Lo speaker della televisione romena annuncia che il segretario generale del partito, Nicolae Ceaușescu, è profondamente addolorato per l’atteggiamento delle donne romene che non vogliono fare bambini. Per aiutarle a cambiare questa condotta egoistica, nell’ottobre del 1966 il compagno Ceaușescu introduce il decreto n. 770, in virtù del quale praticare l’aborto sarà punito con la detenzione.

“In questo modo”, proclama lo speaker, “scriviamo un’altra pagina di storia nella nostra gloriosa lotta contro la decadenza dell’imperialismo”.

Dal 1 ottobre hanno diritto agli anticoncezionali e all’aborto solo le donne che hanno tenuto fede al dovere patriottico e hanno messo al mondo almeno quattro figli oppure quelle che hanno compiuto quarant’anni; in quest’ultimo caso aumenta infatti il rischio che il bambino possa avere qualche malformazione, mentre la nazione ha bisogno “di vitalità, di gioventù e di vigore”.

Durante il nono congresso del partito comunista romeno, nel 1965, Ceaușescu aveva già sottolineato il fatto che era necessario e ineludibile intraprendere passi drastici. I membri del partito erano del suo stesso avviso: dopo le ultime parole del segretario si erano alzati tutti in piedi. Nella sala si era levato uno scroscio uniforme di applausi. Battevano le mani sia gli uomini sia le donne. Gli uomini sorridevano, le donne no.

I giornali del giorno dopo l’annuncio del decreto scrivono, con genuino apprezzamento, della lungimirante politica del segretario generale, che mette in campo tutti gli sforzi possibili per fare della Romania una potenza mondiale. Il partito forgia anche un motto: “Venticinque milioni di Romeni nel 2000!”. Ne mancano ancora cinquemila, bisogna quindi che le cittadine si diano da fare.

Sarà più facile, perché nel frattempo dai negozi scompaiono i preservativi. A volte si possono ancora comprare sottobanco degli ovuli di chinino, che bruciano talmente da ricordare più uno sturalavandini corrosivo che degli anticoncezionali. E comunque tutti sono abituati al fatto che le gravidanze indesiderate si risolvono con l’aborto.

I romeni sono disorientati: la risoluzione viene presa da un giorno all’altro e la maggioranza delle donne non ha la minima idea della propria fisiologia. L’educazione sessuale non esiste, poche madri riescono a parlare con le figlie di prevenzione della gravidanza. Le amiche si bisbigliano nelle orecchie “versaci dentro della polenta bollente”, “salta su un piede”, “corri per le scale”.

Nel 1967 in Romania vengono alla luce il doppio di neonati rispetto all’anno precedente. I bambini di quell’annata record nella storia del paese provano sulla propria pelle l’inefficienza dello stato: mancano posti negli asili nido, nelle scuole materne e alle elementari, poi mancheranno lavoro e case.

Quando nel 1989 scoppia la rivoluzione i decre ţ ei (“figli del decreto”), come vengono chiamati in Romania i figli del picco demografico dei primi anni dopo l’introduzione del decreto, staranno entrando nell’età matura. E si renderanno conto che nella Romania comunista ormai decaduta per loro non c’è futuro. Saranno pieni di astio e di rabbia, e vorranno la morte di colui che li ha fatti venire al mondo. La morte del Padre della nazione.

Ma intanto è il 1966. Il Padre della nazione istruisce le romene su come avere figli e le romene imparano ad arrangiarsi. Si scambiano metodi e nomi. Fanno bollire pentoloni d’acqua. Preparano bustarelle. Stendono tele cerate. Sulla soglia di appartamenti presi in affitto sussurrano attraverso uno spiraglio la parola d’ordine convenuta.

Nella Romania comunista la donna doveva essere prima di tutto una lavoratrice, poi una madre e per ultimo una moglie. Nel 1974, durante il congresso del partito, una delle partecipanti pronuncia un discorso di fuoco: “Le donne godono di un sostegno assoluto da parte del partito. Il partito crea le condizioni perché non le si consideri donne ma esseri umani uguali ai maschi”.

Quando il decreto entrò in vigore, la signora Maria aveva appena compiuto venticinque anni e, come dice lei, era un bocconcino da far girar la testa. Oggi ha quasi settant’anni, grosse lenti sul piccolo naso, capelli brizzolati, un corpo minuto e tanta verve. Ha trascorso tutta la vita a Bucarest, dove ha lavorato come direttrice di una scuola elementare.

“In Romania c’è questo modo di dire: ‘La donna è una mucca da latte e un bue da tiro’. Ce n’è anche un altro, secondo il quale la donna è un cavallo che si monta, si doma e poi si lega a un palo. Tutto questo stava nella testa della gente da secoli, discendeva nientemeno che dai turchi. Gli uomini ritenevano che il sesso fosse cosa loro. Non esisteva neppure il concetto di violenza sessuale, che roba era? La donna doveva dare e basta. Negli anni sessanta ero venuta in Polonia e avevo fissato un appuntamento con dei conoscenti polacchi davanti all’albergo. Aspetto e aspetto: non arriva nessuno. Li incontro il giorno dopo, chiedo perché mi avessero piantata lì in quel modo e loro: ‘Ma noi ti abbiamo aspettato dentro l’albergo, al ristorante, vicino all’ingresso!’. Cosa?! In Romania a nessuno sarebbe passato per la testa che una donna potesse entrare da sola in un ristorante. Da sola?!”.

Le donne che se la passavano peggio di tutte erano quelle con figli illegittimi. “Era come se avessero scritto in fronte ‘prostituta’”, continua a rievocare la signora Maria. “A volte riuscivano a convincere qualcuno a sposarsi con una gravida anche solo per un paio di mesi, per evitarle quella vergogna. Nelle città più piccole le donne che rimanevano incinte scappavano immediatamente di casa oppure aspettavano di aver partorito, abbandonavano il bambino all’ospedale e se la davano a gambe”.

Nel 1966 i romeni sono disorientati: l’educazione sessuale non esiste, poche madri riescono a parlare con le figlie di prevenzione della gravidanza

La signora Oana è una paffuta sessantenne dai capelli color mogano. Parla velocemente e ride spesso, anche di argomenti su cui ci sarebbe poco da ridere. Un tempo era ingegnere, ora è in pensione.

“Tutti conoscono queste storie. C’era chi faceva la spia e chi si beccava una condanna. La donna che aveva abortito andava in carcere per sei mesi, al medico appioppavano due anni e una multa. Negli ospedali c’erano delle commissioni speciali che indagavano sul tipo di raschiamento subìto dalle pazienti ricoverate con emorragia per capire se qualcuno le avesse aiutate ad abortire. Le donne si infilavano nell’utero qualsiasi cosa appuntita. Ovviamente si procuravano delle ferite ma lo scopo era proprio quello di provocare un’emorragia e far sì che alla fine uscisse fuori tutto. In campagna si usavano fusi, ferri da calza, uncinetti, ma anche radici di rafano, gambi di certe piante, come l’iperico e il levistico. La migliore era la bardana perché aveva un gambo lungo e rigido, e si usava per curare le ferite. La bardana aveva un’azione disinfettante ed era come un coltello. L’ideale. Non riesco più a guardare una donna che lavora ai ferri senza provare un brivido. Per me i ferri da calza vogliono dire una cosa sola. Forse è una specie d’ossessione, non lo so. Ho quasi sessantun anni, sarebbe ora che me ne dimenticassi, vero? Non molto tempo fa io e mio marito siamo andati fuori città; mentre lui pescava io mi sono seduta sul plaid e guardavo i cespugli, le piante di assenzio, l’ortica, i cardi, e pensavo: ‘Questa sarebbe adatta, questa no’”.

Le donne morivano così. Morivano dissanguate oppure uccise dall’infezione.

“Nessuno, assolutamente nessuno si è chiesto: ‘Ne ho diritto o no?’”. La signora Maria si stringe nelle spalle. “Le persone non si domandavano se erano o no delle schiave. Pensavano piuttosto: ‘Domani dove vado a prendere il latte per il bambino?’, oppure: ‘In che negozio possono avere qualcosa in vendita?’. Secondo lei, quando in casa c’erano sei gradi pensavo a come ribellarmi a Ceaușescu o a scaldare il bagno per evitare che mia figlia si beccasse la cistite mentre faceva pipì?”.

Il decreto rimase in vigore per ventitré anni, ma nessuno protestò, nessuno si ribellò.

Secondo le riviste femminili dell’epoca, per esempio Femeia, la decisione sulla messa al bando dell’aborto era stata opportuna sotto tutti i punti di vista, perché l’andazzo delle interruzioni di gravidanza, se fosse stato portato avanti su vasta scala, avrebbe messo in pericolo la sicurezza sociale. Ci sono dei dati statistici: sessant’anni fa la media era di quattro figli a famiglia, ora è meno di due.

L’economia socialista aveva bisogno di braccia per il lavoro, su queste si reggeva il peso del sistema. Nella propaganda comunista la “riproduzione della forza lavoro” era definita come “enorme onore e dovere patriottico”. E la produzione di cittadini doveva portare alla “fioritura della società e alla vittoria del socialismo in Romania”.

“Ci si può chiedere se la remissività dei romeni non sia altro che banale vigliaccheria”, aggiunge la signora Maria. “Tutti però ricordavano bene come si stava sotto il governo di Gheorghiu-Dej negli anni cinquanta, quando la gente spariva in un attimo. Moriva nei campi di lavoro, di fame e di stenti. Quaranta, sessanta, centomila, nessuno sa quanti siano stati. Si viveva con la paura di poter sparire nel nulla da un momento all’altro”.

Anche Nicolae Ceaușescu sapeva come spezzare chi opponeva resistenza: istigando e mettendo gli uni contro gli altri, in modo che la società si controllasse da sola. La polizia politica segreta vedeva e sentiva tutto. Erano state installate microspie su vasta scala e là dove non si era potuti arrivare bastava la gente comune. Le colleghe di fabbrica potevano farsi la spia a vicenda. Il custode di un caseggiato poteva appuntarsi chi faceva visita a chi e che borsa aveva con sé. Un’infermiera poteva denunciare un medico raccontando cosa facesse fuori orario e quanto ci guadagnasse.

“Mia madre mi diceva di tenere sempre la bocca chiusa”, ricorda la signora Oana. “I tuoi patemi non interessano a nessuno, ripeteva. E se interessano a qualcuno è solo per usarli contro di te”.

“Tutti temevano microspie e denunce, tutti”, dice la signora Maria scuotendo la testa. “Quando da me al lavoro cominciavano a dire che in casa faceva freddo, che mancava il latte o la carne, che qualcuno era stato in coda tutta la notte per un cartone di uova, io me ne andavo immediatamente al gabinetto e mi chiudevo a chiave. Cosa sarebbe successo se qualcuno avesse riferito che mi ero lamentata? Avevo appena perso mio marito e avevo paura che, se finivo in carcere, mia figlia sarebbe rimasta sola, senza nessuno che se ne occupasse. Non a caso una volta mi hanno detto: ‘Cerchi di non dare nell’occhio, lei ha solo una figlia, è una bella bambina, sarebbe un peccato che finisse all’orfanotrofio’”.

In base a molti riscontri è dato per acquisito che, nei ventitré anni in cui il decreto è stato in vigore, in Romania sono morte tra le 9.500 e le diecimila donne a seguito di complicazioni per tentativi d’aborto non andati a buon fine. È quello che dicono le statistiche ufficiali, ma molti studiosi occidentali ritengono che si tratti di stime ottimistiche.

Chiara Dattola

Le donne di solito mettevano alla luce il primo e il secondo figlio, e arrivavano a prendere la decisione di abortire solo quando si rendevano conto che non avrebbero avuto modo di dar da mangiare a quello dopo. Per questo quelle che morivano per complicazioni post-aborto lasciavano sempre degli orfani e dei mariti che non sapevano come cavarsela.

Dan, classe 1974, primogenito, racconta: “Un mio caro compagno delle elementari era cresciuto senza madre, non faceva mai cenno a lei. Avevamo ormai circa ventidue anni, ci conoscevamo fin da bambini; una volta ci ubriacammo insieme e mi raccontò che sua madre era morta dissanguata in ospedale perché non aveva voluto fare il nome dell’uomo che le aveva procurato l’aborto. Suo padre era seduto accanto a lei e la implorava di dirlo, perché le sue condizioni erano molto gravi, sarebbe morta e lui non avrebbe saputo come cavarsela con il bambino. Ma lei si rifiutò di farlo. Disse che non voleva vivere in un paese come quello. Il mio compagno me lo raccontò in lacrime”.

Il punto di svolta arrivò solo con il film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu, del 2007, che racconta la storia di una studente incinta e della sua amica che passano attraverso tutti i gironi infernali della Romania comunista nel tentativo di organizzare un aborto clandestino. L’uomo delle “situazioni d’emergenza”, ovvero l’interruzione delle gravidanze in stato avanzato, approfitta della situazione pericolosa per le due ragazze e le violenta entrambe. Il ruolo del sedicente medico è interpretato da Vlad Ivanov, che dopo il successo internazionale del film è diventato uno degli attori romeni più popolari. “Cristian ci teneva che il film fosse visto dal maggior numero di persone possibile, perciò ha organizzato un ‘cinema mobile’ e l’ha portato in giro per paesi e cittadine”, racconta l’attore.

Il male che le donne hanno sperimentato aveva assunto le sembianze di Vlad Ivanov. “Mentre stavamo lavorando sul personaggio, mi venne da pensare che il mio ruolo era quello di un demonio”, aggiunge. “Poi però venne fuori che le donne non vedevano in me l’attore, ma il personaggio del film, l’uomo che praticava gli aborti. Spesso scoppiavano a piangere appena mi vedevano. Evocavo in loro paura e disperazione. Mi ricordo di un fatto accaduto a Tel Aviv. Nella sala era in corso la proiezione, io e Cristian eravamo seduti al caffè del cinema. A un tratto una donna corse fuori dalla sala. Mi guardò, si fermò di botto e scoppiò in singhiozzi. Si venne poi a sapere che era un’ebrea che aveva vissuto in Romania ai tempi di Ceaușescu e aveva attraversato quell’inferno diverse volte. Si sedette con noi e ci raccontò tutto. Conoscevamo bene quella storia, si somigliavano tutte, ma avevamo le lacrime agli occhi. Non dimenticherò mai, fino alla fine dei miei giorni, quando Cristian portò sul set un’ostetrica perché ci mostrasse come si infila nell’utero la sonda per provocare l’aborto. Fumava una sigaretta e ci faceva la dimostrazione come se stesse spiegando come si fa un uovo sodo. Le chiedemmo se non si sentisse mai coinvolta da quello che faceva. Scrollò le spalle: ‘L’ho fatto centinaia di volte, sono stata in carcere, poi l’ho fatto ancora. L’ho fatto su di me dodici, quattordici volte, ho perso il conto’. E continuava a fumare. Eravamo tutti e due sconvolti”.

All’inizio del 1988 Ceaușescu annuncia la nascita del ventitremilionesimo cittadino. “Siamo uomini liberi e padroni del nostro destino”, dice il dittatore arringando il suo popolo. “La nostra patria è meravigliosa e il suo sviluppo economico è di altissimo livello e in pieno processo di modernizzazione”.

Il messaggio al popolo prende quasi l’intero tempo di trasmissione di quel giorno: a causa della crisi galoppante il segnale televisivo è diffuso solo per due ore, dalle 20 alle 22. Il resto del tempo lo schermo è nero.

Negli anni ottanta Ceaușescu decise che il vigore del popolo dovesse servire per pagare il debito, in modo che la Romania diventasse pienamente autosufficiente. I prodotti alimentari e le materie prime erano destinati all’export, lasciando piccole quantità residue al mercato interno.

Giravano per le case apposite commissioni che controllavano che nessuno accendesse più di una lampadina per stanza e della potenza massima di quaranta watt. D’inverno la temperatura nelle case arrivava di rado a dieci gradi. Ufficialmente non potevano essere più di dodici, ma dodici gradi erano considerati già una vera calura. Neanche gli ospedali venivano riscaldati, a eccezione della stanza dedicata ai neonati. Se la mortalità dei bambini appena nati oltrepassava il tetto massimo stabilito per decreto, i medici avevano una detrazione del venti per cento sullo stipendio.

Le statistiche sulla mortalità femminile non interessavano a nessuno. Nel 1989 la mortalità delle madri in Romania era la più alta d’Europa.

“Ratti mezzi assiderati, che vivevano nella semioscurità, in loculi umidi come fogne, questo eravamo”, dice la signora Oana. “E per di più ratti affamati, nutriti di propaganda, senza un briciolo di fede che qualcosa potesse cambiare. Nel 1988 nessuno si sarebbe sognato che un anno dopo Ceaușescu sarebbe stato ammazzato, anche se tutti se l’auguravano: ‘Speriamo che crepi!’”.

Anche nel 1989 nessuno credeva che Ceaușescu potesse togliersi di mezzo. In tutti i paesi del blocco sovietico, uno dopo l’altro, il comunismo veniva rovesciato, invece in Romania nemmeno l’orecchio più sensibile riusciva a sentir traballare il sistema. Finché a dicembre, quando la gente scese per strada, scoppiò la rivoluzione.

“Figuriamoci, la rivoluzione”. La signora Maria agita una mano. “Non la chiami in quel modo. Lo sa il diavolo cos’è stata, né un colpo di stato né un’insurrezione. Si sa che i russi e gli americani ci avevano messo lo zampino, eccola qua la rivoluzione romena”.

Mentre Nicolae ed Elena Ceaușescu erano seduti sulla panca durante quello sbrigativo processo, Elena ripeteva in continuazione: “Figli miei, perché lo fate? Sono vostra madre!”.

La sentenza di morte venne emessa dopo due ore di dibattimento e immediatamente eseguita.

Dan si trovava per le strade di Bucarest in mezzo alla folla di manifestanti quando venne annunciato che Ceaușescu era morto. “Mi misi a saltare per la gioia”, ricorda. “L’avrei potuto uccidere con le mie mani, anche se ora mi vergogno di averlo pensato. Ma l’esecuzione di Ceaușescu di per sé… fu qualcosa di liturgico, un rituale. Accadde il giorno di Natale e subito dopo la sua uccisione cominciò a cadere la neve in tutta la Romania. Uccidendolo avevamo riscattato la libertà. Ricordo cosa pensai allora: ‘Che momento, che giornata, che destino!’. Lo avevamo ammazzato noi, noi uomini della generazione creata da lui. I ragazzini che riempivano le strade, e io in mezzo a loro, tutti eravamo figli suoi, figli del decreto”.

Dopo la morte di Ceaușescu il primo cambiamento a livello legislativo fu la soppressione del divieto d’abortire. Oggi l’interruzione di gravidanza è di nuovo trattata come un metodo anticoncezionale. L’intervento costa tra i venticinque e i cinquanta euro, e può essere eseguito in qualunque ospedale.

Ania, una polacca che abita a Bucarest da vari anni, è rimasta scioccata quando ha cominciato a dire agli amici romeni di essere incinta.

“Tutti chiedevano: ‘E lo vuoi tenere?’, ‘Davvero?’, ‘Ma ci avete pensato bene?’”.

“Ricordo la mia prima visita dal ginecologo a Bucarest”, racconta Cristina, trentenne tedesca. “Volevo la conferma di essere incinta. Il medico mi ha visitato, mi ha detto che ero incinta, e mi ha chiesto se volevo abortire. Non sono più tornata da lui. Quando dovevo andare dal ginecologo prendevo l’aereo e andavo in Germania”.

Nel 2008 in Romania a fronte di 220mila nascite ci sono stati 207mila aborti.

In barba alle speranze del Padre della nazione, nel 2000 non è stata festeggiata la nascita del venticinquemilionesimo romeno. Nel paese vivevano allora oltre ventun milioni e cinquecentomila persone. I dati dell’ultimo censimento hanno stupito tutti: ventitré anni dopo la morte di Ceaușescu ci sono appena diciannove milioni di romeni, il che vuol dire che nel corso di una decade è venuto a mancare il 12 per cento della popolazione.

Cause principali: l’emigrazione e il basso indice delle nascite.

Agli agognati venticinque milioni ne mancano ancora sei. ◆ mv

Margo Rejmer è una giornalista e scrittrice polacca. Questo articolo è un estratto del suo libro Bucarest. Polvere e sangue, appena uscito in Italia per Keller Editore. Il titolo originale è Kołyski i trumny.

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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati