Gli esplosivi giacciono sul fondo del mare del Nord, appena fuori dal porto di Kiel, in Germania, e a diversi chilometri dalla spiaggia. Sono così poco in profondità che si potrebbero toccare con una lunga canna da pesca. Furono gettati in mare dagli alleati dopo la seconda guerra mondiale, in una zona nota come Kolberger Heide, dopo che la città era stata rasa al suolo. Fu in parte il segnale che la Germania poteva voltare pagina, perché poi si cominciò a ricostruire Kiel. Le munizioni furono presto dimenticate e restarono lì. “Oggi qualunque sub dilettante potrebbe immergersi, prendere il tritolo, portarlo a riva, asciugarlo e fabbricare una bomba”, dice Edmund Maser, uno degli scienziati del North sea wrecks (Nsw), un progetto che studia l’impatto ambientale dei depositi di armi sottomarini. Poi fa una pausa e sorride: “Forse è meglio che questo non lo scriva”.

Maser dirige l’istituto di tossicologia del policlinico dell’università dello
Schleswig-Holstein, dove si occupa di avvelenamenti e studia le reazioni degli organismi viventi, esseri umani compresi, alle sostanze chimiche tossiche, come quelle che fuoriescono dalle discariche risalenti all’epoca della guerra e dai relitti navali sparsi per l’Europa. È puntiglioso e chiacchierone, con un debole per le cozze, le pulci d’acqua e altre creature non proprio attraenti, unito a un atteggiamento indulgente verso il rischio: contravvenendo alle regole dell’ospedale, mi fa entrare nel suo ufficio senza mascherina. E qui mi racconta come lui stesso sarebbe potuto restare all’oscuro delle 1,8 milioni di tonnellate di armi sommerse nelle acque tedesche se nel 2011 non fosse stato contattato dal ministero dell’agricoltura, dell’ambiente e delle aree rurali dello Schleswig-Holstein. L’amministrazione del land voleva capire se queste munizioni stavano avvelenando l’ambiente marino. Maser e i suoi collaboratori, innanzitutto, portarono delle cozze a Kolberger Heide e le lasciarono immerse tra le mine che si stavano corrodendo, per poi raccoglierle e valutarne lo stato di salute. I risultati erano chiari: “Le cozze stavano soffrendo”.

Detonazione di un ordigno della seconda guerra mondiale. Mar Baltico, 16 maggio 2014 (David R. Krigbaum, Pjf Military Collection/Alamy)

I mitili di Maser erano solo un sintomo di un fenomeno grande e senza contorni precisi in corso da decenni. Durante le due guerre mondiali affondarono almeno 28mila navi, portando con sé tutte le sostanze chimiche che trasportavano: il carburante dei serbatoi, il tritolo delle munizioni, il mercurio nelle stive. All’epoca la capacità di assorbimento del mare sembrava infinita: dopo la seconda guerra mondiale le forze alleate organizzarono l’eliminazione su larga scala di ciò che restava dell’arsenale di armi convenzionali e chimiche della Germania in siti come Kolberger Heide. Era una soluzione semplice e a buon mercato, la stessa che continuò a essere usata in tutto il mondo fino al 1972, quando molti paesi ci rinunciarono firmando la convenzione di Londra promossa dalle Nazioni Unite.

Queste sostanze chimiche potevano restare isolate dagli ecosistemi per decenni, sigillate in serbatoi e contenitori di metallo e ricoperte da una seconda barriera protettiva di idroidi, anemoni e briozoi che ci crescevano sopra. Ma con il tempo il metallo è stato corroso dall’acqua salata, agitato dalle correnti e scosso dallo spostamento di sedimenti. Il primo campanello d’allarme è suonato nel 2001, quando un villaggio di pescatori in Micronesia, molto lontano dal commercio globale di petrolio, si è svegliato trovando la sua laguna turchese annerita dal greggio. Un tifone aveva danneggiato il relitto di una petroliera della marina statunitense affondata durante la seconda guerra mondiale. Nel 2005 i ricercatori hanno stimato che i relitti delle vecchie navi potrebbero ancora contenere fino a 23 miliardi di litri di petrolio, pari a 550 disastri della Exxon Valdez, la nave affondata in Alaska nel 1989.

Animali intossicati

L’impatto ambientale delle fuoriuscite di petrolio è immediato e visibile. Gli effetti delle munizioni invece ricevono meno attenzione perché in acqua si dissolvono lentamente e sono invisibili. Il fosforo bianco è stato raccolto da ignari cercatori di oggetti sulle spiagge, che lo hanno scambiato per ambra ma poi gli ha preso fuoco nelle tasche. Bombe inesplose hanno ostacolato le indagini sul sabotaggio del gasdotto Nord Stream, sono costate ai gestori dei parchi eolici offshore centinaia di migliaia di dollari per lavori di bonifica e hanno impedito la costruzione di un ponte per collegare la Scozia e l’Irlanda del Nord. A Beaufort’s Dyke, una trincea naturale dove sarebbe dovuto passare un ponte e che i britannici usarono come discarica nel dopoguerra, ogni tre mesi ci sono esplosioni subacquee così forti da essere registrate dai sismografi. Le onde d’urto che le accompagnano possono assordare una balena a un miglio di distanza.

Ma quello che più interessa Maser come scienziato è la guerra che si svolge a livello molecolare. Nel suo laboratorio il lavoro comincia esaminando campioni di pesci e di mitili, che si conservano surgelati in sacchetti chiusi con la zip ed etichettati con il nome del relitto da cui provengono, come il John Mahn o l’Sms Ariadne. Quando mi ha fatto vedere il surgelatore, gli ho detto scherzando che agli studenti potrebbe venire voglia di saccheggiarlo dopo la chiusura della caffetteria. “È quello che tutti vogliono sapere”, ha risposto Maser pensoso. “Si possono ancora mangiare i frutti di mare?”. Il tnt, o tritolo, è un composto chimico altamente esplosivo. Allo stato naturale è anche tossico ed è assorbito facilmente dal flusso sanguigno attraverso i polmoni, il sistema digestivo e perfino la pelle. Le operaie che durante la guerra fabbricavano munizioni erano state ribattezzate “ragazze canarino”, perché il tritolo macchiava di giallo acceso i loro capelli e la pelle. In seguito, molte ebbero problemi di salute, sviluppando malattie al fegato o l’anemia.

Per verificare se il pesce contiene livelli pericolosi di tnt, gli esemplari devono essere tritati in particelle tanto fini da dissolversi in una soluzione, che è poi omogeneizzata in campioni di liquido chiaro grandi come un ditale. Successivamente i campioni sono analizzati con uno spettrometro di massa, uno strumento che conta il numero delle molecole che compongono il pesce. Sul computer vicino all’apparecchio, Maser indica il picco azzurro che appare in un grafico sullo schermo: “Questo è il tritolo: 1,6 nanogrammi per grammo”.

È troppo? Nella sua voce avverto una punta di freddezza e irritazione. La pesca commerciale è un’industria da trecento milioni di euro in Germania. Il ricercatore mi racconta che quando cominciò a parlare del problema con la stampa, disse che i pesci avrebbero potuto essere pericolosamente contaminati. I pescatori locali lo vennero a sapere e cominciarono a lamentarsi dell’esperto che voleva distruggere la loro attività. “Tolsero il condizionale dalle mie parole”, ricorda Maser. “Io avevo detto ‘potrebbe essere’, mentre loro dissero semplicemente ‘è’. In seguito sono diventato un po’ più cauto”.

Eppure Maser mi assicura che gli attuali livelli di tritolo nel pesce sono trascurabili per la salute umana. Poi arrivano i ma. Il primo riguarda il danno all’ambiente. “Magari possiamo mangiare pesce e mitili, ma che facciamo se tra vent’anni non ci saranno più pesci da mangiare?”. Per gli animali, vivere in un bagno di tritolo è come per noi vivere in un bar pieno di fumo. Ogni mitile analizzato, mi dice Maser, mostrava segni di stress ossidativo, l’indicatore di un organismo con danni cellulari superiori a quelli che è in grado di riparare. Oltre la metà dei pesci catturati intorno ai relitti affondati nel mare del Nord soffriva di gravi tumori al fegato. Mentre Maser mi espone le statistiche, a volte è difficile, nell’ambiente sterile e scintillante del laboratorio, farsi un’idea delle creature viventi. A un certo punto i miei occhi sono attratti da alcuni becher che contengono un liquido in cui riesco a distinguere i movimenti fluidi e incerti della vita organica. “Sono le nostre dafnie, le pulci d’acqua”, dice Maser mentre mi avvicino per guardare meglio gli esemplari traslucidi, grandi come un moscerino. “Le usiamo per un rapido controllo del tritolo. Se metti qualche goccia d’acqua con del tritolo nel becher, la dafnia smette di muoversi”.

Rivestimenti di metallo

I livelli di contaminazione tossica potrebbero anche aumentare. I rivestimenti di metallo delle munizioni si stanno corrodendo e prima o poi spariranno. “E noi sappiamo da Kolberger Heide che quando il tritolo è completamente esposto all’acqua, la sua concentrazione nei mitili può aumentare di cinquanta volte rispetto a quanto vediamo nei siti delle navi affondate nel mare del Nord,” spiega Maser. “Quei livelli possono rappresentare una minaccia per la salute umana”, aggiunge. La scomparsa dei rivestimenti complicherebbe anche la ricerca e la scoperta delle tante discariche e dei tanti relitti potenzialmente pericolosi di cui non conosciamo ancora la posizione, perché queste operazioni si basano sui metal detector.

Il relitto del piroscafo Pasubio, affondato nel 1943. Roccella Ionica, Italia, 18 agosto 2022 (Alessandro Rota, Getty)

Da sei anni a questa parte, Maser non fa che lanciare allarmi nelle sue riunioni quasi mensili con politici, scienziati e mezzi d’informazione. Il giorno prima del nostro incontro ha illustrato la questione alla Conferenza parlamentare del mar Baltico. È spesso accolto con scetticismo. Le munizioni sono davvero dannose come altri inquinanti dell’oceano, per esempio i pesticidi o le sostanze farmaceutiche? Maser sottolinea che le munizioni sono fondamentalmente diverse per un aspetto cruciale: rispetto alle altre sostanze chimiche, che possono essere neutralizzate solo dall’azione del tempo, le munizioni si possono prendere e rimuovere.

Almeno in teoria. Sven Van Haelst ricorda il momento in cui si rese conto che i relitti delle navi erano una minaccia per gli esseri umani e la natura. Negli anni novanta, molto prima di diventare uno scienziato, faceva parte di una piccola comunità di sub incalliti che perlustrava l’agitato e torbido mare del Nord alla ricerca di imbarcazioni affondate. All’epoca si preoccupava soprattutto delle violente correnti che scuotevano quei fragili relitti e di chi li saccheggiava per ricavarne dei souvenir. Poi, durante un’uscita in mare, mentre un compagno stava forzando un oblò arrugginito, vide qualcosa che non si aspettava. Quando l’oblò cedette, dall’apertura fuoriuscì una grossa bolla color cioccolato, seguita da un’altra e un’altra ancora, finché dalla nave zampillò un pennacchio che cominciò a risalire verso l’alto come un fantasma sguinzagliato. Era petrolio, si rese conto Van Haelst. In pochi secondi la sostanza raggiunse la superficie, assumendo la forma di una coperta iridescente che sembrava gravare sul mare e uccidere perfino le onde. “Per la prima volta pensai che potesse esserci un problema”, dice. Archeologo subacqueo e sub scientifico, Van Haelst ha contribuito al piano sui relitti navali che l’Nsw doveva studiare. In Belgio, dov’è nato, le informazioni sui relitti e sulla loro posizione sono pubbliche. La sua esperienza è fondamentale per valutare quali relitti sono agibili e allo stesso tempo utili da studiare. Alcuni potrebbero essere coperti da metri di sedimenti o rovesciati in un modo che rende troppo pericoloso esplorarli. Altri potrebbero trovarsi sulle rotte marittime, dove l’accesso per la ricerca sarebbe impossibile. Altri ancora potrebbero aver usato il grosso dei loro arsenali prima di affondare, una possibilità che i ricercatori dell’Nsw cercano di valutare ricostruendo la durata e l’intensità delle battaglie combattute da ogni nave con i diari dei marinai e i giornali di bordo dei comandanti.

Nel mare del Nord le correnti sono fortissime, e le esplorazioni possono essere condotte solo nelle poche ore preziose dei due giorni di marea di quadratura che ci sono ogni mese. Le condizioni climatiche aggiungono altre complicazioni: metà delle immersioni sono annullate a causa della nebbia o perché le onde sono troppo alte per recuperare i sub senza correre rischi. E anche quando l’immersione è possibile, la visibilità sott’acqua può essere così scarsa che i sub non riescono a vedere oltre la punta delle loro dita. “La prima volta che t’immergi nel mare del Nord hai l’impressione di nuotare in un deposito di rottami di metallo”, spiega Van Haelst. “Se non sai com’è fatta la nave, è tutto quello che riesci a vedere”. Nei video che mi ha mostrato la discesa comincia come un movimento attraverso un colore puro, ondeggiante, poi sempre più scuro. Più vicino al letto del mare, densi fiotti di materia organica si spostano rapidamente insieme alla corrente. Infine appare un’ombra, qualche linea, le colonie rivelatrici di pallide anemoni, e poi forme più precise: poligoni e tubi, barili e condutture, ma nulla che somigli a una nave. Le munizioni possono essere sparpagliate ovunque, i loro contorni un tempo definiti e scintillanti oscurati da una poltiglia muscosa.

Metà delle immersioni sono annullate a causa della nebbia

Durante le recenti esplorazioni della John Mahn, una nave da guerra tedesca nel mare del Nord belga e uno dei principali oggetti d’attenzione della ricerca, i sub dell’Nsw non sono riusciti a confermare visivamente la presenza di proiettili antiaereo che, stando ai dati d’archivio, avrebbero dovuto essere numerosi. Non sanno se è perché i proiettili sono stati spostati dalle correnti e ricoperti dai sedimenti o perché sono stati presi dai cercatori di tesori. I sub sportivi perlustrano spesso i relitti prendendo di tutto, dalle monete d’oro agli strumenti in ottone, dagli oblò ai denti falsi. L’agenzia marittima e della guardia costiera del Regno Unito ha scoperto che negli ultimi dieci anni sono state completamente svuotate quaranta navi da guerra.

I cercatori di tesori rimuovono le munizioni a mano, ma se le condizioni non sono ideali questo sistema è considerato troppo pericoloso per iniziative di bonifica su vasta scala. Van Haelst attualmente lavora con la marina belga alla stesura di un piano per rimuovere manualmente un carico di mine anticarro da una nave da trasporto tedesca. Queste mine, però, erano state spedite senza detonatori, perciò non si corre il rischio di esplosioni. In molti altri casi le operazioni di bonifica sono affidate ai droni subacquei, che possono essere efficaci quando si tratta di munizioni sul fondo marino, ma lo sono meno quando devono operare tra le fessure di un relitto. Maarten De Rijcke, un altro sub scientifico dell’Nsw, dice che l’organizzazione ha valutato la possibilità di usare i droni per raccogliere campioni, ma ha deciso di rinunciare: “I robot marittimi sono il futuro, ma è difficile lavorare con gli esplosivi in modo sicuro usando un veicolo telecomandato vicino a un relitto navale, perché esiste un alto rischio che si incagli”.

Alcune aziende offrono servizi di rimozione delle mine, ma a prezzi (sessantamila euro a ordigno) che hanno senso solo per grandi progetti infrastrutturali. Una parte del costo riguarda lo smaltimento dei materiali esplosivi riportati a riva. In Germania un solo impianto ha la certificazione per distruggere gli esplosivi recuperati, e la sua capacità si limita a cento tonnellate all’anno, una quantità sufficiente per gestire le munizioni che finiscono a riva o sugli impianti eolici, ma non per affrontare le 1,8 milioni di tonnellate di armi sommerse nelle acque tedesche. Costruire altre strutture di questo tipo è complicato. Come dice Maser: “Chi vuole avere sulla costa una fabbrica che elimina mine e granate?”.

Finora i governi hanno preferito soluzioni che sfruttano poco la tecnologia come le esplosioni sul posto. C’è un problema però: questa soluzione elimina il rischio di detonazioni impreviste, ma accelera i danni ambientali, deteriorando i rivestimenti metallici. Il governo tedesco, motivato forse dalla necessità di costruire piattaforme di gas naturale offshore in risposta all’embargo del gas russo, ha stanziato 102 milioni di euro per sviluppare il prototipo di un impianto galleggiante autonomo in grado di individuare, recuperare e incenerire sistematicamente le munizioni su larga scala, soprattutto in mare. Ma perfino questa struttura potrebbe distruggere solo mille tonnellate di munizioni all’anno. Per risolvere il problema servono almeno cento piattaforme, sostiene la ThyssenKrupp, l’azienda che ha vinto l’appalto. Ai costi attuali, rappresenterebbero un quinto dell’intero bilancio tedesco per la difesa.

Quando ho parlato con Maser e gli altri ricercatori dell’Nsw, tutti hanno sottolineato la necessità di rimuovere le munizioni il più rapidamente possibile. Van Haelst e De Rijcke, invece, sono stati meno insistenti. I relitti che hanno studiato, dicono, andrebbero monitorati, ma al momento in tutti i siti tranne uno la concentrazione di tritolo nell’acqua è ben al di sotto dei livelli ritenuti tossici. Inoltre, i relitti possono essere un punto d’osservazione della biodiversità, tombe di guerra o parte del patrimonio culturale. “Quando sei là sotto e vedi dove la bomba colpì la nave”, dice De Rijcke, “e sai che affondò in trenta secondi e pensi che delle persone persero la vita, trovandosi in una situazione in cui non avrebbero dovuto essere, quando vedi i loro oggetti personali, vivi un’esperienza emotivamente forte”.

Minuscole increspature

Dopo le interviste ho fatto una passeggiata fino al porto. A differenza di molte città tedesche, la ricostruzione postbellica di Kiel è piuttosto confusa. La città vecchia è una copia aggressiva, un monito sul pericolo di ripartire troppo in fretta. Ho comprato un panino con il pesce e mi sono seduto sul molo a osservare le minuscole increspature che muovevano la superficie grigio tortora dell’acqua. Probabilmente da qualche parte sotto le onde c’erano delle granate. Probabilmente nel mio pesce c’era del tritolo. Probabilmente c’erano sostanze chimiche tossiche negli spruzzi del mare.

Cercavo di tenere in mente tutto questo, ma avevo freddo e fame, e l’acqua continuava a borbottare. Ho mangiato il panino, respirato l’aria di mare e mi sono avviato verso la stazione ferroviaria. Avrei dovuto accontentarmi di questa esperienza, forse la più comune tra gli abitanti di questa città: ignorare il passato finché non troverà un modo per uccidere.◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 53. Compra questo numero | Abbonati