Editoriali

Equilibri delicati a Taiwan

La vittoria alle presidenziali di Taiwan di Lai Ching-te, descritto da Pechino come un pericoloso separatista, ha regalato al Partito democratico progressista (Dpp) un sorprendente terzo mandato consecutivo. Nelle loro prime dichiarazioni Lai e i vertici del governo cinese hanno scelto toni abbastanza concilianti. A Pechino l’ufficio per gli affari di Taiwan ha garantito di voler “lavorare con i partiti politici, i gruppi e i cittadini di ogni settore per promuovere gli scambi e la cooperazione”. Lai ha riconosciuto di avere “la grande responsabilità di mantenere la pace e rapporti stabili” con la Cina. Questa moderazione è un ottimo segnale. Lo stretto di Taiwan, che separa l’isola dalla Cina continentale, è una polveriera. Pechino rivendica la sovranità su Taiwan e minaccia di attaccarla se continuerà a opporsi all’unificazione, mentre il Dpp rifiuta la definizione di Taiwan come “provincia” della Cina.

La moderazione di Pechino e la capacità di Lai di trovare un equilibrio saranno messe alla prova più volte. Entrambi gli schieramenti, così come i governi occidentali, dovrebbero fissare in modo chiaro i limiti invalicabili nei rapporti tra i due paesi ed evitare di oltrepassarli. Il primo test sarà il 21 gennaio con l’arrivo a Taipei di una delegazione di ex alti funzionari statunitensi incaricati di “esprimere le congratulazioni del popolo americano”. Considerando che la Cina si oppone a qualsiasi contatto tra il governo degli Stati Uniti e quello di Taiwan, la scelta dei componenti della delegazione è un segnale di sensibilità da parte di Washington. Inviando ex funzionari anziché politici in carica, la Casa Bianca può sostenere di non avere legami ufficiali con Taipei. Anche se Lai ha avuto circa il 40 per cento delle preferenze e il Dpp ha perso il controllo del parlamento, il risultato è un messaggio di sfida degli elettori agli avvertimenti lanciati da Pechino prima del voto.

In futuro tutti dovrebbero concentrarsi sul mantenimento della pace: a Pechino spetta il compito di interrompere le manovre militari intorno all’isola smettendo di minacciare un intervento armato; a Lai e agli altri funzionari taiwanesi di mantenere la prudenza nei discorsi scelta da Tsai Ing-wen durante la sua presidenza e favorire i contatti diretti con i loro colleghi nella Cina continentale; gli Stati Uniti dovrebbero evitare di provocare inutilmente Pechino. L’attuale equilibrio geopolitico è fragile, ma è molto meglio di una guerra che potrebbe degenerare in uno scontro tra superpotenze. ◆ as

La strategia rischiosa dell’Iran

Spesso in Medio Oriente la gente muore solo perché una delle parti in conflitto ha bisogno di mandare un messaggio, di salvare la faccia o di mantenere intatto il proprio potere deterrente. Non serve neanche che ci sia una guerra in corso. Anzi: a volte è proprio a causa dei morti che la situazione rimane relativamente pacifica o quantomeno stabile. È dal 7 ottobre che lungo il confine tra Libano e Israele ci sono scontri a fuoco tra il gruppo libanese Hezbollah e l’esercito israeliano: muoiono miliziani di Hezbollah, soldati israeliani e civili di entrambe le parti. Così l’organizzazione libanese dimostra la sua solidarietà verso i palestinesi di Gaza e verso Hamas senza dover entrare in guerra con Israele. Una guerra che non vuole. I morti – suoi e israeliani – consentono a Hezbollah di evitarla. Cinico, ma vero.

Anche i missili che l’Iran ha lanciato nella notte tra il 15 e 16 gennaio hanno mandato un segnale. Cosa vogliono dirci i mullah? Come Hezbollah, dal 7 ottobre sono sotto pressione. Teheran ha giurato per anni di voler distruggere lo stato ebraico e ora che tutta la regione guarda a Gaza con orrore cosa fa? Poco o niente. Il regime iraniano lascia che i suoi alleati conducano una guerra ombra: mentre in Iraq e in Siria le milizie sciite lanciano ripetuti attacchi contro le basi statunitensi e gli huthi dello Yemen impazzano nel mar Rosso, Teheran si muove con discrezione. A Erbil, nel nord dell’Iraq, un missile iraniano ha colpito un’abitazione privata, uccidendo cinque persone. Eppure, di obiettivi nella città ce ne sarebbero molti altri: il consolato statunitense in costruzione, per dirne uno. Ma attaccandolo Teheran avrebbe lasciato intendere di volere un’escalation. I missili, invece, veicolano un messaggio diverso: l’Iran non vuole allargare il conflitto. Una guerra regionale in Medio Oriente si può evitare. ◆ sk

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1546 - 19 gennaio 2024
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