Nelle prime ore del 24 febbraio 2022 l’aviazione russa colpiva obiettivi in tutta l’Ucraina, mentre la fanteria e i blindati di Mosca penetravano nel paese da nord, est e sud. Pochi giorni dopo i russi accerchiavano Kiev. Era l’inizio di un’invasione che sarebbe potuta finire con la sconfitta dell’Ucraina e la sua sottomissione alla Russia. A posteriori, sembra quasi miracoloso che non sia andata così.

Cosa è successo sul campo di battaglia oggi è relativamente noto. Meno noti sono gli intensi sforzi diplomatici che in quel periodo coinvolsero Mosca, Kiev e altri soggetti, e che avrebbero potuto portare a un accordo appena qualche settimana dopo l’inizio della guerra.

Già alla fine del marzo 2022 una serie di riunioni in Turchia e in Bielorussia e alcuni incontri in videoconferenza avevano prodotto il cosiddetto comunicato di Istanbul, che delineava il quadro di una possibile intesa. Poi i negoziatori ucraini e russi cominciarono a lavorare al testo di un trattato, facendo anche passi avanti importanti verso un accordo. Ma a maggio i negoziati si interruppero. Da allora la guerra ha continuato a infuriare ed è costata decine di migliaia di vite umane in entrambi gli schieramenti. Cos’è successo? Quanto erano vicine le due parti a mettere fine al conflitto? E perché non hanno mai concluso un patto?

Per fare luce su questo episodio fondamentale ma spesso trascurato della guerra, abbiamo esaminato le bozze di accordo scambiate tra le due parti, di cui non erano mai stati resi noti diversi dettagli. Abbiamo anche intervistato vari partecipanti alle trattative e funzionari che in quei mesi lavoravano in importanti governi europei, assicurandone l’anonimato per poter discutere argomenti delicati. Abbiamo inoltre riesaminato numerose interviste e dichiarazioni rilasciate all’epoca e in tempi più recenti da funzionari ucraini e russi in servizio al momento delle trattative. In molti casi sono materiali disponibili su YouTube, ma non essendo in inglese sono poco conosciuti in occidente. Infine, abbiamo analizzato la cronologia degli avvenimenti dall’inizio dell’invasione fino alla fine di maggio del 2022, il momento dell’interruzione dei negoziati. Mettendo insieme tutti i tasselli, quello che abbiamo scoperto è sorprendente. E potrebbe avere implicazioni importanti per le future iniziative diplomatiche.

Alcuni osservatori e funzionari (tra cui soprattutto il presidente russo Vladimir Putin) hanno dichiarato che sul tavolo c’era un’intesa che avrebbe messo fine alla guerra, ma che gli ucraini l’hanno respinta per le pressioni dei loro sponsor occidentali e perché convinti della debolezza militare russa. Altri hanno sminuito l’importanza delle trattative, sostenendo che le parti stavano semplicemente cercando di guadagnare tempo per riorganizzare le forze in campo e che le bozze non erano da prendere sul serio.

Queste interpretazioni contengono tutte un nocciolo di verità, ma invece di chiarire le cose le rendono più confuse. In questa storia non c’è una sola verità, non ci sono spiegazioni facili. Per di più, questi giudizi univoci trascurano un fatto che, a posteriori, appare straordinario: nel mezzo dell’aggressione russa all’Ucraina, un fatto senza precedenti, Kiev e Mosca avevano quasi concluso un accordo che avrebbe messo fine alla guerra e dato agli ucraini garanzie di sicurezza multilaterali, aprendo la strada alla sua neutralità permanente e al suo ingresso nell’Unione europea.

Quel patto, però, si dimostrò irraggiungibile per una serie di ragioni. I partner occidentali di Kiev erano restii a farsi trascinare in trattative con la Russia, e in particolare in un negoziato che per loro avrebbe comportato nuovi impegni per garantire la sicurezza dell’Ucraina. Inoltre l’atteggiamento dell’opinione pubblica ucraina si era fatto più intransigente dopo la scoperta delle atrocità commesse dai russi a Irpin e Buča. E quando l’assedio di Kiev era fallito, il presidente Volodymyr Zelenskyj era diventato più ottimista sulla possibilità – con un adeguato sostegno occidentale – di vincere la guerra sul campo. Infine, anche se il tentativo di risolvere le vecchie controversie su come garantire la sicurezza reciproca offriva la prospettiva di una via d’uscita dalla guerra e di una durevole stabilità regionale, le due parti avevano puntato troppo in alto e troppo presto, cercando di arrivare a una soluzione complessiva quando perfino un semplice cessate il fuoco era fuori portata.

Oggi che la possibilità di un negoziato appare lontanissima e le relazioni tra i due paesi sono praticamente inesistenti, la storia delle trattative nella primavera 2022 potrebbe sembrare un diversivo con pochi insegnamenti utili per le circostanze attuali. Ma se due anni fa Putin e Zelenskyj sorpresero tutti con la loro disponibilità a valutare ampie concessioni per mettere fine alla guerra, forse in futuro potrebbero provarci di nuovo.

Assicurazioni o garanzie?

Cosa volevano ottenere i russi con l’invasione dell’Ucraina? Il 24 febbraio 2022 Putin pronunciò un discorso in cui giustificava l’attacco con la necessità di “denazificare” il paese. Secondo l’interpretazione che allora appariva più ragionevole, “denazificare” voleva dire rovesciare il governo di Kiev, possibilmente uccidendo o catturando Zelenskyj. Eppure, appena qualche giorno dopo l’inizio dell’invasione, Mosca cercò di tastare il terreno per raggiungere un compromesso. La guerra che secondo Putin doveva essere una passeggiata, in realtà si stava già rivelando più complessa del previsto, e con il senno di poi quell’iniziale apertura al negoziato fa pensare che il leader russo avesse già abbandonato l’idea di forzare un cambio di regime a Kiev. Zelenskyj, come aveva fatto prima della guerra, si mostrò subito interessato a incontrare personalmente Putin. Il presidente russo rifiutò di parlare direttamente con il collega ucraino, ma nominò una squadra di negoziatori. Il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko svolse il ruolo di mediatore.

I negoziati cominciarono il 28 febbraio in una delle residenze di campagna di Lukašenko vicino al villaggio di Liaskavičy, a meno di cinquanta chilometri dalla frontiera tra Ucraina e Bielorussia. La delegazione ucraina era guidata da Davyd Arachamija, capogruppo del partito di Zelenskyj in parlamento, e comprendeva il ministro della difesa Oleksij Reznikov, il consigliere del presidente Mychajlo Podoljak e altri alti funzionari. La delegazione russa era guidata da Vladimir Medinskij, un consigliere di Putin che in precedenza era stato ministro della cultura, e comprendeva anche i viceministri della difesa e degli esteri. Nella prima riunione i russi presentarono condizioni molto dure, chiedendo di fatto la capitolazione dell’Ucraina.

Era chiaramente una richiesta inaccettabile. Ma con il costante deterioramento della situazione sul campo per i russi, le posizioni di Mosca si fecero meno rigide. Così il 3 e il 7 marzo le parti tennero una seconda e una terza tornata di negoziati, questa volta a Kamjanjuki, sempre in Bielorussia, vicino alla frontiera con la Polonia. La delegazione ucraina presentò le sue richieste: un cessate il fuoco immediato e la creazione di corridoi umanitari per consentire ai civili di lasciare la zona di guerra. A quanto pare fu durante la terza tornata di colloqui che i russi e gli ucraini esaminarono per la prima volta delle bozze di accordo.

Stando al capo della delegazione russa Medinskij, si trattava di documenti che il suo gruppo aveva portato da Mosca e che probabilmente confermavano l’interesse russo per la neutralità dell’Ucraina.

Dopo il memorandum

A quel punto gli incontri si interruppero per quasi tre settimane, anche se le delegazioni continuarono a riunirsi su Zoom. In quegli scambi, gli ucraini cominciarono a insistere sulla questione che sarebbe diventata centrale nel loro piano per la fine del conflitto: le garanzie di sicurezza che avrebbero obbligato alcuni stati terzi a intervenire in sua difesa in caso di un nuovo attacco russo. Non è chiaro quando Kiev sollevò per la prima volta questo punto nei colloqui con i russi o con i paesi occidentali. Ma il 10 marzo il ministro della difesa ucraino Dmytro Kuleba, che si trovava ad Antalya, in Turchia, per un incontro con il suo collega russo Sergej Lavrov, parlò di una “soluzione definitiva e sostenibile” per l’Ucraina, aggiungendo che Kiev era “pronta a discutere” un piano di garanzie offerte dagli stati della Nato e dalla Russia.

Kuleba sembrava avere in mente un sistema di garanzie multilaterali della sicurezza, un’intesa con cui le potenze rivali s’impegnano per la sicurezza di uno stato terzo, di solito a condizione che non si schieri con nessuno dei garanti. Questo tipo di accordi era in larga misura caduto in disgrazia dopo la guerra fredda. Mentre alleanze come la Nato intendono mantenere una difesa collettiva contro un nemico comune, le garanzie multilaterali della sicurezza servono a prevenire i conflitti tra i garanti sullo schieramento del paese garantito e, per estensione, ad assicurare la sicurezza di quel paese.

L’Ucraina era già stata penalizzata da una versione meno rigorosa di questo tipo di accordo: un’assicurazione multilaterale della sicurezza, cosa diversa da una garanzia. Nel 1994 Kiev aveva firmato il cosiddetto memorandum di Budapest, aderendo così al Trattato di non proliferazione nucleare come paese senza armi nucleari e accettando di rinunciare a quello che all’epoca era il terzo arsenale atomico più grande del mondo. In cambio, la Russia, il Regno Unito e gli Stati Uniti avevano promesso che non avrebbero attaccato Kiev. Tuttavia, contrariamente a un’idea allora diffusa ma sbagliata, in caso di aggressione l’accordo imponeva ai firmatari solo di convocare una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, non di intervenire in difesa del paese aggredito.

Nella prima riunione i russi presentarono condizioni molto dure, chiedendo la capitolazione ucraina. Una richiesta inaccettabile

L’invasione su larga scala lanciata dalla Russia nel febbraio 2022, e il fatto che l’Ucraina stesse combattendo da sola una guerra per la sua sopravvivenza, spinsero Kiev a cercare un modo per mettere fine all’aggressione e allo stesso tempo per assicurarsi che una situazione simile non si ripetesse. Il 14 marzo, mentre le due delegazioni si incontravano online, Zelenskyj postò un messaggio sul suo canale Telegram chiedendo “garanzie di sicurezza normali, efficaci” e “diverse da quelle del memorandum di Budapest”. Due giorni dopo, parlando con alcuni giornalisti ucraini, il suo consigliere Podoljak spiegò che Kiev cercava “garanzie di sicurezza assoluta” che avrebbero impegnato i “firmatari a non voltarsi dall’altra parte nel caso di un attacco all’Ucraina, come avviene oggi, ma a partecipare attivamente alla difesa del paese”.

La richiesta dell’Ucraina di non essere nuovamente lasciata a combattere da sola è perfettamente comprensibile. Per la sua sicurezza futura, Kiev voleva (e vuole ancora oggi) disporre di un meccanismo più affidabile della buona volontà della Russia. Ma ottenere una garanzia simile sarebbe stato difficile. Naftali Bennett all’epoca dei negoziati era primo ministro di Israele e mediò attivamente tra le due parti. In un’intervista rilasciata al giornalista Hanoch Daum e pubblicata online nel febbraio 2023, Bennett raccontava di aver provato a convincere Zelenskyj a non restare bloccato sulla questione delle garanzie di sicurezza. “C’è quella storiella del tizio che cerca di vendere il ponte di Brooklyn a un passante”, spiegava Bennett. “Ho detto a Zelenskyj: ‘Gli Stati Uniti vi daranno garanzie? Si prenderanno davvero l’impegno di mandare dei soldati se, tra molti anni, la Russia violerà qualche accordo? Volodymyr, sai che non succederà’”.

Per essere più chiari: se gli Stati Uniti e i loro alleati non erano disposti a fornire all’Ucraina queste garanzie (nella forma di un’adesione alla Nato, per esempio) prima della guerra, perché avrebbero dovuto farlo dopo che la Russia aveva attaccato l’Ucraina? I negoziatori ucraini misero a punto una risposta a questa domanda, ma alla fine non convinsero i loro colleghi occidentali, piuttosto restii a prendere nuovi rischi. La posizione di Kiev era la seguente: come previsto dal nuovo sistema di garanzie, anche la Russia sarebbe stata un garante, quindi avrebbe dovuto in sostanza accettare il fatto che gli altri garanti sarebbero stati costretti a intervenire se avesse attaccato di nuovo. In altri termini, se Mosca accettava che qualunque futura aggressione all’Ucraina avrebbe comportato una guerra tra la Russia e gli Stati Uniti, avrebbe evitato di attaccare di nuovo l’Ucraina, perché era come se si trattasse di un paese della Nato.

La svolta vicina

Per l’intero mese di marzo i combattimenti infuriarono su vari fronti. Il tentativo russo di conquistare Černihiv, Charkiv e Sumy si risolse in un fallimento, anche se tutte e tre le città ebbero danni molto gravi. A metà marzo, l’esercito russo aveva esaurito la sua pressione su Kiev e aveva subìto gravi perdite. Le due delegazioni continuavano i colloqui in videoconferenza, ma tornarono a incontrarsi il 29 marzo, questa volta a Istanbul, in Turchia.

E qui una svolta sembrò possibile. Dopo la riunione, le parti annunciarono di aver concordato un comunicato congiunto. Le linee generali del documento furono illustrate nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa dalle due parti. Ma noi abbiamo ottenuto una copia del testo integrale della bozza del comunicato, intitolata “Disposizioni cruciali del trattato sulle garanzie di sicurezza dell’Ucraina”. Secondo i partecipanti che abbiamo intervistato, erano stati gli ucraini a scrivere gran parte della bozza, e i russi avevano provvisoriamente accettato l’idea di usarla come quadro generale di un trattato.

Kramatorsk, Ucraina, 4 marzo 2023. Il monumento allo scrittore russo Maksim Gorkij (Jerome Sessini, Magnum/Contrasto)

Il comunicato prevedeva un accordo che avrebbe proclamato l’Ucraina “stato permanente neutrale e non nucleare”. Kiev avrebbe rinunciato a qualunque intenzione di aderire ad alleanze militari o di ospitare basi militari o truppe straniere sul suo territorio. Il comunicato elencava come possibili garanti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Russia compresa) insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia. Il documento prevedeva anche che se l’Ucraina fosse stata attaccata e avesse chiesto assistenza, tutti gli stati garanti sarebbero stati tenuti, dopo essersi consultati con Kiev e tra di loro, a fornire assistenza al paese per ripristinarne la sicurezza. Va sottolineato che questi obblighi erano definiti con molta maggiore precisione rispetto a quanto stabilito dall’articolo 5 della Nato: erano esplicitamente previsti l’imposizione di una no-fly zone, la fornitura di armi o l’intervento militare diretto degli stati garanti.

Anche se in base al quadro proposto l’Ucraina doveva rimanere permanentemente neutrale, la strada per l’adesione all’Unione europea sarebbe rimasta aperta, e gli stati garanti (Russia compresa) avrebbero esplicitamente “confermato la loro intenzione di favorire l’ingresso di Kiev nell’Unione”. Sembrava inaudito: nel 2013 Putin aveva fatto intense pressioni sul presidente ucraino Viktor Janukovič perché respingesse un semplice accordo di associazione con l’Unione europea. Ora la Russia accettava di “favorire” la piena adesione dell’Ucraina.

L’interesse di Kiev verso queste garanzie di sicurezza era evidente, ma non era chiaro perché la Russia dovesse accettarle. Appena qualche settimana prima Putin aveva tentato di conquistare la capitale ucraina, cacciarne il governo e imporre un regime fantoccio. Sembra inverosimile che improvvisamente avesse deciso di accettare che l’Ucraina – più ostile che mai alla Russia, a causa delle azioni dello stesso Putin – fosse ora libera di diventare un paese dell’Unione europea e di avere gli Stati Uniti come garanti della sua indipendenza e sicurezza. Eppure, il comunicato suggeriva che questo era esattamente ciò che il Cremlino era disposto ad accettare.

Possiamo solo ipotizzare perché. All’inizio di marzo era già chiaro che la guerra lampo di Putin era fallita. Forse ora Mosca si sarebbe accontentata di vedere accolta la sua richiesta più importante: che l’Ucraina rinunciasse alla sua aspirazione a entrare nella Nato e non ospitasse mai forze dell’alleanza atlantica sul suo territorio. Se Putin non poteva controllare tutto il paese, in questo modo avrebbe potuto almeno tutelare gli interessi fondamentali della sicurezza russa, fermare la crisi economica e ripristinare la sua reputazione internazionale.

I funerali di un soldato ucraino morto in guerra. Vilnohirsk, Ucraina, 21 marzo 2024 (Nicole Tung, The New York Times/Contrasto)

Il comunicato conteneva anche un’altra disposizione che, a posteriori, sembra stupefacente: esortava le due parti a cercare di risolvere pacificamente la disputa sulla Crimea in un arco di dieci, quindici anni. Dall’annessione della penisola, nel 2014, Mosca non aveva mai accettato di discuterne lo status, sostenendo che si trattava di una regione russa come le altre. Offrendosi di farlo ora, il Cremlino ammetteva tacitamente che non era così.

Nelle dichiarazioni rilasciate il 29 marzo, subito dopo la conclusione dei colloqui, il capo della delegazione russa Medinskij, appariva decisamente ottimista: spiegava che le discussioni sulla neutralità dell’Ucraina stavano entrando nel vivo e che – nonostante le difficoltà legate al fatto che il trattato aveva molti potenziali garanti – era possibile che Putin e Zelenskyj lo firmassero durante un vertice in un futuro non troppo lontano.

Il giorno dopo Medinskij disse ai giornalisti: “Ieri, la parte ucraina per la prima volta ha messo in forma scritta la sua disponibilità ad attuare una serie di importanti condizioni per la costruzione di futuri rapporti normali e di buon vicinato con la Russia”. E ancora: “Ci hanno consegnato i princìpi di una potenziale risoluzione futura, messi per iscritto”.

Combattere e parlare

Nel frattempo, la Russia aveva abbandonato gli sforzi per conquistare Kiev e stava ritirando le sue forze dall’intero fronte settentrionale. Aleksandr Fomin, viceministro della difesa russo, aveva annunciato la decisione a Istanbul il 29 marzo, definendola uno sforzo “per costruire la fiducia reciproca”. In realtà l’arretramento era una ritirata forzata: i russi avevano sopravvalutato le loro capacità e sottovalutato la resistenza ucraina e ora spacciavano il fallimento per una generosa apertura diplomatica.

Il ritiro ebbe conseguenze di grande portata. Rafforzò la determinazione di Zelenskyj, eliminando una minaccia immediata al suo governo, e dimostrò che la tanto temuta macchina militare del Cremlino poteva essere respinta, se non sconfitta, sul campo di battaglia. Rese anche possibile la consegna all’Ucraina di aiuti militari occidentali consistenti, grazie alla liberazione delle linee di comunicazione che portavano a Kiev. Infine, la ritirata gettò le basi per la raccapricciante scoperta delle atrocità commesse dalle forze russe in due sobborghi di Kiev, Buča e Irpin, dove i soldati di Putin avevano stuprato, torturato e massacrato i civili.

Le notizie da Buča arrivarono sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo all’inizio dell’aprile 2022. Il 4 aprile Zelenskyj visitò la cittadina. Il giorno dopo parlò in video al Consiglio di sicurezza dell’Onu, accusando la Russia di aver commesso crimini di guerra a Buča e paragonando le forze russe al gruppo terroristico dello Stato islamico. Zelenskyj chiese al Consiglio di sicurezza di espellere la Russia, suo membro permanente.

Tuttavia, abbastanza sorprendentemente, le due parti continuarono a lavorare senza pausa a un trattato che Putin e Zelenskyj avrebbero dovuto firmare in un vertice da organizzare in tempi brevi.

Si scambiavano bozze di documenti e, a quanto sembra, stavano anche cominciando a condividerle con altre parti (nella sua intervista del febbraio 2023, Bennett riferiva di aver visto 17 o 18 bozze; anche Lukašenko disse di averne vista almeno una). Noi abbiamo analizzato attentamente due di queste bozze, quella del 12 e quella del 15 aprile. Stando a quanto ci hanno detto alcuni partecipanti ai colloqui, la bozza del 15 fu l’ultima che le parti si scambiarono. I documenti sono molto simili, ma contengono differenze importanti. Entrambe dimostrano che alcune questioni cruciali non erano state risolte.

In primo luogo, mentre il comunicato e la bozza del 12 aprile affermavano che gli stati garanti avrebbero deciso autonomamente se intervenire in aiuto di Kiev nel caso di un attacco all’Ucraina, nella bozza del 15 aprile i russi cercavano di stravolgere questo punto cruciale insistendo sul fatto che queste azioni potevano avvenire solo “sulla base di una decisione concordata da tutti gli stati garanti”, compresa la Russia: in questo modo si dava all’ipotetico invasore una sorta di diritto di veto. Secondo un’annotazione al testo, gli ucraini respinsero quell’emendamento insistendo sulla formula originale, in base alla quale i garanti avevano l’obbligo individuale di agire senza dover prima raggiungere il consenso assoluto.

In secondo luogo, le bozze contenevano vari articoli aggiunti al trattato su insistenza dei russi, ma che non facevano parte del comunicato e riguardavano argomenti che l’Ucraina si rifiutava di discutere. Questi articoli prevedevano che l’Ucraina mettesse al bando “fascismo, nazismo, neonazismo e nazionalismo aggressivo” e, di conseguenza, abrogasse (in tutto o in parte) sei leggi che affrontavano, in linee generali, alcuni aspetti controversi della storia dell’epoca sovietica, in particolare il ruolo dei nazionalisti ucraini durante la seconda guerra mondiale. Comprensibilmente l’Ucraina non voleva permettere alla Russia di decidere quali dovessero essere le sue politiche sulla memoria storica, soprattutto nel contesto di un trattato sulle garanzie di sicurezza. E i russi sapevano bene che queste disposizioni avrebbero reso più difficile per gli ucraini accettare il resto del documento. Si potrebbero considerare, quindi, delle pillole avvelenate.

Ma è anche possibile che le disposizioni servissero a salvare la faccia a Putin. Costringendo l’Ucraina a cancellare le norme che condannavano il passato sovietico e presentavano come combattenti per la libertà i nazionalisti schierati contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il Cremlino poteva infatti sostenere di aver raggiunto l’obiettivo della “denazificazione”, anche se il significato originale di quella frase riguardava soprattutto la rimozione del governo Zelenskyj.

Due settimane

Detto questo, non è chiaro se quelle disposizioni avrebbero potuto far saltare l’accordo. In seguito Davyd Arachamija, del partito di Zelenskyj, ha sminuito la loro importanza. Come ha spiegato in un’intervista del novembre 2023 a una tv ucraina, la Russia aveva “sperato fino all’ultimo di poterci spingere a firmare quell’accordo, aveva creduto che avremmo accettato la neutralità. Era quella per loro la cosa principale. Erano pronti a concludere la guerra se noi, come aveva fatto la Finlandia ai tempi della guerra fredda, avessimo adottato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla Nato”.

Anche le dimensioni e la struttura delle forze armate ucraine furono oggetto di un’intensa trattativa. Alla data del 15 aprile le due parti erano ancora molto distanti sull’argomento. Gli ucraini volevano un esercito di pace di 250mila effettivi, i russi insistevano su un massimo di 85mila, molti meno dei soldati dell’esercito permanente di cui l’Ucraina disponeva prima dell’invasione del 2022. Gli ucraini volevano 800 carri armati, i russi ne accettavano al massimo 342. Sui missili le differenze erano ancora maggiori: Kiev chiedeva una gittata massima di 280 chilometri, Mosca ne accettava appena quaranta.

I colloqui, inoltre, avevano deliberatamente evitato la questione delle frontiere e del territorio. Evidentemente di tali questioni avrebbero parlato direttamente Putin e Zelenskyj nel vertice che sarebbe stato organizzato di lì a poco. È facile immaginare che Putin avrebbe insistito per tenersi tutto il territorio già occupato dalle sue forze. Il problema era se Zelenskyj potesse essere convinto ad accettare.

La cattedrale della Trasfigurazione, bombardata dai russi nel luglio 2023. Odessa, 3 novembre 2023 (Brendan Hoffman, The New York Times/Contrasto)

Malgrado queste sostanziali divergenze, la bozza del 15 aprile suggeriva che il trattato sarebbe stato firmato entro due settimane. La data poteva slittare, ma sembrava chiaro che le due squadre prevedevano di muoversi in fretta. “A metà aprile del 2022 eravamo vicinissimi a mettere fine alla guerra”, ha riferito uno dei negoziatori ucraini, Oleksandr Čalyj, in un’apparizione pubblica del dicembre 2023. “Una settimana dopo aver dato il via all’aggressione, Putin aveva capito di aver commesso un errore enorme e cercava di fare il possibile per raggiungere un accordo con l’Ucraina”.

La prudenza occidentale

E allora perché i negoziati s’interruppero? Putin ha sostenuto che le potenze occidentali intervennero per affondare l’intesa, perché erano più interessate a indebolire la Russia che a mettere fine alla guerra. Ha dichiarato che Boris Johnson, all’epoca primo ministro del Regno Unito, aveva detto agli ucraini, a nome del “mondo anglosassone”, che dovevano “combattere fino alla vittoria per infliggere alla Russia una sconfitta strategica”.

La risposta occidentale ai negoziati, per quanto lontanissima dalla caricatura che ne ha fatto Putin, fu certamente tiepida. Washington e i suoi alleati erano scettici sulle prospettive della via diplomatica che si era aperta a Istanbul, anche perché il comunicato prodotto non affrontava la questione cruciale dei territori occupati e delle frontiere e le parti rimanevano molto distanti su altre questioni importanti. I paesi occidentali non credevano che le trattative potessero avere successo.

Inoltre, un ex funzionario statunitense che all’epoca lavorava sull’Ucraina ci ha detto che Kiev si era consultata con Washington solo quando il comunicato era già stato emesso, anche se il trattato in questione prevedeva impegni vincolanti per gli Stati Uniti, tra cui l’obbligo di entrare in guerra con la Russia se questa avesse nuovamente invaso l’Ucraina. Per Washington già solo questa disposizione era sufficiente a bocciare il negoziato in partenza. Così, invece di sostenere il comunicato di Istanbul e il successivo processo diplomatico, l’occidente aumentò gli aiuti militari a Kiev e intensificò la pressione sulla Russia, anche con un regime di sanzioni sempre più duro.

Fu il Regno Unito a prendere l’iniziativa. Già il 30 marzo Johnson sembrava poco propenso alla diplomazia, sostenendo invece la necessità di “continuare a intensificare le sanzioni con un programma graduale fino a quando ogni singolo soldato di Putin avrà lasciato l’Ucraina”. Il 9 aprile Johnson fu il primo leader occidentale a visitare Kiev dopo il ritiro delle forze russe dalla capitale. In quell’occasione Johnson avrebbe detto a Zelenskyj: “Qualunque accordo con Putin oggi sarebbe indecente”. “Per Putin”, ha più tardi ricordato di aver detto, “qualunque accordo sarebbe una vittoria: se gli dai qualcosa, lui la prende e la incassa per poi prepararsi al prossimo attacco”. Con la sua intervista televisiva del novembre 2023 Arachamija ha sollevato un certo scalpore perché sembrava quasi attribuire a Johnson la responsabilità dell’esito dei negoziati. “Quando siamo tornati da Istanbul”, ha detto Arachamija, “Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo firmato assolutamente niente con i russi, e dovevamo semplicemente continuare a combattere”.

La tesi che l’occidente abbia costretto Kiev a ritirarsi dai negoziati è infondata. Fa pensare che gli ucraini non abbiano avuto voce in capitolo

Da allora Putin ha usato più volte le parole di Arachamija per imputare all’occidente il fallimento dei negoziati e per dimostrare la subordinazione dell’Ucraina ai suoi sostenitori. Quella di Putin è propaganda e manipolazione. Tuttavia Arachamija ha messo in luce un problema reale: il comunicato delineava un quadro multilaterale che richiedeva la volontà occidentale di impegnarsi al livello diplomatico con la Russia e di mettere a punto un vero sistema di garanzie di sicurezza per l’Ucraina. In quel momento nessuna delle due cose era una priorità per gli Stati Uniti e per i suoi alleati.

Nelle dichiarazioni pubbliche gli statunitensi non hanno mai avuto lo stesso atteggiamento sprezzante verso i negoziati mostrato da Johnson. Ma non hanno mai considerato le trattative diplomatiche un elemento centrale nella loro risposta all’invasione russa. Il segretario di stato Antony Blinken e il segretario alla difesa Lloyd Austin visitarono Kiev due settimane dopo Johnson, soprattutto per coordinare il sostegno militare. Come disse Blinken nella conferenza stampa successiva, “la strategia che abbiamo posto in essere – grande sostegno all’Ucraina, pressioni sulla Russia, solidarietà con i trenta paesi impegnati in questi sforzi – sta dando risultati concreti”.

Tuttavia, la tesi che l’occidente abbia costretto l’Ucraina a ritirarsi dai negoziati è infondata. Fa pensare che Kiev non abbia avuto nessuna voce in capitolo. Certo, il sostegno militare dell’occidente può aver rafforzato la determinazione di Zelenskyj a resistere, mentre la mancanza di entusiasmo può aver spinto il presidente ucraino ad accantonare la via della diplomazia. Ma, in ultima analisi, nelle sue discussioni con i leader occidentali Zelenskyj non ha mai dato la priorità agli sforzi diplomatici con la Russia per mettere fine alla guerra. Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno mai avuto l’impressione che chiedesse nettamente d’impegnarsi sulla strada della diplomazia. Considerata l’ondata di solidarietà pubblica in occidente, all’epoca una simile richiesta avrebbe probabilmente influenzato la politica di Stati Uniti ed Europa.

In quel periodo, inoltre, Zelenskyj era furibondo anche per le atrocità commesse dai russi a Buča e Irpin, e probabilmente capiva che quello che cominciava a definire il “genocidio compiuto dai russi” avrebbe reso politicamente ancora più complicato ogni rapporto con Mosca.

Eppure, dietro le quinte il lavoro sulla bozza del trattato proseguì e s’intensificò addirittura nei giorni e nelle settimane successive alla scoperta dei crimini russi, il che fa pensare che le atrocità di Buča e Irpin fossero un fattore secondario nel processo decisionale di Kiev.

Ultime notizie

◆ In Ucraina continuano i bombardamenti russi e s’intensifica la pressione sulla linea del fronte. Il 5 maggio, giorno della Pasqua ortodossa, nelle regioni di Charkiv, Donetsk e Cherson sono morte tre persone, mentre nella zona di Sumy i droni russi hanno distrutto alcune infrastrutture civili. Le forze di Mosca hanno anche conquistato il villaggio di Očeretyne e stanno per lanciare l’offensiva finale su Časiv Jar. Da parte sua, Mosca ha accusato Kiev di aver bombardato la città di Belgorod, vicino al confine ucraino, uccidendo sei persone. Per quanto riguarda invece la diplomazia, in un’intervista alla tv bosniaca Atv, riferendosi al vertice di pace del 15 e 16 giugno in Svizzera, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha detto che l’Ucraina e i suoi alleati occidentali “non sono pronti per un negoziato serio”. Il 6 maggio, inoltre, il ministero della difesa russo ha reso noto che il presidente Vladimir Putin ha ordinato una serie di esercitazioni militari in cui saranno adottate “misure per addestrare i soldati nella preparazione e nell’uso di armi nucleari non strategiche”. Il giorno prima il Financial Times aveva rivelato che i servizi segreti europei hanno avvertito i loro governi di possibili atti violenti di sabotaggio organizzati dalla Russia nel territorio dell’Unione europea. Reuters, Kyiv Independent


Un ruolo chiave fu anche quello della rinnovata fiducia ucraina nella possibilità di vincere la guerra sul campo. La ritirata russa da Kiev e da altre grandi città dell’Ucraina nordorientale e la prospettiva di ricevere più armi dall’occidente (con le strade per Kiev tornate sotto il controllo ucraino) cambiarono gli equilibri militari. E spesso l’ottimismo sul campo rende i belligeranti meno interessati a raggiungere un compromesso al tavolo dei negoziati.

Così, alla fine di aprile, l’Ucraina aveva assunto una posizione più rigida, esigendo il ritiro della Russia dal Donbass come condizione per qualunque trattativa. Come disse il 2 maggio Oleksij Danilov, segretario del consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale di Kiev, “un trattato con la Russia è impossibile: solo la loro capitolazione è accettabile”.

E poi c’è il lato russo della storia, che è difficile da valutare. L’intero negoziato non è stato altro che una farsa ben orchestrata o Mosca era davvero interessata a una soluzione pacifica della crisi? Putin ha davvero avuto un ripensamento quando ha capito che l’occidente non avrebbe firmato gli accordi e che la posizione ucraina si era irrigidita?

Per il futuro

Anche se Russia e Ucraina avessero superato le loro divergenze, il quadro che avevano negoziato a Istanbul avrebbe dovuto essere accettato dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Le potenze occidentali sarebbero state tenute a correre rischi politici notevoli impegnandosi in negoziati con Kiev e Mosca, e avrebbero dovuto mettere in gioco la loro credibilità garantendo la sicurezza dell’Ucraina. In quella fase, e nei due anni seguenti, né gli Stati Uniti né i paesi europei si sono mostrati pronti ad affidarsi ad accordi diplomatici rischiosi con Mosca o a dare concrete garanzie di difesa all’Ucraina. Un ultimo motivo del fallimento delle trattative è che in un certo senso i negoziatori misero il carro davanti ai buoi: cioè la sicurezza del dopoguerra davanti alla fine della guerra. Le parti evitarono di affrontare i temi essenziali per la gestione del conflitto (corridoi umanitari, cessate il fuoco, ritiro delle truppe) e cercarono invece di partorire una specie di trattato di pace a lungo termine per risolvere le dispute sulla sicurezza che erano state fonte di tensioni per decenni. Era uno sforzo lodevole e ambizioso, forse troppo.

Per essere onesti, Russia, Ucraina e occidente avevano provato anche con il metodo opposto. E anche in quel caso avevano fallito. Gli accordi di Minsk firmati nel 2014 e 2015, dopo l’annessione della Crimea e l’invasione russa del Donbass, affrontavano dei dettagli come la data e l’ora della cessazione delle ostilità e quali sistemi d’arma dovessero essere ritirati a quale distanza. Ma trattavano solo indirettamente i fondamentali interessi di sicurezza delle due parti. La storia suggerisce che un futuro negoziato dovrebbe procedere in modo parallelo, con gli aspetti pratici della fine del conflitto su un binario e le questioni più ampie sull’altro.

L’11 aprile 2024 il leader bielorusso Lukašenko, tra i primi mediatori dei negoziati russo-ucraini, ha chiesto un ritorno alla bozza di trattato della primavera 2022. “È una posizione ragionevole”, ha detto al Cremlino. “Ed era anche accettabile per l’Ucraina”. Putin gli ha fatto eco: “Certo, l’avevano accettato”. In realtà i russi e gli ucraini non erano mai arrivati a un accordo su un testo definitivo. Tuttavia erano avanzati più di quanto avessimo capito finora, raggiungendo un quadro complessivo per un possibile accordo.

Dopo due anni di massacri tutto questo potrebbe essere acqua passata. Ma ci ricorda che a un certo punto Putin e Zelenskyj sono stati disposti a valutare compromessi straordinari per mettere fine alla guerra. Perciò, se e quando Kiev e Mosca torneranno al tavolo dei negoziati, potrebbero trovarlo ingombro di idee ancora utili per costruire una pace durevole. ◆ gc

Samuel Charap è un politologo statunitense del centro studi Rand corporation, di Santa Monica, in California. Sergey Radchenko è uno storico britannico di origine russa; è professore alla scuola di studi internazionali avanzati dellaJohns Hopkins university.

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Questo articolo è uscito sul numero 1562 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati