni dopo il suo ultimo intervento pubblico, e lui stava incespicando sulle battute iniziali. “Avevo scritto delle cose da dire e ora non so da che parte cominciare”, disse, tra le risate della gente, secondo il racconto dell’episodio contenuto in Citizen Quinn, il libro di Gavin Daly e Ian Kehoe sulla sua ascesa e caduta.

Quinn, che all’epoca aveva 60 anni, si fece prendere dall’entusiasmo nel descrivere come avesse lasciato la scuola a quindici anni per lavorare nella fattoria di famiglia nella vicina Teemore, a un paio di chilometri dal confine con la Repubblica d’Irlanda. A quei tempi andava in giro su un trattore ed era il capitano della locale squadra di calcio gaelico. A vent’anni, raccontò, prese in prestito cento sterline per comprare un escavatore dopo aver scoperto che la collina dietro casa sua era piena di sabbia, scisto e ghiaia da rivendere. In breve tempo diversificò l’attività nel settore del cemento, poi nel vetro, poi entrò nel campo immobiliare e infine in quello assicurativo.

A forza di sostituire i pascoli di pecore con le ciminiere e i giganteschi frantumatori di rocce, l’impatto di Quinn sul paesaggio fu tale che l’intera zona da Enniskillen a Ballyconnell divenne nota come Quinn country (la terra di Quinn). “Veniamo da un ambiente molto semplice e abbiamo sempre cercato di fare affari in modo semplice”, disse alla platea della sala banchetti dello Slieve Russell. “Non abbiamo mai fatto uno studio di fattibilità in vita nostra”.

Lungo il confine la sua storia era popolarissima: Quinn era il contadino cattolico non istruito che aveva usato il suo ingegno e le sue conoscenze per creare migliaia di posti di lavoro in una zona nota soprattutto per il conflitto tra cattolici e protestanti. Quando Quinn incontrava i suoi amici al bar dello Slieve Russell, un albergo di lusso che aveva costruito sul sito di un sepolcro vecchio di quattromila anni, tutti erano tenuti a offrire un paio di giri di bevute.

Ma Quinn non era solo questo. Era anche un uomo d’affari spietato, che affrontava con lo stesso zelo i grandi industriali e i piccoli fornitori di ghiaia. Era un vero repubblicano irlandese, e tuttavia accettava di buon grado il denaro dagli odiati inglesi sotto forma delle generose sovvenzioni governative che gli arrivavano per le attrezzature e la costruzione di strade. Ed era sontuosamente ricco: un umile figlio della terra con un jet privato Dassault Falcon a dieci posti. Nel 2007, l’anno del suo discorso allo Slieve Russell, Forbes stimava il patrimonio della sua famiglia in sei miliardi di dollari. Sean Quinn era la 164esima persona più ricca del mondo.

Lunney era entrato in azienda nel 1995 a 26 anni, giovane e ambizioso consulente di direzione. Era stato assunto per aiutare a gestire la Quinn insurance ltd, che era nata per occuparsi della flotta di betoniere verdi di Quinn poi era diventata una compagnia assicurativa per automobili e case nel Regno Unito. D’indole pacata e timida, Lunney aveva impressionato Quinn con la sua etica del lavoro e l’attenzione per i dettagli. Come il suo capo, anche lui era cresciuto in una fattoria sul confine, il più secchione di dieci fratelli, alcuni dei quali sarebbero finiti a lavorare per l’imprenditore di maggior successo della zona. Quando Quinn decise di spostare parte della ricchezza della sua famiglia all’estero, investendo in immobili in Russia e in India, mandò Lunney in avanscoperta a scovare opportunità.

Lunney era una delle tre persone del posto che gestivano l’impero del capo. L’amministratore delegato del gruppo, Liam McCaffrey, era di Enniskillen. Il direttore finanziario, Dara O’Reilly, veniva dalla contea di Cavan, a pochi chilometri di distanza. Quinn li chiamava “i ragazzi”. Secondo gli autori di Citizen Quinn all’interno dell’azienda erano invece conosciuti come la “Santa Trinità”.

“Sono sempre stato molto avido”, affermò Quinn, concludendo il suo discorso allo Slieve Russell. “Non ero mai contento di quello che avevamo”. Questo appetito insaziabile sarebbe stato la sua rovina. All’insaputa di buona parte del pubblico, Quinn aveva scommesso segretamente un sacco di soldi sulla Anglo Irish Bank, proprio alla vigilia della più grande crisi bancaria della nostra epoca. L’operazione, basata sul ricorso a strumenti chiamati “contratti per differenza”, permetteva a Quinn di non dover acquistare azioni o dichiarare la propria posizione. Avrebbe guadagnato se il titolo fosse salito e perso denaro se fosse sceso. Quando arrivò la crisi del 2008 e le azioni della Anglo Irish cominciarono a crollare, Quinn raddoppiò la posta in gioco, esponendosi ancora di più e prelevando centinaia di milioni di euro dalla sua compagnia assicurativa per finanziare l’operazione. Dove altri avrebbero cercato di ridurre le perdite, Quinn vedeva solo il lato positivo. Più le azioni Anglo Irish scendevano, più avrebbe potuto guadagnare quando si sarebbero riprese.

Pierluigi Longo

Non accadde mai. La banca fu nazionalizzata nel gennaio 2009, lasciando le società di Quinn con un debito di 2,4 miliardi di euro nei confronti dello stato irlandese, più un altro miliardo circa verso altre banche e obbligazionisti (dopo la crisi sarebbe apparso nuovamente sulla rivista Forbes, questa volta con il titolo “Sean Quinn: the biggest loser”). Quando fu chiaro che le sue società non erano in grado di rimborsare i prestiti, i creditori spinsero per una riorganizzazione, ma Quinn rifiutò, insistendo sul fatto che meritava una seconda possibilità.

Il 14 aprile 2011 fu convocato nella sede centrale della Anglo Irish a Dublino per una riunione alle 9.30 del mattino. Mentre si dirigeva verso la capitale, un convoglio di banchieri, avvocati e personale di sicurezza viaggiava nella direzione opposta, verso la sede delle sue imprese a Derrylin.

Affiancato da Lunney e O’Reilly, Quinn si sedette di fronte a un ex ministro che era stato recentemente nominato direttore della banca nazionalizzata. Un funzionario gli disse che la Anglo Irish aveva raggiunto un accordo con i suoi creditori. Avevano preso il controllo del Quinn Group e delle sue attività. Un giudice aveva già firmato l’ordinanza necessaria. “Perché?”, chiese Quinn stupito, dopo un attimo di silenzio. “Saremo lieti di restituirvi tutti i soldi”.

“È fatta, Sean”, rispose il funzionario.

Il sequestro delle società di Quinn si concluse in una sola giornata. Le squadre di sicurezza perlustrarono gli uffici e un fabbro cambiò le serrature. Lunney e gli altri membri della “Santa Trinità” furono licenziati e sostituiti da manager esterni, nominati dai creditori. Il personale sembrava turbato più che arrabbiato.

La prima avvisaglia che i sostenitori di Quinn non avrebbero accettato le novità tanto facilmente arrivò qualche giorno dopo. Più di cento persone si presentarono a Derrylin alle sette del mattino per consegnare una lettera di protesta. Nella concitazione del momento forzarono il blocco delle guardie ed entrarono nell’edificio. Durante quella prima settimana qualcuno rubò un grosso camioncino, lo fece schiantare contro i cancelli d’ingresso e lo lasciò lì, bloccando l’entrata. Quando fu chiesto al legittimo autista di spostarlo, questi si rifiutò dicendo: “Non posso. Se lo faccio sarò preso di mira”.

Pierluigi Longo

Nel frattempo Quinn stava lanciando una campagna pubblica con l’obiettivo di farsi reintegrare. E come base operativa usava una fabbrica di pneumatici di proprietà di Tony Lunney, uno dei fratelli di Kevin. A Tony, che lavorava ancora al gruppo Quinn, la nuova dirigenza aveva affibbiato il soprannome di “Tony due telefoni”: pensavano che avesse un telefono per il lavoro e un altro per tenere aggiornato Sean Quinn. Tony Lunney smentì le voci tramite un portavoce della Qih, spiegando che il suo secondo telefono era un BlackBerry per la posta elettronica.

Il gruppo di Quinn inviò lettere ai politici e ai leader religiosi, denunciando il trattamento riservato a quel “grande uomo”, e furono anche allestiti dei siti con accuse gravissime contro i nuovi dirigenti. Nel frattempo, piccoli atti di sabotaggio si verificavano quasi ogni settimana: cavi elettrici tagliati, strade bloccate, incendi dolosi. Pur sapendo che si trattava di sostenitori di Quinn, la nuova dirigenza non riusciva a stabilire con esattezza chi ci fosse dietro agli atti di vandalismo (Quinn nega di essere stato a conoscenza o di essere stato coinvolto in queste azioni o in altre attività criminali). Nonostante tutto quello che era successo – o forse proprio per questo – l’imprenditore era ancora una figura molto ammirata nella zona.

Una parte significativa degli abitanti della regione, un tempo molto povera, doveva proprio a Sean Quinn i soldi guadagnati. Le sue ex aziende impiegavano più di mille dipendenti nelle contee di confine e molti altri nel resto dell’Irlanda e del Regno Unito. E anche le imprese che non erano direttamente collegate a lui – pub, ristoranti, stazioni di servizio o agenzie immobiliari – traevano comunque vantaggio dalle sue attività. La gente del posto ha perfino attribuito a Quinn il merito di aver fermato l’emigrazione di massa che aveva privato altre regioni dell’isola di giovani in età da lavoro, separando i genitori dai figli.

Nel luglio 2012 migliaia di persone affollarono le strade di Ballyconnell per una manifestazione a sostegno di Quinn. Trattenendo le lacrime, l’imprenditore guidò il corteo attraverso la città con la moglie Patricia al suo fianco, mentre i sostenitori sventolavano cartelli scritti a mano dove si denunciava la “truffa” bancaria che lo aveva privato della sua fortuna. Un prete tenne un discorso in onore di Quinn, così come fece anche Mickey Harte, l’allenatore del Tyrone, la squadra di calcio gaelico che aveva vinto il campionato. “Il male vince solo quando le brave persone non fanno nulla”, disse Harte tra gli applausi.

Lontano dal confine, Quinn lottava per tenersi tutto ciò che poteva. Centinaia di milioni di dollari in proprietà immobiliari furono spostati offshore e sottratti ai controlli degli esasperati esattori del fisco. Quinn negò di essere a conoscenza delle transazioni, ma un giudice non gli credette e nel novembre 2012 fu condannato a nove settimane di carcere per oltraggio alla corte. La decisione servì solo ad accrescere la sua aura di martire. Il cantautore locale Barry Murray scrisse una canzone in suo onore. “Sfruttamento. Isolamento. Diffamazione. Incarcerazione. Sofferenze e avversità”, recita il ritornello. “Sean Quinn otterrà la sua vittoria, aspettate e vedrete”.

L’idea dell’eroe repubblicano che è vittima di una persecuzione ordita dai poteri forti stranieri era perfetta per la storia e il carattere della regione

Per i banchieri e gli avvocati chiamati a salvare l’ex azienda di Quinn era difficile capire l’ondata di solidarietà verso un uomo che, per sua stessa ammissione, aveva rischiato tutto per una scommessa. Ma l’idea dell’eroe repubblicano che è vittima di una persecuzione ordita dai poteri forti stranieri era perfetta per la storia e il carattere della regione. Negli anni settanta e ottanta, quando la Provisional Ira (un’organizzazione paramilitare repubblicana irlandese) combatteva contro i servizi di sicurezza britannici e i paramilitari lealisti, il confine era un punto nevralgico del conflitto. Il Fermanagh si guadagnò una temibile reputazione per le attività dei repubblicani irlandesi, simile a quella di cui godevano luoghi come il Bogside di Derry e la città di Armagh. La polizia non osava fermarsi nella zona, mentre l’esercito faceva saltare le strade per bloccare il flusso di armi e uomini armati attraverso il confine.

Nella terra di Quinn, tutti conoscevano qualcuno che aveva imbracciato le armi o che aveva ucciso. Vicini, amici o soci d’affari. In tutti quegli anni Quinn si era arricchito. Nel suo libro del 1987, Walking along the border, Colm Tóibín racconta che una volta Quinn a un posto di blocco diede un pugno a un soldato britannico senza subire conseguenze di sorta, grazie alla sua posizione nella comunità. Secondo Tóibín, Quinn era senz’altro un repubblicano, ma era più interessato a “fare soldi e a divertirsi” che alla politica.

Molti dei dirigenti chiamati dai creditori a guidare le aziende di Quinn venivano da fuori, da Dublino, Londra o Glasgow. Furono messi in guardia sulla reputazione della regione, ma restarono comunque sorpresi dall’ostilità che incontrarono. Nel 2011, mentre il nuovo amministratore delegato era in vacanza, la sua auto fu incendiata da due uomini in passamontagna. Più tardi due dirigenti che stavano cenando in un ristorante cinese locale ricevettero una telefonata anonima: “Andatevene o sarete uccisi”. Nel 2013 gli agenti dell’An Garda Síochána, il corpo di polizia della Repubblica d’Irlanda, fecero visita ai membri del consiglio di amministrazione per avvertirli che stavano rischiando la vita. Un gangster di nome Cyril “Dublin Jimmy” McGuinness era stato rilasciato dal carcere e si diceva che si fosse alleato con una fazione che appoggiava Quinn.

McGuinness aveva una pessima fama in Irlanda: un criminale di lungo corso, condannato per furto di macchinari agricoli, sversamento di rifiuti tossici, falsa testimonianza, aggressione e contraffazione. Secondo i giornali, durante i Troubles aveva lavorato per l’Ira. Ora, stando alla polizia, era un sicario che per poche migliaia di euro distribuiva minacce di morte e organizzava aggressioni.

Sconvolti, i dirigenti fecero rafforzare le misure di sicurezza e si concentrarono sul compito di vendere l’azienda per ripagare i creditori il più rapidamente possibile. Alcune attività furono liquidate con successo, ma in diversi casi, quando l’affare stava per essere concluso, la parte interessata all’acquisto veniva minacciata e finiva per ritirarsi. Quando il produttore di cemento Lagan Group, rivale di Quinn, avviò le trattative per una fusione tra i due gruppi, il suo presidente ricevette per posta un proiettile di fucile con un messaggio scritto con lettere ritagliate da giornali e incollate: “[È] [QUESTO] [QUELLO] [CHE] [VUOI] [?]”.

Lontano dal confine, Quinn lottava per tenersi tutto ciò che poteva. Centinaia di milioni di dollari in proprietà immobiliari furono spostati offshore e sottratti ai controlli degli esasperati esattori del fisco

A metà del 2014 il numero totale degli attacchi contro le ex società Quinn e i suoi concorrenti era arrivato a settanta. Né la polizia né gli investigatori privati trovarono prove sufficienti per stabilire chi dirigeva la campagna intimidatoria. In una realtà in cui storicamente gli informatori finivano uccisi, in pochi erano disposti a collaborare con gli agenti. L’Irish Times parlò di una “congiura del silenzio”. Se la stessa cosa fosse successa a Dublino presso la sede regionale della Microsoft, scrisse il giornale, sarebbe stata trattata come un’emergenza nazionale.

Con i potenziali acquirenti delle aziende di Quinn scoraggiati dalle continue minacce, a un certo punto si aprì uno scenario che fino a poco prima sembrava inconcepibile: il ritorno di Sean Quinn. Sostenuti da un gruppo di uomini d’affari locali, i tre luogotenenti di Quinn – McCaffrey, O’Reilly e Lunney – formarono una società chiamata Quinn business retention co (Qbrc) per fare un’offerta sul patrimonio aziendale. Tutti i partecipanti erano d’accordo sul fatto che Quinn sarebbe tornato ai vertici dell’azienda una volta risolti i problemi legali. Per prima cosa, però, la Qbrc doveva trovare un sostegno finanziario.

Il destino dell’azienda era ormai nelle mani di tre fondi speculativi americani – Brigade capital management, Silver point capital e Contrarian capital – che avevano acquistato il debito del gruppo Quinn a basso costo. Quando seppero che gli ex dirigenti di Quinn erano interessati a riacquistare parti dell’azienda, si offrirono di finanziare l’operazione. Secondo i termini dell’accordo proposto, Lunney e gli altri avrebbero ricevuto un generoso stipendio e una quota di minoranza nella nuova impresa. Ma c’era una condizione: Sean Quinn non poteva essere coinvolto.

Gli investitori statunitensi, che gestivano complessivamente quindici miliardi di dollari, non volevano entrare in affari con Quinn, ai loro occhi un ex detenuto ancora ufficialmente in bancarotta. Dopo una lunga opera di persuasione da parte del team della Qbrc, gli statunitensi accettarono di assumere Quinn come consulente: avrebbe guadagnato 500mila euro all’anno, ma non avrebbe potuto possedere azioni. Non avendo altre scelte, Quinn accettò con riluttanza. Nel dicembre 2014 il gruppo Qbrc e i fondi speculativi conclusero un accordo per l’acquisto del settore materiali da costruzione e imballaggio per ottantacinque milioni di euro. La nuova società si sarebbe chiamata Quinn industrial holdings (Qih).

La settimana successiva Lunney, McCaffrey, O’Reilly e gli altri nuovi amministratori si trovavano nella sala del consiglio di amministrazione quando sentirono un applauso dal piano inferiore. “Che cos’è?”, chiese qualcuno. “Credo di saperlo”, disse McCaffrey. Uno del gruppo scese e vide Quinn, con il sorriso sulle labbra, che girava per l’ufficio con un vassoio d’argento pieno di bottiglie di whisky e birra, distribuendo bicchieri. I dirigenti si guardarono. Nessuno di loro lo aveva invitato.

Secondo i piani dei proprietari americani, il ruolo di Quinn doveva essere soprattutto di rappresentanza. La stampa, tuttavia, si schierò dalla sua parte. “Il ritorno del re”, titolò il Sunday Business Post. Un altro giornale parlò di “secondo avvento”.

“Sono sempre stato molto avido”, affermò Quinn, concludendo il suo discorso allo Slieve Russell. “Non ero mai contento di quello che avevamo”. Questo appetito insaziabile sarebbe stato la sua rovina

Quinn si considerava ancora il capo e fu subito evidente che non era disposto a ricoprire un ruolo diverso. Il suo disprezzo per l’accordo con la Qih emerse chiaramente alla prima riunione, nel gennaio 2015, quando si sedette, accigliato, al solito posto, a capo del tavolo del consiglio di amministrazione. Poi annunciò che, con lui al comando, le cose sarebbero tornate com’erano prima. Lunney, McCaffrey e gli altri erano pagati troppo, disse Quinn, e non era accettabile che possedessero azioni quando a lui non era consentito. Secondo quanto riferito da diversi presenti, gridando li accusò di essere “una manica di arraffoni”.

Qualche settimana più tardi, dopo che i proprietari avevano accettato di vendere la vetreria di punta del gruppo a un conglomerato spagnolo, nella sala del consiglio di amministrazione della Qih Quinn fece una scenata di fronte al presidente della società acquirente. “Siete tutti dei fottuti gangster”, disse.

Quinn era convinto di essere stato messo da parte e, in tutte le riunioni a cui partecipava, si lasciava andare a continue recriminazioni. Quando era arrabbiato, aveva l’abitudine di parlare di se stesso in terza persona. “Quando Sean Quinn dice che farà qualcosa, Sean Quinn la fa”, ringhiava, gridando agli uomini della Santa Trinità che “dovevano levarsi di mezzo”. Durante un incontro, Lunney si arrabbiò vistosamente e pregò il suo ex capo di essere ragionevole. Quinn, per tutta risposta, scrisse ai proprietari dei fondi per accusare Lunney e gli altri dirigenti di frode e abuso di posizione (accuse su cui gli statunitensi indagarono, concludendo che erano infondate).

Per la prima volta, Lunney, McCaffrey e O’Reilly capirono cosa significava essere nemici di Sean Quinn nella terra di Quinn. A Derrylin comparvero cartelli con le scritte “Via gli avvoltoi” e “Traditori e informatori sanguisughe”. Un’organizzazione che si faceva chiamare Gruppo comunitario di Cavan, Fermanagh e Leitrim (Cfl community group) aprì un sito che lodava Quinn per aver creato una “bellissima oasi industriale” e attaccava “gli avvoltoi pronti a banchettare su questa succulenta carcassa”.

“Non c’è dubbio che Cromwell si aggiri ancora nel nostro cortile”, scrisse un collaboratore, evocando lo spauracchio dei repubblicani, Oliver Cromwell, il comandante delle forze inglesi responsabili di terribili brutalità in Irlanda nel seicento.

Nel bagagliaio dell’Audi nera, Lunney pensò alla moglie Bronagh e ai loro sei figli. Dopo essersi liberato le mani, trovò la serratura e aprì il bagagliaio

Nel dicembre 2015, Lunney trovò una testa di maiale nel giardino di casa, dopo la festa di Natale organizzata in azienda. In quel momento con lui c’erano i figli piccoli.

Alla fine i rappresentanti dei fondi decisero di andare in Irlanda e incontrare Quinn di persona. Tutti e tre erano investitori esperti in aziende in difficoltà, abituati a situazioni difficili, ma stavolta le cose erano diverse. In un albergo di Dublino assicurarono a Quinn che non sarebbero rimasti per sempre. Se avesse atteso il suo momento e lavorato con il team di gestione, gli dissero, avrebbe potuto riavere le sue proprietà. Quinn rispose chiedendo il licenziamento della Santa Trinità.

“Consideriamo le sue richieste irragionevoli”, scrissero i fondi speculativi a Quinn in una lettera del 5 maggio 2016. Poi respinsero l’affermazione dell’ex proprietario secondo cui la gente di Quinn country si sarebbe arrabbiata per il trattamento che gli statunitensi gli avevano riservato: “Il dolore a cui si riferisce può solo riflettere le sue frustrazioni, poiché possiamo assicurarle che non c’è assolutamente alcuna prova di un ‘risentimento’ diffuso nella comunità locale”. Quinn rispose affermando che avrebbe continuato a lavorare nell’azienda, pagato o no. Più tardi, quello stesso mese, il suo contratto di consulenza fu rescisso.

Per i due anni successivi, Quinn rimase rintanato nella sua lussuosa dimora accanto allo Slieve Russell, l’hotel di cui era proprietario, mantenendo un basso profilo. Intanto gli episodi di violenza e le intimidazione continuavano. Poi, nella primavera del 2019, si diffuse la notizia che i proprietari del fondo della Qih avevano incaricato una banca d’investimento di esplorare le opzioni di vendita. Se l’affare fosse andato in porto, avrebbe ulteriormente allontanato l’azienda da Quinn, lasciando i suoi sostenitori a fare i conti con il fatto che l’attività più importante della zona sarebbe rimasta per sempre in mani straniere.

Qualche mese dopo, a settembre, Lunney fu rapito mentre tornava a casa dal lavoro. Raccontò l’accaduto all’edizione nordirlandese di Spotlight, un programma di attualità della Bbc. Fu l’unica volta in cui parlò pubblicamente dell’incidente. Interrogato da Bloomberg Businessweek sulla versione dei fatti che aveva fornito in quell’occasione, tramite un portavoce dell’azienda Lunney non smentì nulla, ma rifiutò di essere intervistato.

Nel bagagliaio dell’Audi nera, Lunney pensò alla moglie Bronagh e ai loro sei figli. Dopo essersi liberato le mani, trovò la serratura e aprì il bagagliaio. Agitò le braccia, ma gli automobilisti di passaggio non lo videro o fecero finta di non vederlo.

Pierluigi Longo

L’Audi rallentò e Lunney saltò fuori, rotolando sulla strada. Ma l’auto si fermò e uno degli uomini scese e lo ributtò dentro, sbattendo il bagagliaio. Mentre ripartivano, Lunney sentì gli uomini parlare al telefono: “Capo, l’uomo ha opposto resistenza”.

Alla fine l’auto parcheggiò. Lunney ebbe qualche secondo per osservare quello che sembrava un cortile incolto prima che uno degli uomini gli mettesse un sacco in testa e lo facesse passare attraverso una porta ed entrare in uno spazio chiuso. Quando tolsero il sacco, Lunney, figlio di contadini, capì immediatamente di essere dentro a un rimorchio per cavalli, in legno e con l’interno dipinto di blu.

Il sequestratore con il taglierino si avvicinò e disse: “Sai perché sei qui”. Lunney disse che invece non lo sapeva. “È per la Qih. Ti devi dimettere”. Lunney accettò di farlo. “Dammi le dita”, disse l’uomo. Spinse la lama sotto le unghie di Lunney, facendo uscire il sangue, mentre i suoi due compagni gli tenevano ferme le braccia. Uno di loro disse che serviva della candeggina. Rimisero il sacchetto sugli occhi di Lunney e gli legarono le mani con delle fascette. Fuori stava diventando buio. Due degli uomini si alzarono e se ne andarono. Lunney li sentì accendere l’Audi e allontanarsi. Chinò il capo e cominciò a pregare in silenzio.

Quando i rapitori tornarono, gli versarono della candeggina sulle mani e strofinarono con un panno le unghie insanguinate. Il dolore era così intenso e le esalazioni della candeggina così forti che Lunney pensò di svenire. I rapitori tagliarono le fascette che gli legavano le mani e gli strapparono i vestiti, lasciandolo in boxer, tremante e insanguinato.

“Gli avete sistemato la faccia?”, chiese uno degli uomini. Gli spruzzarono della candeggina negli occhi e in bocca. “Ti dimetterai”, continuavano a ripetere. “Di’ agli altri di dimettersi. Ti conosciamo. Ti teniamo d’occhio”.

Alla domanda sulla violenza e sulle intimidazioni rivolte ai rivali, Quinn attraversa la cucina, prende uno stuzzicadenti da un pacchetto e torna a sedersi. “Mettiamola così: per gestire un’azienda, sono necessarie delle basi. E la base fondamentale è il rispetto”

“Farò tutto quello che mi dite”, supplicò Lunney.

Non era finita. Uno degli uomini tirò fuori quella che sembrava una mazza di legno e colpì la gamba di Lunney più forte che poté. “È rotta?”, chiese l’uomo che lo teneva sollevato. Per essere sicuri, colpirono di nuovo nello stesso punto. Il dolore fu cento volte più intenso.

Prima di lasciarlo andare gli spiegarono che dovevano marchiarlo. Il capo gli fece un taglio sul viso con il coltello e poi glielo avvicinò al petto. “Solo per farti ricordare perché sei qui”, disse, mentre incideva tre lettere nella carne di Lunney: Q–I–H.

Poi lo trascinarono in un altro veicolo e lo condussero in un remoto sentiero di campagna. “Se ti giri e guardi il furgone, ti spariamo”, gli disse uno degli uomini mascherati. “Se sentiamo che ci denunci, ti spariamo”.

Lunney fu lasciato sanguinante e seminudo sul ciglio della strada. Un’auto gli passò accanto. L’adrenalina causata dall’aggressione si stava esaurendo, mentre il dolore delle ferite aumentava. Dopo un periodo che gli sembrò lungo ore, scorse una luce più avanti, forse una casa, e cominciò a strisciare in quella direzione.

Secondo i piani dei proprietari americani, il ruolo di Quinn doveva essere soprattutto di rappresentanza. La stampa, tuttavia, si schierò dalla sua parte. “Il ritorno del re”, titolò il Sunday Business Post

Due settimane dopo, padre Oliver O’Reilly parlò dell’attacco a Lunney durante la messa domenicale nella chiesa di Nostra Signora di Lourdes a Ballyconnell. In piedi, davanti al pulpito di legno intagliato, con indosso una pianeta verde, pronunciò il sermone, le cui parole riecheggiarono nella chiesa: “Questa atrocità insensata segue anni di minacce, abusi, bugie e varie forme d’intimidazione violenta contro i direttori della Quinn industrial holdings”, disse O’Reilly, osservando i fedeli. “Da tempo nella nostra regione opera un gruppo di stampo mafioso con un suo ‘padrino’”. Dietro a questo gruppo, continuò il prete, c’è un “potente capoclan con la sua banda criminale”. Poi invitò i parrocchiani a non ignorare il “cancro del male che è in mezzo a noi” e criticò chi aveva alimentato l’odio con discorsi sempre più aggressivi durante gli incontri pubblici della comunità.

Anche se il suo nome non era stato citato, Quinn era furioso. Andò dal sacerdote per dirgli che non aveva “alcuna responsabilità o alcun ruolo” in quello che era successo a Lunney. Poi si lamentò con un rappresentante più elevato della gerarchia cattolica. Il sacerdote raccomandò a Quinn di non dire nulla che potesse essere interpretato come un’istigazione. “Se dire la verità è istigazione, sono colpevole”, rispose Quinn.

Poco dopo il rapimento, nella terra di Quinn si tenne un’altra manifestazione, questa volta a sostegno di Lunney e dei suoi colleghi. Per anni gli abitanti delle aree di confine erano rimasti in silenzio di fronte agli atti di violenza compiuti alle loro porte, per lealtà verso Quinn o per paura di ritorsioni. Ma con l’attacco a Lunney qualcosa era cambiato. Centinaia di persone organizzarono un corteo diretto a Derrylin, compresi i dipendenti della Qih, vestiti con gilet gialli fluorescenti. All’evento parteciparono politici di entrambi i lati del confine. Lunney, ancora convalescente, rimase a casa.

Dopo quasi un decennio di apparente inattività, le forze di polizia della Repubblica d’Irlanda e dell’Irlanda del Nord annunciarono un’operazione trans­frontaliera senza precedenti per dare la caccia ai colpevoli. All’alba dell’8 novembre 2019, la polizia piombò in una tranquilla strada di Buxton, nel nord dell’Inghilterra, e sfondò la porta della casa in cui si nascondeva Dublin Jimmy, l’ex gangster dell’Ira. Mentre la polizia perquisiva la proprietà, lui si sedette sul divano con una tazza di tè, fumò tre sigarette e poi crollò a terra per un attacco di cuore. Fu dichiarato morto alle dieci di mattina. Dalla casa gli agenti recuperarono documenti, computer e diversi telefoni cellulari.

Qualche giorno più tardi quattro uomini furono arrestati e accusati dell’aggressione e del sequestro di Lunney. Mentre scriviamo, non hanno ancora rilasciato una dichiarazione. Nel frattempo, la terra di Quinn continua a essere tormentata. Come sempre. Nel febbraio del 2020 un’auto appartenente a un membro del gruppo Qih è stata incendiata, ponendo fine a una breve tregua dopo il rapimento di Lunney. “La comunità è divisa”, ha dichiarato Tony Doonan, membro del Cfl Community group e assiduo frequentatore della settimanale partita a carte in casa Quinn. “L’ultima volta che la situazione è stata così tesa è stato trent’anni fa, quando c’erano i soldati britannici”.

Al quartier generale del gruppo Quinn, i dirigenti della Qih non hanno intenzione di dimettersi. Vivono sotto scorta, controllati da telecamere di sicurezza e con pulsanti antipanico sempre a disposizione, ma dicono che non se ne andranno. “Si tratta della reputazione dell’intera zona”, ha dichiarato l’amministratore delegato McCaffrey in un’intervista rilasciata a Businessweek nel febbraio 2020. “È questo il modo in cui vogliamo vivere? Il pensiero che a questo modo di agire possa essere consentito d’imporsi è semplicemente sbagliato”.

Per anni gli abitanti delle aree di confine erano rimasti in silenzio di fronte agli atti di violenza compiuti alle loro porte, per lealtà verso Quinn o per paura di ritorsioni. Ma con l’attacco a Lunney qualcosa era cambiato

Di fronte alla sala riunioni, il vecchio ufficio di Quinn è vuoto. Sono passati più di due anni da quando è stato cacciato dall’azienda, ma la stanza è rimasta esattamente come l’aveva lasciata. Sul tavolo c’è una pila di biglietti da visita con il suo nome, accanto a una calcolatrice e a un’agenda con numeri di telefono. L’unico lusso visibile è una sedia in pelle ormai consunta.

La casa di Quinn, con sette camere da letto, si trova alla periferia di Ballyconnell, vicino a un lago spazzato dal vento a sud del confine irlandese, a pochi chilometri da dove è cresciuto. Costruita nel 2006, all’apice del suo successo, la proprietà dispone di un complesso ricreativo, di un putting green per il golf al coperto e di un eliporto. Da fuori, tuttavia, conserva una certa austerità, con le pareti in pietra che riflettono il colore del cielo e del lago. Per entrare, i visitatori devono attraversare un cancello in ghisa e percorrere un vialetto tortuoso. Una mattina di febbraio, Quinn apre la porta di legno e fa cenno ai giornalisti di Businessweek di entrare, al riparo dal nevischio e dalla pioggia.

Per anni, mentre il suo impero si espandeva, Quinn ha evitato le interviste. Prima del 2008 “non avevo rilasciato nemmeno dieci interviste”, racconta, facendoci strada lungo un corridoio di marmo che porta in cucina, dove si trova un tavolo da pranzo con vista sul lago. “Abbiamo sempre pensato che i fatti fossero meglio delle parole”. Ora ha 73 anni e sembra determinato a riprendere il controllo di come la sua storia è raccontata. Sta lavorando a un documentario che spera possa contrastare quelle che considera le bugie dei mezzi d’informazione.

Patricia, che Quinn ha sposato prima della costruzione della prima fabbrica, porta tè e biscotti su un piatto di porcellana. Quinn sembra stanco mentre descrive i suoi primi anni. “Non avevo esperienza nel mondo degli affari, ho imparato strada facendo, ho commesso molti errori e ho imparato tanto”, dice. Non si sarebbe mai aspettato di raggiungere il successo che ha ottenuto, ma attribuisce il merito alla sua capacità di prevedere le grandi tendenze economiche e alla sua feroce voglia di vincere. “Non è per i soldi. I soldi non sono mai stati importanti per me”, aggiunge.

Quando la conversazione si sposta sulle speculazioni con la Anglo Irish, Quinn si anima. “Avrei dovuto ritirarmi”, ammette, fissando con gli occhi scuri un punto della finestra. “Tagliare, e perdere il mio miliardo. Dovevo accettarlo”, dice. Quello che non è mai stato disposto ad accettare è il modo in cui i politici di Dublino e i finanziatori stranieri hanno smantellato e venduto l’azienda che aveva costruito dal nulla. “Se hai un’azienda che è passata da ottomila sterline di profitto nel 1973 a 550 milioni di sterline di profitto nel 2007, e che non ha mai avuto problemi di truffe o corruzione, perché chiuderla?”, chiede. “Non ha senso”.

Secondo Quinn, l’accordo che Lunney e gli altri hanno stretto con gli investitori statunitensi era stato pensato per estrometterlo. “Non potete immaginare come mi hanno trattato”, dice, raccontando di quando veniva escluso dalle riunioni. “Io ero il ragazzino e loro erano gli uomini al comando”. Il tradimento definitivo, agli occhi di Quinn, è stata la decisione di vendere l’azienda vetraria senza prima offirgli la possibilità di presentare un’offerta. Secondo Quinn, Lunney, McCaffrey e gli altri stavano portando la Qih alla rovina.

Alla domanda sulla violenza e sulle intimidazioni rivolte ai rivali, Quinn attraversa la cucina, prende uno stuzzicadenti da un pacchetto e torna a sedersi. “Mettiamola così: per gestire un’azienda, sono necessarie delle basi. E la base fondamentale è il rispetto”, spiega. “Se il personale e la comunità sanno che quei tre hanno accoltellato Sean Quinn alle spalle e gli hanno sottratto l’attività, davvero li sosterranno ancora?”.

Interrogato su un suo possibile coinvolgimento nelle aggressioni o nelle minacce, Quinn si toglie lo stecchino e snocciola l’elenco delle accuse mosse contro di lui: “Sean dà fastidio… Sean è responsabile, è il mandante, è questo, quello e quell’altro…”, dice con una risata ironica. “Possono dire tutto quello che vogliono, ma non c’è nessuna prova a sostegno delle accuse. Nessuna. E lasciate che ve lo dica. Non la troverete. Non la troverete”.

Il rapimento di Lunney è stato stupido e incivile, afferma, e ha danneggiato la reputazione della famiglia Quinn. “Ma tutti i dirigenti sanno che non ho avuto nulla a che fare con quella vicenda”. Al termine dell’intervista, chiediamo a Quinn se ha ancora voglia di tornare in azienda dopo tutto quello che è successo. “Non credo”, dice. In caso, aggiunge, solo se qualcuno venisse a chiedere il suo aiuto. “ E poi dipenderebbe dalle condizioni”. ◆ svb

Kit Chellel e Liam Vaughan sono giornalisti dell’agenzia Bloomberg specializzati in scandali finanziari. Chellel è autore, insieme a Matthew Campbell, di Dead in the water (Faber and Faber 2023). Questo articolo è uscito per Bloomberg nel giugno del 2020 con il titolo Troubles in Quinn country . La traduzione è di Sarah Victoria Barberis.

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Questo articolo è uscito sul numero 1543 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati