Dal 13 ottobre, quando l’esercito israeliano ha ordinato agli abitanti del nord della Striscia di Gaza di fuggire nella metà meridionale del territorio assediato, migliaia di persone si sono rifugiate nella città di Khan Yunis: nelle scuole, nell’ospedale Nasser, in una tendopoli improvvisata e nel campo profughi preesistente. Ma anche nel sud i bombardamenti israeliani non si sono mai interrotti e, considerato l’estremo sovraffollamento, il rischio di vittime è particolarmente elevato.

Da bambina ho vissuto per otto anni nel campo di Khan Yunis, circondata dai soldati e dai carri armati israeliani. Anche se non li incontravo faccia a faccia, potevo sentire i loro proiettili e l’odore dei loro gas lacrimogeni. Odiavo il suono delle bombe. Non uscivamo spesso perché le forze di occupazione sparavano a caso; una volta hanno ferito al piede un mio cugino di due anni. Eppure le persone nel campo erano accoglienti e amorevoli, e lì ho ancora molti amici. Condividevamo tutto e spesso andavo ai matrimoni con mia nonna.

Con la mia famiglia abbiamo lasciato Khan Yunis nel 2000, all’inizio della seconda intifada, perché i bulldozer israeliani avevano demolito la nostra abitazione. Adoravo quella casa; ci ho trascorso tante belle giornate con mia nonna, che è morta prima della demolizione. Anche se me ne sono andata, il mio cuore è rimasto innamorato della casa e del campo, e ho sempre continuato a tornarci in visita. Mia sorella si è sposata e vive a Khan Yunis dove sono nati i suoi due figli, Adam e Rital. Quando vado a trovare lei e i bambini, mi ricordo della mia infanzia.

“Spero che la guerra finisca, così potrò andare al centro commerciale, al mercato, al ristorante e al parco”, mi ha detto Rital, che ha quattro anni, durante una delle telefonate di famiglia nelle ultime settimane. Ha chiesto a me e a sua madre di pregare perché lei “cresca e trovi un lavoro”. Questo campo è pieno di sogni, ma i miei incubi sulla mia famiglia e su tutti i suoi abitanti sono costanti.

Legami forti

Creato dopo la nakba del 1948 (la catastrofe, quando i palestinesi furono cacciati dalle loro case in seguito alla creazione di Israele), il campo di Khan Yunis ha accolto i profughi palestinesi provenienti per lo più dalle città di Bir al Saba (Beer Sheva) e Jaffa, e dal villaggio di Al Majdal, l’attuale Ashkelon. Chiunque abbia vissuto nel campo racconterà dei forti legami che accomunano i suoi abitanti a causa dell’esperienza condivisa dello sfollamento del 1948. Hanno vissuto la stessa sofferenza e lo stesso dolore, e sono legati da vincoli familiari. I sopravvissuti alla nakba trasmettono le loro storie ai figli e ai nipoti, e tutti partecipano alle attività annuali per commemorare l’esilio.

Prima del 7 ottobre la popolazione del campo era di circa novantamila persone, in gran parte già dipendenti dagli aiuti alimentari e dall’assistenza economica dell’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa). Gli aiuti erano coordinati dalle venticinque strutture dell’Unrwa nel campo, tra cui sedici edifici scolastici e due centri di distribuzione alimentare. Tuttavia, le altre migliaia di palestinesi sfollati che si stanno riversando nel campo in queste settimane fanno crescere ulteriormente la pressione sulle sue risorse già scarse.

Marwa Harb, trent’anni, è arrivata qui con suo marito e quattro bambini in fuga dalla loro casa nel nord della Striscia. “Questo posto è strapieno”, dice. “Ci siamo venuti per paura dei bombardamenti. Mio marito mi ha assicurato che non sarebbe stato colpito, ma non riesco a sentirmi sicura perché a Israele non interessa la vita dei civili”.

E infatti Israele ha preso di mira il campo, colpendo con un pesante bombardamento l’abitazione della famiglia Abu Shamala il 26 ottobre. Secondo quanto riferito, sono morte ventidue persone e più di cento sono state ferite. La casa, completamente rasa al suolo, era distante meno di un metro da decine di altre abitazioni, il che significa che ci sono state vittime in più famiglie.

“Ero seduta a mangiare con i miei figli, quando all’improvviso sono caduti i missili”, ricorda Harb. “C’erano polvere e fumo dappertutto, i bambini gridavano. Non vedevo niente intorno. Mio marito era fuori ed è entrato gridando che i nostri vicini erano stati colpiti. La loro casa era nella strada di fronte a noi. Ci è dispiaciuto molto. Nel campo ci conosciamo tutti e c’è una grande solidarietà”.

Anche Fadi Tanira, 34 anni, ha trovato rifugio nel campo da quando è cominciata la guerra. “Non è vero che il sud della Striscia di Gaza è sicuro per le persone sfollate e i civili, come aveva garantito Israele”, dice. “Noi non ci sentiamo al sicuro da quando è cominciata la guerra. Ci sono decine di migliaia di persone nel campo, tutti vanno al mercato in cerca di pane, acqua e beni di prima necessità. Ma io non riesco a uscire di casa senza temere che la mia famiglia sia bombardata. Non posso credere che Israele stia colpendo un campo affollato come questo. Venerdì scorso sono uscito con i miei figli, volevo comprargli qualcosa. I bambini si annoiano intrappolati dentro casa e hanno paura del suono delle bombe. Al rientro eravamo quasi arrivati alla porta d’ingresso quando una forte esplosione ha colpito la casa accanto alla nostra, che apparteneva alla famiglia Al Satri. Tre persone sono state uccise e decine ferite. Ho sentito mia moglie gridare. Ho cercato di rassicurarla che i bambini stavano bene, ma lei non sentiva, perché la mia voce era coperta dalle urla delle persone accorse a soccorrere i vicini. Sono stati momenti terrificanti”.

Una tenda sulle macerie

Amira Mukhaimer, 55 anni, abitava nel campo già prima della guerra. “Non potrei vivere fuori da qui”, dice. “La mia casa è stata distrutta dai bulldozer israeliani nel 2000, ma non me ne sono andata. Ho piantato una tenda sulle macerie fino a che non è stata costruita un’altra casa. Per me il campo è un luogo vitale dove posso trovare quello che mi serve, i servizi sanitari, i negozi e le scuole per i miei figli. Non serve un’auto per spostarsi, ogni luogo si può raggiungere a piedi”.

E continua: “Gli attacchi di Israele contro il campo non si sono mai fermati da quando ha occupato la nostra terra nel 1948. Abbiamo assistito a sfollamenti e deportazioni. Hanno distrutto le nostre case. Siamo scappati in cerca di un posto sicuro. Dopo aver lasciato Gaza nel 2005, Israele è tornato ogni anno con le guerre e i bombardamenti. Ma noi non vogliamo abbandonare il campo. Non ce ne andremo se non per tornare alla terra da cui siamo stati cacciati”. ◆ fdl

Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.

Ultime notizie
La diplomazia e l’offensiva

◆ L’8 novembre 2023, al termine di una riunione dei ministri degli esteri del G7 a Tokyo, il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha affermato che Israele non dovrebbe “occupare” la Striscia di Gaza alla fine del conflitto con Hamas. Due giorni prima il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva detto che Israele avrebbe assunto “a tempo indeterminato il controllo della sicurezza” nel territorio palestinese. I ministri degli esteri del G7 si sono espressi a favore di “pause tattiche e corridoi umanitari” nella Striscia, per garantire la consegna degli aiuti umanitari e il trasferimento dei civili, ma non hanno chiesto un cessate il fuoco. Questa possibilità è stata esclusa da Netanyahu senza il rilascio dei 240 ostaggi in mano ad Hamas.

◆La sera del 7 novembre il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha affermato che “le truppe israeliane sono ormai presenti nel cuore della città di Gaza”. Secondo le autorità di Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia ha causato 10.569 vittime, tra cui 4.324 bambini (dati dell’8 novembre). L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) ha annunciato che circa seicento persone con passaporto straniero e diciassette feriti sono stati trasferiti il 7 novembre in Egitto attraverso il valico di Rafah, l’unico non controllato da Israele.

◆Il 6 novembre le forze israeliane hanno arrestato l’attivista palestinese Ahed Tamimi, 22 anni, nel villaggio vicino a Ramallah dove vive. È accusata di “incitare alla violenza e ad attività terroristiche”. Dal 7 ottobre Israele ha arrestato in Cisgiordania 1.740 palestinesi e più di 150 sono stati uccisi da soldati o coloni.

◆Continuano le tensioni anche alla frontiera nord di Israele, tra l’esercito e la milizia libanese Hezbollah. Dal 7 ottobre sono morte ottanta persone dal lato libanese e otto da quello israeliano. Nel suo primo discorso, il 3 novembre, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha detto che “tutte le opzioni” sono aperte per un’espansione della guerra con Israele sul fronte libanese. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati