C’è stata un’epoca in cui gli esseri umani avevano l’abitudine di giudicare gli animali per i loro presunti crimini. Il primo processo di questo tipo sembra essere quello intentato contro le talpe in Valle d’Aosta nell’824, e le azioni legali sono continuate fino al ventesimo secolo. A Falaise, in Francia, un maiale assassino fu vestito con abiti umani e impiccato. A Marsiglia i delfini furono processati per crimini non precisati. A Basilea un gallo, certamente vittima di uno scambio d’identità, fu accusato di stregoneria e arso vivo per aver deposto un uovo.

Nella sua indagine del 1906 The criminal prosecution and capital punishment of animals (pubblicato in italiano con il titolo Animali al rogo), E.P. Evans non trova prove del fatto che questi processi avessero uno scopo comico o che non fossero condotti con la massima serietà. Ma è ovvio che le cose potevano prendere una piega bizzarra. Nel 1522 “alcuni ratti della diocesi” di Autun, in Francia, furono incriminati per aver divorato e distrutto il raccolto di orzo. Il compito di difendere i roditori in tribunale toccò all’esperto di legge Barthélemy de Chasseneuz.

Il processo di Autun è ricordato per i colpi di scena. Quando i suoi clienti non si presentarono alla prima udienza, de Chasseneuz sottolineò che nella convocazione si parlava solo di “alcuni ratti”. Ma di quali esattamente? Il tribunale allora convocò tutti i ratti di Autun. Quando i ratti disertarono nuovamente l’udienza, il loro tenace avvocato aveva già pronta una nuova linea di difesa. I suoi clienti, spiegò, erano sparsi per il territorio, e per raggiungere il tribunale avevano bisogno di più tempo. L’udienza fu nuovamente posticipata, ma ancora una volta i ratti non si presentarono. Per forza, disse de Chasseneuz. Per arrivare in tribunale i suoi clienti avrebbero dovuto affrontare la sete di vendetta degli abitanti del villaggio e soprattutto la furia dei loro implacabili gatti, quindi avevano bisogno di un salvacondotto. La richiesta dell’avvocato mise a dura prova la pazienza di quelli che rappresentavano gli abitanti del villaggio. Dato che non fu possibile trovare un accordo per fissare una quarta data per l’udienza, il tribunale assolse gli accusati. I ratti avevano vinto.

Assurdo? Certamente. Ma c’è un insegnamento che possiamo trarre da questa storia: se guardassimo il mondo dalla prospettiva di un ratto, i risultati potrebbero sorprenderci. Passate circa sedici generazioni umane (e molte più di ratti), sento di dover raccogliere il testimone di de Chasseneuz, per due ragioni.

La prima è che le accuse contro i ratti sono diventate sempre più gravi. Oggi sono considerati sporchi e infidi vettori di malattie mortali come la peste e l’hantavirus. Saccheggiano le nostre scorte alimentari, rosicchiano i cavi elettrici, invadono le nostre case e danneggiano le infrastrutture scavando le tane. Nessuno sa quanto denaro costino ogni anno, ma il totale è probabilmente nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari.

Le due specie di ratti più diffuse e famigerate sono il ratto comune (Rattus rattus) e il ratto bruno (Rattus norvegicus). Il primo viene dall’India, mentre il secondo si è diffuso partendo dalla Cina e dalla Mongolia. A bordo delle nostre navi, soprattutto nell’epoca del colonialismo europeo, le due specie si sono trasformate in un bizzarro tipo di mammifero marino, che ha raggiunto porti lontani nascosto sottocoperta. Oggi i ratti abitano tutti i continenti a eccezione dell’Antartide.

Sono voraci distruttori della fauna selvatica, soprattutto nelle isole: hanno raggiunto l’80 per cento degli arcipelaghi del pianeta, dalle isole Fær Øer nell’Atlantico settentrionale agli isolotti subantartici. Sono responsabili per quasi un terzo delle estinzioni di uccelli, mammiferi e rettili. Questo li rende gli animali invasivi peggiori del pianeta, seguiti dai gatti e dalle manguste. Paradossalmente, in molti luoghi le manguste sono state introdotte nella speranza che sterminassero i ratti.

Nel medioevo in Gran Bretagna non c’erano abbastanza ratti per diffondere la peste

Naturalmente i ratti sono conosciuti meglio perché vivono accanto a noi nelle città, nei paesi e nelle fattorie. La scienza definisce il rapporto tra loro e gli umani con l’espressione “commensale”, un’associazione tra due specie in cui una ottiene benefici mentre l’altra non risulta né favorita né danneggiata. L’etichetta è piuttosto strana, se consideriamo che molte persone si sentono minacciate dalla sola esistenza dei ratti. Quando i roditori corrono e graffiano le pareti durante la notte, minano la nostra salute mentale. Molti provano un disagio fisico alla semplice vista dei loro occhi sporgenti e della loro coda glabra. Come ha dichiarato un’esperto al New York Times, tendiamo a inserirli “in una categoria speciale di cose che non dovrebbero esistere”.

La risposta alla “minaccia” dei ratti è stata la giustizia sommaria. Spesso per descrivere i rapporti degli umani con questi animali si parla di “guerra”, ma come quelle contro la droga e il terrorismo, anche questa si è rivelata “eterna” e impossibile da vincere.

È una guerra brutale. Infliggiamo ai ratti sofferenze che molti riterrebbero ripugnanti e che probabilmente sarebbero illegali nel caso di qualunque altro animale capace di provare dolore. Cerchiamo di catturarli usando trappole che spesso non li uccidono e li lasciano mutilati. Li attiriamo in secchi d’acqua dove nuotano finché non ce la fanno più e annegano. Li intrappoliamo con strisce di colla dove si strappano la pelle e si fratturano le ossa nel tentativo disperato di liberarsi, arrivando a staccarsi gli arti a morsi. Alcune trappole con la colla uccidono i ratti soffocandoli lentamente. Usiamo veleni che provocano la morte dopo giorni di strazianti emorragie interne. I video in cui le persone aizzano i cani e i visoni contro i ratti registrano milioni di visualizzazioni. In un mondo in guerra contro i ratti, difendere il nemico può sembrare vano. Eppure il secondo motivo per provare a prendere le loro parti è che ci sono nuovi elementi a loro favore. Ricerche più approfondite ne danno un’immagine molto meno negativa, e potrebbero perfino convincere una giuria. Cominciamo rispolverando il caso che ha segnato il peccato originale dei ratti: la peste nera.

Una storia senza protagonista

Negli anni cinquanta, quando era ancora un adolescente, il norvegese Lars Walløe lesse che nel 1654 la peste aveva colpito la sua città natale, Oslo. L’orribile malattia era emersa in estate, e pochi mesi dopo gli abitanti avevano dovuto costruire un nuovo cimitero. Christiania (com’era chiamata allora Oslo) aveva perso quasi il 40 per cento della sua popolazione.

Anni dopo, Walløe diventò uno scienziato. Uno dei suoi interessi era la demografia. All’inizio degli anni ottanta analizzò il declino demografico osservato in Norvegia e in gran parte d’Europa durante il medioevo. Voleva svelare il mistero delle cause di quel fenomeno e del perché fosse durato secoli, e sospettava che il colpevole fosse il batterio della peste, lo Yersinia pestis.

Tra il 1347 e il 1352 la “peste nera” aveva ucciso quasi un terzo degli europei. Ma in pochi sanno che altri focolai di peste meno estesi, come quello che colpì la Norvegia, continuarono a fare vittime fino all’inizio del settecento. Walløe sapeva che tutti avevano avuto la stessa causa: i ratti contraevano la peste e morivano in gran numero. A quel punto le loro pulci infette, che normalmente non mordevano le persone, prendevano di mira gli umani. Questo meccanismo era stato accertato nel 1898 nell’attuale Pakistan, quando lo scienziato francese Paul-Louis Simond aveva dimostrato che erano i ratti a portare la peste.

Ma Walløe scoprì che la tesi tradizionale sulla peste era stata messa in discussione. Nel 1970 un batteriologo britannico in pensione, J.F.D. Shrewsbury, aveva sostenuto che erano state altre malattie, e non la peste, a provocare il flagello medievale e altre epidemie simili in Gran Bretagna. Il motivo, secondo Shrewsbury, era semplice: all’epoca non c’erano abbastanza ratti per diffondere la malattia. Lo storico di Cambridge Christopher Morris aveva poi smentito Shrewsbury sulla malattia coinvolta, dimostrando che era davvero la peste. Ma era più difficile negare che in Gran Bretagna ci fossero pochi ratti.

I ratti bruni erano sicuramente innocenti, perché arrivarono in Europa alla fine del medioevo e non raggiunsero le isole britanniche prima dell’inizio del settecento. I ratti comuni erano arrivati secoli prima, ma secondo molti resoconti vivevano soprattutto in piccole colonie intorno ai porti, non solo in Gran Bretagna ma anche nel resto d’Europa.

Nei paesi più caldi dell’Asia i ratti sono stati evidentemente colpiti da epidemie di peste. Documenti indiani e cinesi descrivono ratti che uscivano dalle tane perdendo sangue e morivano. Un poeta cinese che scriveva nel 1792 collegò i ratti malati all’epidemia: “Pochi giorni dopo i ratti, gli esseri umani muoiono come muri che crollano”.

Shrewsbury credeva che i ratti e la peste fossero legati indissolubilmente. Perfino il suo più grande critico, Morris, ammetteva che la peste bubbonica (che colpisce i linfonodi) richiedeva la presenza di ratti infetti. Ma nessuno in Gran Bretagna aveva mai riferito di ratti che cadevano morti dalle travi dei tetti o si trascinavano per le strade. Nemmeno il cronista londinese Samuel Pepys ha mai accennato a fenomeni simili durante le epidemie. Gli archeologi hanno trovato raramente ossa di ratti nei siti risalenti a quell’epoca. Shrewsbury si sbagliava sul batterio che aveva causato le epidemie di peste in Gran Bretagna, ma a quanto pare aveva ragione quando sosteneva che i ratti non erano i responsabili della sua diffusione. Ma allora chi era il colpevole?

Walløe ampliò le sue ricerche. Trovò degli studi risalenti agli anni quaranta in cui due medici francesi avevano dimostrato che la peste poteva trasmettersi da un umano all’altro attraverso parassiti come i pidocchi e la Pulex irritans (la pulce umana), entrambi molto più comuni in passato che oggi. Inoltre scoprì che nel 1960 uno studioso dell’Organizzazione mondiale della sanità aveva confermato che le pulci avevano avuto un ruolo importante nella trasmissione delle peste in aree in cui i ratti erano poco diffusi o assenti. Perfino Simond, lo scopritore del legame tra i ratti e la peste in Asia, aveva scritto che “il meccanismo della propagazione della peste comprende il trasporto del microbo dai ratti all’uomo e la trasmissione da ratto a ratto, da umano a umano, da ratto a umano e da umano a ratto attraverso i parassiti”.

Nel 1982 Walløe pubblicò i risultati della sua ricerca in una rivista scientifica norvegese, dando origine a quella che oggi è conosciuta come “ipotesi dell’ectoparassita umano” sulla diffusione della peste. L’idea è che la malattia non fu diffusa in Europa dalle pulci dei ratti, ma dai parassiti umani che approfittarono della nostra scarsa igiene e della nostra tendenza a relegare i poveri in abitazioni malsane. La ricerca di Walløe ebbe un riconoscimento tardivo, e nel 1995 fu tradotta in inglese, raggiungendo un pubblico scientifico più ampio e provocando molte polemiche.

Un ratto bruno (Rattus norvegicus) (Arterra/Universal Images Group/Getty)

In seguito altre prove hanno sostenuto l’ipotesi dell’ectoparassita umano. Nel 2018 la biologa norvegese Katharine
Dean ha pubblicato una ricerca sulle epidemie di peste in nove città europee su cui erano disponibili registri storici accurati. I casi presi in esame variavano nello spazio (da Stoccolma a Malta) e nel tempo (dal 1348 al 1813). In sette delle nove città, la diffusione della malattia lasciava presumere una trasmissione attraverso le pulci e i pidocchi degli umani, mentre negli altri due casi le epidemie erano troppo limitate per individuarne le cause.

Nel frattempo uno studio genetico aveva dimostrato che la peste era esistita in Europa per 1.200 anni senza la presenza dei ratti. Le ricerche storiche indicano che le pandemie di peste durante la piccola era glaciale (dal 1300 al 1850) e durante l’inverno non sono compatibili con una popolazione consistente di ratti o delle loro pulci, perché entrambe le specie soffrono i climi freddi. Per non parlare dei focolai di “peste senza ratti” nell’Islanda medievale.

La teoria della peste alimentata dai ratti nell’Europa medievale oggi soffre di quella che uno studio pubblicato su The Lancet nel 2021 ha definito “l’assenza del suo protagonista”.

Altri studi recenti hanno ricostruito la cronologia delle epidemie di peste in Europa, senza trovare una corrispondenza con le popolazioni di ratti. Al contrario, i focolai sembrano in sincronia con le irruzioni dovute a cause climatiche di un altro roditore portatore del batterio, forse il grande gerbillo (Rhombomys opimus), particolarmente diffuso lungo la via della seta tra l’Asia e il Mediterraneo. Nel caso della peste in Europa, ovvero l’evento che ha sancito per sempre la fama dei ratti come nemico pubblico, gli animali furono forse quasi del tutto innocenti.

Genocidio interspecie

Alcuni potrebbero dire che anche se assolviamo i ratti per la peste nera non possiamo negare che siano una specie dannosa. È storicamente accertato che i ratti siano stati i pazienti zero di terribili epidemie di peste in aree più calde del pianeta, che hanno ucciso milioni di persone nel corso dei secoli. Anche ignorando del tutto la peste, che l’igiene e la medicina hanno reso rara e curabile, i ratti sono comunque portatori di decine di malattie trasmissibili agli esseri umani.

“Sono come spugne”, spiega la patologa canadese Chelsea Himsworth. “Attraversano ambienti di ogni tipo, entrano in contatto con microbi provenienti dagli umani, dagli animali domestici, dalle fogne e dalla spazzatura, e possono trasportare questi patogeni e trasmetterli nuovamente agli umani o ad altri animali”.

I ratti riconoscono le sofferenze degli altri esemplari e cercano di alleviarle

Himsworth ha cominciato a studiare i ratti più di dieci anni fa, quando gli scienziati si concentravano sui rischi di malattie provenienti dalla fauna selvatica in ambienti come le foreste pluviali e le praterie, e trovava poche ricerche contemporanee sull’argomento. “Mi sembrava strano”, ricorda. “Se una persona entra in contatto con un animale selvatico, ci sono molte probabilità che sia un ratto”. Nel 2011 Himsworth ha fondato il Vancouver rat project, un gruppo di ricerca che punta a comprendere meglio il reale rischio rappresentato dai ratti nella città canadese. È arrivato a una conclusione sorprendente sull’idea che ogni ratto sia un superdiffusore di malattie: “È semplicemente inesatta dal punto di vista scientifico”.

Per capire quali siano le dinamiche della diffusione di una malattia è indispensabile confutare il mito secondo cui i ratti sarebbero un esercito di invasori, una visione alimentata spesso da libri e film (un esempio recente è contenuto nella serie Stranger things). In realtà i ratti non amano spostarsi. Il Vancouver rat project ha scoperto che i ratti bruni non escono quasi mai dal loro isolato. Di solito non attraversano la strada, e alcune ricerche indicano che preferiscono stare da una parte o dall’altra di un vicolo.

Secondo Himsworth questo significa che in un isolato potrebbe non esserci nessun ratto malato, mentre in quello accanto potrebbero essere tutti infetti. In una ricerca simile condotta a Vienna e pubblicata nel 2022, gli studiosi hanno catturato per due anni quelli che popolavano un tratto molto frequentato del lungofiume, una piazza e un porto turistico. Poi hanno rilevato l’eventuale presenza di otto malattie, tra cui epatite, influenza e sindromi da coronavirus e hantavirus. Nessuno dei ratti ne era portatore.

Le percezioni errate sui ratti sono comuni. Sono aggressivi, giusto? Bobby Corrigan, grande esperto newyorchese di roditori e disinfestazione, dice di non essere mai stato attaccato da un ratto, anche se è stato spesso a strettissimo contatto con loro. Ma i ratti sono sporchi, giusto? In realtà una scienziata che si occupa del benessere degli animali da laboratorio mi ha raccontato che quando aveva provato a usare l’inchiostro “permanente” per segnare le code, gli animali le ripulivano immediatamente. Ancora più sorprendente è quanto poco si sappia sulla frequenza della trasmissione delle malattie dai ratti agli umani. “Non ne abbiamo idea”, ammette Himsworth. “Qualsiasi ratto è potenzialmente portatore di una malattia, ma solitamente il rischio di contagio è basso”. Soprattutto nei paesi ricchi, dove la maggior parte delle persone vive in abitazioni solide e pulite, e ha i mezzi per reagire adeguatamente a un’infestazione di ratti.

Chi invece vive in alloggi inadeguati, soffre di disturbi mentali che hanno ripercussioni sull’igiene e ha un proprietario che rifiuta di intervenire in caso d’infestazione è decisamente più a rischio.

Inoltre se la nostra preoccupazione principale è la possibilità di contrarre le malattie di cui i ratti sono vettori, allora le strategie che adottiamo potrebbero essere controproducenti. Ucciderli con le trappole può alterare le loro strutture sociali, creando il caos e spingendo i ratti a combattere per il dominio, un comportamento che favorisce la diffusione di malattie. Uno studio condotto a Chicago ha rilevato che avvelenarli ha un effetto simile. I moderni topicidi uccidono da cinque a dieci giorni dopo l’assunzione, e i ratti avvelenati hanno il triplo di probabilità degli altri di trasmettere malattie, probabilmente perché il veleno indebolisce il sistema immunitario. “Il genocidio interspecie non funziona e non ha mai funzionato”, dice Himsworth. “Continuare su questa strada è assurdo”.

Ma il ratto non è solo una specie come un’altra. È un animale che potremmo imparare a considerare un degno compagno della società umana.

Gridolini di gioia

I ratti possono conquistarci. Possono imparare a giocare a nascondino con gli umani, senza nessun’altra ricompensa a parte il divertimento. E possono ridere.

Non sono dicerie, ma fatti scientificamente dimostrati. I ricercatori del Bernstein center for computational neuroscience di Berlino hanno scoperto che i ratti possono imparare con sorprendente rapidità sia a nascondersi sia a cercare un umano. Per assicurarsi che la motivazione fosse il gioco e non l’interesse, gli animali non ricevevano cibo in premio, ma erano coccolati con la punta delle dita, una cosa che secondo studi precedenti piace ai ratti.

In ogni caso era evidente che i ratti fossero coinvolti dal gioco. Quando dovevano cercare gli umani, perlustravano metodicamente lo spazio e si lanciavano verso la loro preda appena la individuavano. Quando i ruoli si invertivano, alcuni tornavano a nascondersi subito dopo essere stati scoperti, per prolungare il brivido della caccia. Facevano “salti di gioia”, ed emettevano il tipo di squittii ultrasonici che è stato collegato a quelli che gli scienziati chiamano “stati affettivi positivi”. “Si può dire che siano risate, anche se non somigliano a risate umane”, spiega l’etologa Sylvie Cloutier. “Sono più simili a gridolini di gioia”. Dopo l’esperimento, gli scienziati hanno ucciso i ratti che avevano giocato con loro per studiarne il cervello.

Paradossalmente, gran parte di ciò che sappiamo sulle emozioni e sull’intelletto dei ratti dipende dal fatto che li usiamo negli esperimenti. Negli anni quaranta dell’ottocento, in Europa, si diffuse l’allevamento di ratti bruni per i laboratori. I ratti, dunque, sono stati i primi animali a essere addomesticati principalmente per ragioni scientifiche. La produzione su scala industriale è cominciata nel 1906 all’istituto Wistar di Filadelfia, negli Stati Uniti. Ancora oggi quasi la metà dei ratti da laboratorio discende da quella colonia. Sono soprattutto albini, più adatti agli esperimenti per via della loro uniformità genetica e del loro carattere placido.

Milton Greenman e Louise Duhring, ricercatori dell’istituto, volevano creare ratti da laboratorio “felici e allegri”. Gli animali erano “trattati con estrema gentilezza” e seguivano una dieta che comprendeva pasta, verza, salsicce e perfino cioccolata calda se sembravano un po’ giù. I roditori trascorrevano molto tempo esposti alla luce del sole e all’aria aperta. “La maggior parte dei ratti albini”, notavano Greenman e Duhring, “è sensibile agli effetti della musica, soprattutto le note alte del violino”.

I ratti possono risolvere rompicapi complicati (Falcon Scallagrim, Getty)

Le gabbie avevano diversi comfort. C’era materiale in cui i ratti potevano scavare e una ruota simile a quelle per i criceti, ma grande come quelle delle biciclette. I ratti potevano percorrerci l’equivalente di otto chilometri in un giorno.

Un secolo più tardi, la vita dei ratti da laboratorio è delimitata dalla cosiddetta “scatola da scarpe”, una gabbia troppo piccola perché possano scavare, arrampicarsi o perfino stare in piedi. Niente più cioccolata calda: solo mangime standardizzato. Si stima che negli Stati Uniti ogni anno si usino in laboratorio tre milioni di ratti, 1,2 milioni dei quali in esperimenti che provocano dolore o sofferenza.

Nel corso degli anni i test hanno rivelato la possibilità che i ratti, e quindi anche altri animali, possano avere qualità precedentemente ritenute esclusive degli esseri umani. Nel 1959 lo psicologo statunitense Russell Church scoprì che i ratti imparavano a smettere di spingere una leva che gli permetteva di avere una ricompensa in mangime ma allo stesso tempo dava una scarica elettrica a un altro in una gabbia vicina. Fu il primo studio a suggerire che questi animali possono riconoscere le sofferenze di un esemplare della loro specie e cercare di alleviarle.

Da allora è in corso un dibattito sulla reale solidarietà tra i ratti (e altri animali) e sulle azioni che suggeriscono la presenza di empatia. Prendiamo uno studio recente: il ratto A è al sicuro, mentre il ratto B soffre perché si trova in un ambiente separato in cui è costretto a stare in piedi in una pozza d’acqua. Il ratto A libererà il ratto B da quello spazio anche se non ne riceverà alcun beneficio. È difficile immaginare che il ratto A sia spinto da qualcosa che non sia la capacità di mettersi nei panni del ratto B.

Gli scienziati convinti che gli animali posseggano qualità umane come l’empatia sono spesso accusati di antropomorfismo, cioè la tendenza ad attribuire caratteristiche umane a ciò che non lo è. Nel 2021 due ricercatori dell’università del South Carolina hanno analizzato diversi studi sull’empatia nei ratti, concludendo che il rifiuto di riconoscere le caratteristiche empatiche dei roditori era una forma di “antropo-negazionismo”. Il termine è stato coniato nel 1997 dal primatologo olandese Frans de Waal in riferimento all’ostinata tendenza a ignorare le caratteristiche umane negli animali nonostante l’esistenza di prove evidenti.

Altri esperimenti in laboratorio hanno mostrato che i ratti possono risolvere rompicapo complessi, riconoscere rapporti di causa-effetto, provare rimorso, prendere decisioni basandosi sulle proprie percezioni e comprendere il tempo, lo spazio e i numeri. In alcuni video pubblicati su internet si vedono ratti addomesticati che fanno gare di agilità e sollevano piccole bandiere tirando cordicelle con le zampe. Altri “leggono” cartelli che li invitano a saltare in una scatola o a fare giravolte. In alcuni casi sembra che diano prova di metacognizione, cioè siano consapevoli di pensare.

Un’idea che sembra assurda a volte è una verità che dobbiamo ancora accettare

I ratti hanno anche diverse personalità. Molti ricercatori ricordano il carattere e l’atteggiamento di alcuni esemplari. Lazarus, per esempio, era il ratto preferito di Kaylee Byers, che ha catturato e liberato circa 700 ratti per il Vancouver rat project. Come suggerisce il nome, Byers pensava che Lazarus fosse morto quando lo aveva trovato immobile in una delle sue trappole. Invece era stranamente rilassato. In seguito Lazarus è tornato più volte con il preciso intento di farsi catturare. Mangiava l’esca fatta di burro d’arachidi e cereali, poi aspettava di essere liberato, apparentemente consapevole che Byers non gli avrebbe fatto del male.

A questo punto vi sarà sicuramente venuto in mente un altro animale, un mammifero che trattiamo con enorme affetto e antropomorfizziamo senza esitazione. Joanna Makowska, una scienziata che studia il benessere degli animali, ricorda cosa consigliava un veterinario alle persone che volevano adottare un cane di taglia molto piccola: “Prendetevi un ratto”. Se i ratti non sono responsabili della peste nera, se in molti posti non presentano un grosso rischio di contagio e negli altri il pericolo è dovuto soprattutto all’incapacità della società di prendersi cura dei più deboli, se non sono sporchi né aggressivi, se non sono l’ombra delle nostre caratteristiche peggiori ma anzi possono riflettere quelle migliori, e se non possiamo vincere la nostra crudele guerra contro di loro, allora resta una domanda ovvia. Cosa dovremmo fare con loro?

Cambiare messaggio

La risposta sorprendente, che ricorda l’argomentazione di Barthélemy de Chasseneuz, potrebbe essere questa: comunicare con loro.

“Se non vogliamo ratti intorno a noi, dovremmo fare più attenzione ai segnali che gli mandiamo, che suonano come: ‘Guardate, c’è un mucchio di cibo di cui non c’importa nulla, e di solito lo mettiamo fuori a quest’ora’”, dice la studiosa di scienze ambientali Becca Franks. Secondo lei l’unica soluzione duratura sono “banali questioni infrastrutturali”. Progettare gli edifici per non fare entrare i ratti. Mettere l’immondizia in contenitori a prova di ratto. Approvare norme che diano agli inquilini il diritto di vivere in case senza ratti e punire i proprietari che non le rispettano. Se queste sfide sembrano proibitive, la storia può essere d’esempio.

Un tempo i ratti infestavano letteralmente le navi, tormentando l’equipaggio con i loro rumori e arrivando a leccare o mordere le mani e i piedi dei marinai mentre dormivano, scrive l’antropologo Jules Skotnes-Brown. A volte i marinai ricambiavano il favore mangiandoli.

Negli anni venti si cominciò seriamente a cercare di liberare le navi dai ratti. Secondo Skotnes-Brown per riuscirci fu necessario pensare come un ratto: bloccare i loro percorsi, conservare il cibo in contenitori ermetici e chiudere i buchi e le nicchie usate come tane. In un caso la popolazione di ratti di una nave passò da 1.770 a zero. Grazie a una combinazione di norme e incentivi economici, le navi a prova di ratto diventarono comuni a metà degli anni trenta, e l’uso di veleni per disinfestarle diminuì rapidamente. Oggi i ratti fanno ancora parte della vita in mare, ma molto meno che in passato.

Stiamo imparando di nuovo a coesistere con altre specie selvatiche che erano considerate nocive o pericolose, come i lupi, gli orsi, i coyote e i castori. Stiamo anche scoprendo che, come dice Aldo Leopold, “la gestione della fauna selvatica è relativamente facile, il difficile è gestire gli umani”. Gli orsi possono essere ottimi vicini, se non si abituano a mangiare spazzatura da cestini facili da aprire. I lupi possono vivere tra noi senza che ce ne accorgiamo, ma non se gli diamo da mangiare per farci un selfie con loro. I ratti possono essere i nostri compagni silenziosi, ma non se buttiamo tanti di quegli avanzi che alcuni di loro arrivano a preferire il cinese all’italiano o viceversa.

Ma Franks riesce a immaginare forme di comunicazione che vanno al di là delle infrastrutture e delle campagne contro i rifiuti. Ricorda di essere andata a trovare una ricercatrice che teneva i suoi ratti da laboratorio in una stanza piccolissima. La studiosa aveva chiuso la porta, poi aveva aperto la grande gabbia dei ratti, ed era cominciata una scena che sembrava uscita dal film Ratatouille. I roditori, una quindicina in tutto, si erano precipitati su un tavolo e si erano riversati sul pavimento scendendo lungo le gambe. Alcuni si erano arrampicati sul manico di una scopa, finché il primo si era lasciato andare ed erano scivolati tutti giocosamente giù.

La ricercatrice aveva usato un microfono per pipistrelli per ascoltare le loro voci ultrasoniche. Potevano sentirli “cinguettare, ridere, squittire e divertirsi un sacco”, dice Franks.

All’improvviso si era ricordata che doveva andare a una riunione, e che si trovava in una stanza piena di ratti liberi. Non poteva aprire la porta e andarsene, perché sarebbero sicuramente scappati. Ma ci sarebbe voluto troppo per acchiapparli tutti e rimetterli in gabbia. Lo aveva detto all’altra ricercatrice e questa aveva aperto la porta della gabbia. I ratti erano risaliti lungo le gambe del tavolo ed erano tornati nella loro prigione, dove avevano continuato a giocare e azzuffarsi. Franks era arrivata in tempo all’incontro.

È un esempio del fatto che costruire rapporti e canali di comunicazione con i ratti può aiutarci ad arrivare a delle intese con loro. “I ratti possono essere piuttosto aperti a interessi umani che non sono neanche in linea con i loro”, dice Franks. Anche questo è stato provato in laboratorio, dove i ratti sono stati addestrati a partecipare a procedure che certamente non gradiscono, come la nutrizione enterale.

Franks ammette che stiamo entrando in un territorio inesplorato. Che significa creare rapporti sociali con i ratti selvatici? Assoldare dei disinfestatori che li solleticano invece di ucciderli? Tracciare linee invalicabili dove è più importante – nelle case, negli uffici e nei ristoranti – e accettarli per la strada o nei parchi, come nel caso dei piccioni e di altri animali commensali?

Un’idea che sembra assurda a volte è una verità che dobbiamo ancora accettare. Anni dopo che de Chasseneuz ebbe rappresentato i ratti al tribunale di Autun, uno dei più strani processi contro degli animali di cui si abbia conoscenza suggerì come l’avvocato avrebbe potuto difendere i suoi assistiti se il procedimento fosse andato avanti.

La causa fu intentata nel 1587 contro i coleotteri della specie Rhynchites auratus a Saint-Julien-en-Genevois, in Francia. Come i ratti di Autun, gli imputati erano accusati di aver distrutto i raccolti, stavolta delle vigne locali. E anche stavolta furono nominati dei difensori. L’accusa citava i passaggi della Bibbia che assegnano agli esseri umani il predominio su “ogni creatura che striscia sulla terra”, quindi anche su quegli insetti. La difesa invece sosteneva che i coleotteri facevano parte della creazione divina, e che Dio aveva reso la terra fruttuosa “non solo per il sostentamento degli esseri umani razionali”.

Il processo durò più di otto mesi, e a un certo punto gli abitanti esasperati si offrirono di creare una riserva dove gli insetti avrebbero potuto nutrirsi senza danneggiare le vigne. Ma per gli avvocati dei coleotteri non era abbastanza. Rifiutarono l’offerta e chiesero che il caso fosse chiuso e che l’accusa pagasse le spese legali degli imputati. Nessuno sa come andò a finire, perché l’ultima pagina del registro del tribunale è danneggiata. Sembra che sia stata rosicchiata dai ratti o da qualche insetto.

Assurdo? Senza dubbio. Ma nel processare i coleotteri sia la difesa sia l’accusa si erano trovate d’accordo su un punto che oggi ci sfugge: le creature hanno diritto a esistere secondo la loro natura, anche se è nella loro natura creare problemi agli esseri umani.◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati