Di che colore è la lettera a? È una domanda che Nicholas Root pone spesso ai volontari che recluta per la sua ricerca. La maggior parte gli dà la stessa risposta. “Dicono che è una domanda stupida e che le lettere non hanno un colore”, racconta.

E invece ce l’hanno, almeno per le persone con la sinestesia grafema-colore, per le quali lettere e parole sono associate a colori particolari. Tra loro c’è Jennifer Mankin, che ora conduce delle ricerche su questo fenomeno. Mankin ricorda che, durante l’adolescenza, i suoi compagni di scuola erano rimasti confusi quando lei aveva detto che uno di loro aveva un nome arancione. “In quel momento mi apparve chiaro che la mia percezione del mondo era fondamentalmente diversa da quella della maggior parte delle persone”, dice.

Le persone con sinestesia che hanno imparato l’alfabeto latino a scuola sono propense a vedere rossa la sua prima lettera, cioè la a

Gli scienziati conoscono la sinestesia da più di duecento anni, ma per gran parte del tempo non è mai stato chiaro perché alcuni mescolino le informazioni sensoriali, perché associno le parole ai sapori o i suoni alle sensazioni tattili. Oggi quasi tutti concordano nel dire che alcune forme di sinestesia, in particolare quella tra colori e lettere, sono strettamente legate all’apprendimento.

Questa scoperta sta spingendo ricercatori come Mankin non solo a chiedersi perché la sinestesia esista, ma anche a cercare di capire cosa ci rivela sul funzionamento del cervello.

Questi studi hanno già dimostrato che la cultura influisce sul modo in cui impariamo e che il nostro pensiero è modellato in modo diverso a seconda della lingua in cui parliamo e scriviamo. Le ultime scoperte potrebbero rivelarsi ancora più significative: si è visto che anche molte persone senza sinestesia mescolano inconsapevolmente le informazioni sensoriali, questo fa pensare che imparando a conoscere il fenomeno potremmo scoprire qualcosa di più sulla coscienza umana.

La prima descrizione convincente della sinestesia fu pubblicata da Georg Tobias Ludwig Sachs nel 1812. Sachs e la sorella minore erano albini, una caratteristica perfetta, pensava, per uno studio scientifico. Ma all’interno del saggio A natural history of two albinos, the author and his sister (Storia naturale di due albini, l’autore e sua sorella), c’è un passaggio in cui Sachs rivela che la pigmentazione in difetto nel corpo era ben presente nel suo occhio della mente. Spiegava che, quando aveva a che fare con parole, numeri e note musicali, “gli apparivano idee colorate”.

A quei tempi, il trattato di Sachs fu considerato poco più di una curiosità scientifica. Ma quasi settant’anni dopo, Francis Galton – oggi tristemente famoso per le sue idee sull’eugenetica – cominciò a studiare la sinestesia. Ipotizzava che quella caratteristica fosse frutto dell’apprendimento e che forse aiutasse ad affrontare in modo più efficiente i compiti cognitivi. Dagli scritti di Galton appare chiaro che era affascinato dalla sinestesia. Non lo erano altrettanto gli altri scienziati: nel giro di pochi anni, l’interesse svanì e la sinestesia fu ampiamente ignorata per la gran parte del novecento.

“Solo all’inizio degli anni novanta la sinestesia è tornata a essere un tema degno di rispetto”, afferma Marcus Watson della York university di Toronto, in Canada. In gran parte è merito del lavoro del neurologo Richard Cytowic, che nel 1989 scrisse un libro influente. “Oggi siamo arrivati al punto che si pubblicano dai cinquanta ai cento saggi sulla sinestesia all’anno”, precisa Watson. Dalle ultime ricerche abbiamo appreso, per prima cosa, che le ipotesi di Galton coglievano abbastanza nel segno.

La sinestesia grafema-colore – che è spesso al centro delle ricerche perché è relativamente facile da studiare – sembra infatti essere legata all’apprendimento, dice Wat­son. È apparso piuttosto chiaro in un importante studio condotto da Julia Simner della University of Sussex, nel Regno Unito, dal quale è emerso che la sinestesia grafema-colore si sviluppa nel corso di diversi anni durante l’infanzia.

La ricerca prevedeva la ripetizione di alcuni test su più di duemila bambini, che erano oggetto di uno studio a lungo termine commissionato dal governo scozzese. Si è visto che un sottogruppo di bambini ha cominciato ad associare le lettere ai colori intorno ai cinque anni, proprio nel momento in cui cominciavano la scuola. Secondo Simner, la sinestesia sembra aiutare i bambini a imparare quello che gli serve nei primi anni di studio: numeri, lettere e altri concetti importanti. “Nei sinesteti molte valutazioni cognitive sono più alte del 2 o 3 per cento”, afferma Simner. “Non sono tutti geni, ma hanno maggiori capacità nella produzione e nella comprensione dei vocaboli. Tendono anche a essere più creativi”.

“Questo potrebbe essere dovuto al fatto che associare le lettere ai colori aiuta a ricordare le informazioni”, afferma Nicholas Root, dell’università di Amsterdam, nei Paesi Bassi. Dopotutto esistono più modi per memorizzare. “Se sto cercando di ricordare il nome di qualcuno – supponiamo che sia Brittney – potrei ricordare che il nome è marrone, e se per me la b è marrone, so che il suo nome deve cominciare per b”, dice.

Uno strumento

Tutto questo porta a una domanda ovvia: se la sinestesia è così utile per apprendere nuove informazioni durante l’infanzia, perché non tutti i bambini fanno questi collegamenti? La ricerca di Simner suggerisce che solo 1 persona su 23 sperimenta consapevolmente una sorta di sovrapposizione sensoriale sinestetica. Essendo dimostrato che la sinestesia spesso è di tipo familiare, sembra possibile che la sua rarità sia in parte dovuta alla genetica. La natura di questa componente è probabilmente complessa. Un’eventualità è che, almeno in alcuni casi, sia legata alla potatura (pruning) delle sinapsi che avviene durante la prima infanzia mentre cresciamo e impariamo. Questa potatura elimina le connessioni neurali del cervello sottoutilizzate per migliorarne l’efficienza. Se alcune persone affette da sinestesia subiscono una potatura leggermente inferiore, possono essere in grado di avere più scambi di informazioni tra le varie regioni del cervello, come quelle dei diversi sensi. Questo può favorire le associazioni intersensoriali caratteristiche della sinestesia.

Robert Wiley, della University of
North Carolina a Greensboro, negli Stati Uniti, è uno studioso dell’apprendimento, ma non della sinestesia. Trova comunque l’idea più che plausibile. “Gran parte dell’apprendimento si basa sull’associazione”, dice. “Sappiamo dagli studi di neuroimaging condotti sui bambini prima e dopo aver imparato a leggere e a scrivere che l’acquisizione di queste abilità modifica drasticamente il cervello e il tipo di connessioni che si formano al suo interno”.

La ricerca di Simner e dei suoi colleghi suggerisce che gli individui fanno associazioni sinestetiche spontaneamente. Questo spiega perché possono variare da persona a persona. Per esempio, mentre un individuo con la sinestesia può imparare che la lettera h è arancione, un altro la può associare all’azzurro.

Non è tutto. Nonostante questa variabilità, sappiamo già da alcuni decenni che le persone con la sinestesia grafema-colore spesso sono d’accordo sul colore di certe lettere. Alcuni ricercatori pensano che questo possa aiutarci a capire meglio il funzionamento della mente umana.

Secondo Mankin, che lavora presso l’università del Sussex, la lettera j è legata a una vivace tonalità di rosa. La ricerca di Root suggerisce una possibile spiegazione. In molti paesi ricchi, alcuni stereotipi culturali incoraggiano le ragazze a considerare il rosa il loro colore preferito. È anche frequente che i bambini piccoli imparino a riconoscere l’iniziale del loro nome prima delle altre lettere dell’alfabeto, come un modo per distinguerlo da quelli degli altri. Root e i suoi colleghi si sono chiesti se questo possa spingere le ragazze con la sinestesia ad associare l’iniziale del loro nome al rosa. Quando hanno sottoposto le volontarie ai test, hanno trovato prove a sostegno di quest’ipotesi: le donne di lingua inglese avevano 4,4 volte più probabilità di percepire come rosa la prima lettera del loro nome, rispetto alle altre lettere. L’associazione, appresa nella prima infanzia, è così forte che continua a valere anche per chi, superata la fase del rosa, ha un colore preferito diverso.

“Le associazioni possono sembrare casuali, ma in realtà non lo sono”, dice
Root. Per esempio, le persone con sinestesia che hanno imparato l’alfabeto latino a scuola sono propense a vedere rossa la sua prima lettera, cioè la a. Root pensa di sapere perché: “È una delle prime cose che impari, quindi ha un colore forte”.

Nell’alfabeto coreano la prima lettera è pronunciata g o k a seconda dei casi. Lo studio di Root dimostra che, per le persone con sinestesia che a scuola imparano l’alfabeto coreano quella lettera è di solito associata al rosso. “Abbiamo esaminato circa venti sistemi di scrittura e, in tutti, la prima lettera tende a essere rossa”, dice lo studioso.

“C’è decisamente un effetto linguistico”, dice Simner, che ha esplorato i legami tra sinestesia e linguaggio. “Abbiamo visto anche che le lettere con forme simili hanno più probabilità di apparire di colori simili”. Svolgere questa ricerca con una prospettiva internazionale ha rivelato anche che le persone affette da sinestesia si collegano a diverse proprietà linguistiche, a seconda della lingua o del sistema di scrittura che imparano. Per esempio, negli ultimi dieci anni, si è visto che le persone con sinestesia che a scuola hanno studiato il giapponese spesso associano colori simili a caratteri con suoni simili. Un esempio in inglese potrebbe essere associare le lettere c e k a sfumature dello stesso colore. Però le persone con sinestesia che a scuola hanno imparato l’inglese di solito non lo fanno.

Questo può riflettere differenze chiave tra i vari sistemi di scrittura: in giapponese i caratteri tendono ad avere un’unica pronuncia, mentre in inglese le lettere possono averne diverse (come la o in go, to o how). Quando i bambini con sinestesia imparano a riconoscere le caratteristiche del loro sistema di scrittura, usano le loro abilità sinestetiche per rendere queste caratteristiche più facili da memorizzare. “Quando studi migliaia di sinesteti, cominci a vedere un mucchio di piccole regole interessanti che spiegano il motivo per cui sviluppano alcune associazioni”, dice Simner.

Tutti un po’ sinesteti

Le prove che la sinestesia grafema-colore ha un ruolo importante nell’apprendimento possono far sentire escluse le persone che non la fanno. Ma da vent’anni sappiamo che in realtà molte persone associano lettere e colori se sono invitate a farlo. Gli ultimi studi di Root suggeriscono che avviene in un modo quasi indistinguibile dalle persone con sinestesia. In una ricerca ancora non pubblicata, Root e i colleghi hanno chiesto a 51 studenti di lingua inglese degli Stati Uniti di associare le lettere ai colori. Nessuno di loro pensava di essere sinestetico, e nessuno sembrava esserlo in base ai test. Tuttavia, per un sottoinsieme di nove lettere, le associazioni di colori che hanno dato corrispondevano a quelle di un sinesteta. Per esempio, tendevano ad associare la a al rosso, la b al blu, la i al bianco e la z al nero.

Altri ricercatori, tra cui Simner, hanno fatto la stessa osservazione in passato. Ma alcuni studi precedenti suggerivano che c’erano ancora importanti differenze tra le persone con e senza sinestesia. In particolare, sappiamo che le persone con sinestesia associano sempre una determinata lettera a un particolare colore quando si sottopongono a diversi test. Le persone senza sinestesia sono più incostanti.

Nel loro ultimo studio, Root e i colleghi hanno cercato di indagare meglio questa differenza. Sospettavano che, anche se le persone senza sinestesia appaiono incostanti nelle loro associazioni grafema-colore sull’intero alfabeto, potrebbero essere più coerenti su un sottogruppo di nove lettere. Sembra che sia così: il 31 per cento delle volte, i soggetti senza sinestesia associano le stesse lettere agli stessi colori.

La sicurezza è una caratteristica importante della sinestesia grafema-colore. Chi presenta questo tratto in genere si dice certo che una particolare lettera è di un dato colore. Ma, ancora una volta, l’équipe di Root ha scoperto che questa certezza non ce l’hanno solo i sinesteti: molti partecipanti all’esperimento hanno affermato di essere sicuri di alcune scelte di colori. Il 41 per cento degli studenti è risultato coerente e sicuro dell’associazione su almeno una delle nove lettere. Dato che nessuno dei volontari ha affermato di essere sinestetico, Root pensa che la scoperta influisca sul modo in cui definiamo questa caratteristica: “Ciò che rende speciale un sinesteta non è che associa la a al rosso o suoni simili a colori simili. Ma il fatto che ne sia perfettamente consapevole”.

Questo fa pensare, dice, che possiamo immaginare chi presenta questo tratto come una “versione più facile da studiare di ognuno di noi”. Root suggerisce anche che la ricerca sulla sinestesia potrebbe offrirci una nuova prospettiva sulla differenza tra consapevolezza e inconsapevolezza. Mankin sostiene che c’è tutta una serie di esperienze sinestetiche da studiare. Pensa che le scoperte aiuteranno a capire meglio le sfumature del linguaggio, dell’apprendimento e della coscienza: “Ci offrono intuizioni uniche sulle reti di elaborazione che il cervello usa per aiutarci a parlare o pensare. E non sono solo i sinesteti ad avere reti ricche e complesse. Le abbiamo tutti”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati