Da Turchia a Türkiye, da Repubblica Ceca a Cechia, da Fyrom a Macedonia del Nord e potenzialmente da India a Bharat: oggi tra gli stati sembra esserci una tendenza a cambiare nome, o almeno a valutare la possibilità di farlo.

Anche se non è un fenomeno nuovo, il numero di paesi che discutono di potenziali modifiche appare in crescita. Alcuni esperti sostengono che in casi come quelli di Turchia e India si può parlare di implicazioni nazionalistiche, mentre per altri paesi può trattarsi semplicemente di una questione pratica o di una presa di distanza dal passato coloniale.

Costi politici e finanziari

Quando l’esploratore olandese Abel Tasman avvistò per la prima volta le coste occidentali della Nuova Zelanda, nel 1642, non circumnavigò l’intero paese e lo chiamò Staten Landt, pensando che potesse essere collegato a un territorio del Sudamerica con lo stesso nome. In seguito un cartografo olandese attribuì il nome Nova Zeelandia – l’equivalente latino dell’olandese Nieuw Zeeland – alla terra scoperta da Tasman.

Per molti, quindi, il nome Nuova Zelanda è un retaggio coloniale e, per prenderne le distanze, negli ultimi anni i neozelandesi usano sempre più spesso il termine Aotearoa, l’originario nome maori. Una petizione ha anche sollecitato la creazione di una commissione parlamentare perché valuti la possibilità di cambiare il nome.

Altri paesi hanno un approccio più risoluto. L’India ha sfoggiato Bharat – il nome indù del paese – su menu e targhette in occasione del vertice del G20 di New Delhi, nel settembre 2023, cogliendo di sorpresa molti partecipanti. Sono subito circolate voci su un imminente cambio del nome. Una mossa che si accorderebbe bene con il nazionalismo indù del primo ministro Narendra Modi e contribuirebbe ad allontanare l’India dal suo passato coloniale. Ma molti obiettano che rafforzare le radici indù significa anche escludere altre comunità. Eppure, Bharat è già un nome riconosciuto dalla costituzione indiana e una denominazione frequente del paese.

Le implicazioni nazionalistiche sono state decisive anche quando la Turchia, nel 2023, ha chiesto alle Nazioni Unite di estendere all’inglese la sua denominazione in lingua turca, Türkiye. Se la ragione principale della decisione poteva suonare piuttosto bizzarra – evitare l’associazione del termine inglese con l’uccello dallo stesso nome, turkey, tacchino – molti hanno parlato di una mossa per distrarre l’attenzione dai pessimi risultati economici e democratici del presidente Recep Tayyp Erdoğan prima delle elezioni. Una mossa in sintonia con il carattere nazionalistico del leader turco.

E sebbene non fosse in discussione il nome del paese, anche le pressioni ucraine perché il mondo chiamasse la sua capitale Kyiv e non Kiev, come in russo, sono state una manifestazione di nazionalismo che focalizzava l’attenzione sull’invasione russa dell’Ucraina e sulla volontà di prendere le distanze dal suo passato sovietico.

Altri cambiamenti avvenuti negli ultimi anni sono più difficili da decifrare. Si prenda la Cechia, per esempio. Nel 2016 il parlamento di Praga ha riconosciuto ufficialmente la versione più breve del nome, ma il mondo è stato lento a recepire il cambiamento, anche perché lo stesso primo ministro ceco non lo apprezzava. Il dibattito aveva raggiunto le ambasciate, creando un piccolo caos tra chi era contrario e chi favorevole. Negli ultimi tempi, però, il nuovo nome ha guadagnato terreno ed è usato con più frequenza in tutto il mondo.

Nel 2018, nel tentativo di entrare nella Nato e rappacificarsi con la Grecia, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, nota anche come Fyrom, ha accettato di cambiare il suo nome in Macedonia del Nord, in modo che Atene potesse finalmente rivendicare il proprio retaggio macedone (Macedonia è anche il nome di una regione greca).

Nel prossimo futuro anche altri paesi potrebbero valutare la possibilità di fare altrettanto. Il Sudafrica, che ha un passato profondamente coloniale, sta ribattezzando alcune importanti località, in modo che i nomi possano offrire una migliore rappresentazione del suo patrimonio culturale. Ma i politici devono prima capire quali potrebbero essere i vantaggi.

Se non tutti i cambiamenti di nome hanno implicazioni nazionalistiche, tutti hanno però connotazioni politiche. Oggi che molti paesi – con o senza leader nazionalisti – stanno rileggendo la loro storia, il passato coloniale o altre eredità, cresce il numero di quelli interessati a valutare un cambio di nome: una decisione che richiama l’attenzione e sembra avere pochi costi politici.

Ma se il prezzo politico può apparire basso, i costi finanziari sono notevoli: pensate a tutta la burocrazia necessaria, alla segnaletica da rifare e alla potenziale campagna di marketing per informare la gente. Si calcola, per esempio, che l’Eswatini abbia speso sei milioni di dollari per abbandonare la denominazione coloniale di Swaziland, una cifra non irrilevante per un paese con un pil pro capite di quattromila dollari.

Il dibattito sul passaggio da India a Bharat per il momento sembra fermo, ma non è escluso che torni alla ribalta dopo le prossime elezioni. Modi potrebbe essere attirato da questa forma di protagonismo, ma prima serve una riforma costituzionale con una maggioranza di due terzi in entrambe le camere del parlamento. Il nome, quindi, è più facile a dirsi che a cambiarsi. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati