L’11 e il 12 gennaio molte persone sono rimaste incollate davanti agli schermi per ore. Al punto da mandare in tilt il sito delle Nazioni Unite che trasmetteva la diretta, una cosa del tutto eccezionale. Probabilmente infatti è la prima volta che tante persone seguono, e con grande interesse, le udienze pubbliche di un caso portato davanti alla Corte internazionale di giustizia (Cig). Alla fine di dicembre il Sudafrica ha denunciato Israele accusandolo di aver mancato al suo dovere di applicare la convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, di cui lo stato ebraico è firmatario.

Alla base dell’accusa c’è la guerra distruttiva portata avanti nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre dopo il sanguinoso attacco a sorpresa di Hamas, che Pretoria colloca in un contesto più ampio di apartheid, di occupazione e di assedio. “La violenza e la distruzione in Palestina e in Israele non sono cominciate il 7 ottobre 2023”, ha dichiarato davanti alla corte il ministro sudafricano della giustizia, Ronald Lamola. “I palestinesi hanno vissuto un’oppressione e una violenza sistematiche negli ultimi 76 anni”.

È difficile ignorare quello che stanno vivendo i palestinesi. Nell’era dei social network e dell’informazione istantanea le notizie provenienti dalla Striscia di Gaza sono riuscite ad arrivare fuori dall’enclave nonostante le interruzioni della connessione internet e le censure imposte ripetutamente da Israele dall’inizio della guerra. E le dichiarazioni israeliane, che lascerebbero presagire l’inizio di una terza fase di combattimenti, a più bassa intensità, sembrano contraddette dai fatti, mentre il bilancio delle vittime fatto dalle autorità di Gaza supera i 24mila morti.

“Ci sono tante persone sconvolte dal numero di vittime tra i civili palestinesi a Gaza che la causa per genocidio proposta dal Sudafrica contro Israele è oggetto di un’attenzione straordinaria”, afferma Kenneth Roth, ex direttore dell’ong statunitense Human rights watch (dal 1993 al 2022), attualmente professore alla School of public and international affairs dell’università di Princeton, negli Stati Uniti. Tanto più che le udienze per stabilire le misure provvisorie chieste dal Sudafrica – cioè la cessazione delle operazioni militari israeliane – si svolgono contemporaneamente al conflitto che continua a infuriare. L’emittente qatariota Al Jazeera, che si è distinta per la sua copertura giornalistica dall’interno della stessa Striscia di Gaza, ha diffuso in diretta immagini che mostravano la distruzione e la sofferenza nell’enclave parallelamente alla trasmissione delle udienze.

Anche se i casi giudiziari in materia di genocidio sono rari, difficili da provare perché bisogna non solo dimostrare l’esistenza del crimine ma anche l’intenzione di commetterlo, e richiedono anni di procedure, una decisione della corte è attesa nelle prossime settimane in merito alle disposizioni che Israele dovrebbe immediatamente adottare per prevenire un eventuale genocidio. “Questo caso fa nascere la speranza di un’altra via possibile per imporre un’assunzione di responsabilità”, osserva Roth. “Se la corte nel quadro delle sue misure provvisorie ordinerà al governo israeliano di smettere di compiere atti genocidari, questo potrebbe contribuire a salvare le vite di molti civili palestinesi”. Secondo diversi analisti ci sono buone possibilità che la corte prenda dei provvedimenti, ma la giurisdizione internazionale non ha gli strumenti per farle applicare, se non passando per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove il fedele alleato statunitense di Tel Aviv imporrebbe sicuramente il suo veto. Rilevando che un rischio di genocidio è molto concreto, tuttavia, una decisione simile danneggerebbe comunque Israele in modo consistente.

A geometria variabile

Il timore di vedere la propria immagine e la propria reputazione internazionale infangate dal peccato originale che è il fondamento stesso della sua creazione ha spinto lo stato ebraico a mettere in campo una vasta offensiva di comunicazione rivolta all’opinione pubblica straniera e agli alleati per screditare la denuncia sudafricana. Alcuni osservatori hanno giudicato insufficiente la copertura giornalistica della procedura nei paesi occidentali, denunciando faziosità e mancanza d’indipendenza dei mezzi d’informazione.

L’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett ha descritto il procedimento giudiziario come “l’affare Dreyfus del ventunesimo secolo”, definendolo una “vergognosa dimostrazione di ipocrisia e di flagrante antisemitismo”. L’11 gennaio, dopo l’udienza degli avvocati di Pretoria che hanno citato i dati provvisori di danni, perdite e vittime, gli elementi probatori e gli indizi di un’intenzione genocidaria, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che “Israele è accusato di genocidio mentre sta combattendo un genocidio, è un mondo alla rovescia”.

Ma di insolito in questa denuncia c’è soprattutto il fatto di provenire dal sud globale. La giustizia internazionale è spesso criticata per i suoi costi e la sua lentezza, ma in molti la ritengono anche faziosa, uno strumento di potere a geometria variabile usato dalle potenze occidentali. Una realtà che la denuncia del Sudafrica sembra aver smentito.

“L’attenzione ricevuta da questo caso deriva anche dal fatto che rappresenta un esempio di un’importante iniziativa in materia di diritti umani guidata da un governo del sud globale”, insiste Kenneth Roth. I governi occidentali, che spesso sono i paladini della difesa dei diritti umani, non hanno fatto niente, o quasi, per fermare la devastazione di Gaza compiuta da Israele e impedire la morte di più di 24mila palestinesi.

Commentando le audizioni della squadra sudafricana sul social network X, la relatrice dell’Onu sui territori occupati palestinesi, Francesca Albanese, ha elogiato “donne e uomini africani che lottano per salvare l’umanità e il sistema della giustizia internazionale”, concludendo che “questo segnerà la storia, qualunque cosa accada”.

Recuperare la fiducia

Sarà un’occasione per la giustizia internazionale di riconquistare credibilità agli occhi del sud globale? Le udienze sono state seguite con attenzione da Pretoria a Gaza, nei limiti del possibile date le condizioni attuali. “Anche se la maggior parte delle persone non sa molto sulla Corte internazionale di giustizia – in tanti la confondono con la Corte penale internazionale (Cpi) – sa però che Israele è sotto processo”, sottolinea Phyllis Bennis, direttrice del progetto Nuovo internazionalismo presso l’Institute for policy studies di Wash­ington: “Ed è una cosa senza precedenti, perché per decenni gli Stati Uniti hanno sostenuto Israele non solo con miliardi di dollari in aiuti militari, ma anche offrendogli l’impunità”.

Questo sentimento emerge anche dallo stallo dell’inchiesta lanciata nel 2021 dalla Cpi sui crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel conflitto israelo-palestinese dal giugno 2014. “In tanti sono frustrati dal fatto che finora il suo procuratore generale, Karim Khan, abbia pubblicato solo dei comunicati stampa, senza formulare accuse per crimini di guerra”, osserva Kenneth Roth, secondo il quale i progressi su questo caso potrebbero fare “un’enorme differenza per ripristinare la fiducia nel diritto internazionale”.

L’ex direttore di Human rights watch precisa: “Senza il diritto ci si limiterebbe a quelle politiche di potere che finora hanno solo incoraggiato il governo israeliano nella sua traiettoria”. Resta da vedere se i componenti della Cig non si lasceranno influenzare dalle loro appartenenze nazionali, dato che la presidente della corte, Joan Donoghue, è una cittadina statunitense. “Probabilmente non tutti i giudici voteranno secondo le preferenze del loro governo, ma senz’altro terranno presenti le conseguenze politiche” nel paese, prevede Bennis. Tuttavia, “i giudici sono indubbiamente preoccupati per la loro credibilità e per quella della corte in futuro, e sono consapevoli dell’indignazione globale rispetto alle azioni israeliane a Gaza”. ◆ fdl

Da sapere
Cento giorni dopo

◆ Trascorsi cento giorni dall’inizio dell’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, secondo le autorità di Hamas nei bombardamenti sono morte 24.448 persone, circa l’1 per cento della popolazione del territorio. Negli ultimi giorni gli attacchi israeliani si sono concentrati a Khan Yunis, la grande città del sud. L’esercito israeliano ha affermato che una delle quattro divisioni che hanno partecipato all’offensiva di terra ha lasciato la Striscia il 15 gennaio. Allo stesso tempo, però, il governo israeliano insiste sul fatto che il conflitto andrà avanti per mesi, e il 15 gennaio ha stanziato quindici miliardi di dollari per coprirne i costi.
◆Il 15 gennaio Hamas ha annunciato la morte di due ostaggi israeliani nei bombardamenti dell’esercito. Afp


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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati