È circa l’una del pomeriggio e siamo i primi visitatori del sito archeologico di Stobi, il più importante della Macedonia del Nord. Si trova tra i fiumi Crna e Vardar, sulla storica rotta commerciale che ha collegato per secoli le aree del Danubio con i paesi mediterranei. I resti della città antica si possono raggiungere con l’autostrada che collega Skopje con il confine greco e che fino al 2018 si chiamava Alessandro Magno, come praticamente qualsiasi struttura strategica del paese. Quell’anno, alla presenza del primo ministro macedone dell’epoca, Zoran Zaev, dei ministri dei trasporti macedone e greco e del commissario europeo all’allargamento, è stata ribattezzata Autostrada dell’amicizia, a dimostrazione dei nuovi cordiali rapporti di vicinato tra Atene e Skopje. Poco dopo, il socialdemocratico Zaev ha firmato con il collega greco di allora Alexis Tsipras l’accordo di Prespa, che ha messo fine alla disputa con Atene sul nome del paese nato nel 1991 dalla dissoluzione della Jugoslavia. L’intesa sul nuovo nome, Macedonia del Nord, ha fatto cadere il veto greco, che bloccava i negoziati per l’ingresso di Skopje nell’Unione europea. E ha innescato anche altre modifiche costituzionali, tra cui la concessione dello status di lingua ufficiale all’albanese, parlato dalla più consistente minoranza del paese. In questo modo Zaev ha preso le distanze dalla politica di “antichizzazione” del suo predecessore Nikola Gruevski, del partito nazionalista Vmro-Dpmne. Gruevski, nel frattempo condannato a due anni di carcere per corruzione, è scappato in Ungheria, dove ha trovato asilo, e la sua bizzarra ideologia – la cui tesi principale è che i macedoni non sono slavi ma discendenti degli antichi greci – è finita nella pattumiera della storia. Tuttavia la sua politica di revisionismo storico ha lasciato diverse tracce concrete nel paese.

La Macedonia si è conquistata il rango di nazione ai tempi della Jugoslavia, di cui era una delle sei repubbliche federali. Eppure, nella narrazione che ha dominato durante il periodo della cosiddetta antichizzazione, quel capitolo storico è ricordato come un intermezzo traumatico nella millenaria lotta dei figli di Alessandro Magno per la costruzione di uno stato indipendente. Il coronamento di questo processo è stato il progetto Skopje 2014, che puntava a modificare la capitale per darle un aspetto classicista. Sono state costruite decine di edifici, ponti e monumenti. Per un certo periodo – racconta il politologo Artan Sadiku – era normale vedere i giovani che festeggiavano la laurea vestiti con la toga degli antichi greci. Per il progetto sono stati spesi centinaia di milioni di euro. E oggi gli edifici modernisti costruiti dopo il terremoto del 1963 marciscono dietro le facciate classiciste che gli sono state incollate addosso.

A distanza di qualche anno, chi oggi visita Skopje per la prima volta ha l’impressione che per gli abitanti della città non sia un problema né il fatto che il centro sia carico di kitsch nazionalista né che quel kitsch un giorno, forse presto, non ci sarà più. Qui la gente è abituata ai progetti edilizi megalomani, a demolire il vecchio per costruire il nuovo. E poi la natura multiculturale della città le permetterà di assorbire un’altra identità ancora, fosse anche posticcia. In questo i macedoni sono incorreggibilmente balcanici: qui non si sa dove finisca l’antichità, dove cominci Bisanzio e cosa ne sia stato degli ottomani. E non è chiaro nemmeno chi, nel vecchio bazar, sia il mercante albanese e chi quello rom, chi la cuoca macedone e chi quella turca.

Probabilmente è per questo che può capitare che alle tre del pomeriggio un sito archeologico d’inestimabile valore rimanga incustodito. La venditrice di biglietti al chiosco di fronte all’ingresso è tornata a casa, i tornelli dove si scansionano i biglietti sono stati sollevati. L’entrata è libera, così come il branco di cani che regna indisturbato nelle strade dell’ex città romana. Sono le uniche anime vive in questo luogo oltre a noi. Come quasi ogni cosa di una certa importanza nella Macedonia contemporanea, anche le ricerche archeologiche si sono svolte al tempo della Jugoslavia, tra gli anni settanta e ottanta. In seguito dei lavori si sono occupate soprattutto fondazioni statunitensi.

I bulgari dopo i greci

L’autostrada dell’amicizia transita nella regione vinicola di Tikveš, dove si mescolano il clima continentale e quello mediterraneo. Le estati sono lunghe e calde e gli inverni brevi e miti. Insieme al terreno fertile, questo crea le condizioni perfette per la coltivazione di ortaggi, frutta, uva e tabacco. Rispetto al periodo jugoslavo, la produzione di vino è diminuita, ma l’agricoltura rappresenta ancora il 10 per cento del pil nazionale, anche se l’80 per cento del territorio è montuoso o collinare. Circa un quinto della forza lavoro è impiegata nel settore, le aziende sono piccole e frammentate e la produzione industriale è esigua. Ma tutto cambierà quando la Macedonia del Nord entrerà nell’Unione europea: è la prima cosa a cui pensiamo visitando il Bit Market, un grande mercato coperto all’estremità settentrionale del vecchio bazar di Skopje. “Qui diciamo che la Macedonia del Nord entrerà nell’Unione europea quando questa si disintegrerà”, dice Džordži, un regista che ha studiato a Bologna.

Skopje ha ottenuto lo status di paese candidato all’ingresso nell’Unione europea nel 2005, ma i negoziati sono cominciati solo nella primavera del 2020, dopo la soluzione della disputa con la Grecia. Tuttavia sei mesi più tardi è arrivato un nuovo veto, quello bulgaro.

A Sofia, infatti, molti pensano che la Macedonia del Nord, con la sua cultura e la sua lingua, non sia altro che un’appendice della Bulgaria. In seguito a una serie di futili schermaglie politiche, e dopo l’intervento del presidente francese Emmanuel Macron, nell’estate del 2022 la Bulgaria ha ritirato il veto.

Poco dopo il parlamento macedone ha adottato la cosiddetta proposta francese, in base alla quale la Macedonia del Nord doveva ammettere di avere una storia in gran parte condivisa con quella bulgara, riconoscere l’esistenza di una minoranza bulgara e proteggerne i diritti. Questo compromesso, tuttavia, non è ancora stato approvato, nonostante l’appoggio della principale minoranza del paese, quella albanese, fortemente filoeuropea.

Le modifiche costituzionali richiedono infatti una maggioranza di due terzi, e per dare il loro sostegno al provvedimento i nazionalisti del Vmro-Dpmne, all’opposizione, avevano preteso che il partito degli albanesi (Unione democratica per l’integrazione, Dui) uscisse dal governo, come è successo in effetti nel luglio 2023. “Consapevoli delle speranze e dei sogni dei cittadini macedoni di diventare un giorno parte della grande famiglia europea, noi, ministri e funzionari del Dui, rassegniamo le dimissioni”, si legge nella lettera inviata dai politici albanesi al primo ministro Dimitar Kovačevski nell’agosto 2023.

A quel punto, però, il Vmro-Dpmne ha cambiato idea, e il processo si è nuovamente fermato. “Dopo le dimissioni di Kovačevski, dalla fine di gennaio il paese è guidato da un governo tecnico che non ha la forza necessaria per affrontare il processo dell’adesione all’Unione europea. Quindi oggi siamo in attesa delle elezioni per farlo ripartire”, spiega Sadiku. Il voto è previsto l’8 maggio. In base alla legge macedone, nell’attuale esecutivo di transizione ci sono anche ministri dell’opposizione, cioè del partito Vmro-Dpmne, mentre il premier è l’ex presidente della camera Talat Xhaferi, il primo albanese a guidare la Macedonia del Nord, anche se con poteri molto limitati.

Gli albanesi in Macedonia del Nord costituiscono circa il 30 per cento della popolazione. Considerati anche i rom e le altre minoranze, la quota di musulmani nel paese è del 40 per cento. A Šutka, un insediamento alla periferia di Skopje, i rom sono 200mila. Qui le fondazioni occidentali hanno finanziato la costruzione di scuole, ambulatori e cliniche ginecologiche. Rispetto ad altri insediamenti rom, quello di Šutka sta decisamente meglio.

Se Šutka è la “capitale” dei rom macedoni, Tetovo è quella della comunità albanese, che costituisce il 70 per cento della sua popolazione. Nell’estate 2023 i suoi abitanti si sono resi protagonisti di alcune “provocazioni nazionaliste”, per usare le parole del presidente della repubblica Stevo Pendarovski, che ha anche chiesto sanzioni per i leader politici locali. In pratica, durante la visita a Skopje del primo ministro del Kosovo Albin Kurti, in occasione dell’apertura del tunnel che collegherà Tetovo alla città kosovara di Prizren, sono state sventolate delle bandiere albanesi. Kurti, inoltre, ha partecipato alla cerimonia per il cambio del nome di una strada nella città vecchia di Skopje: invece che ai partigiani della seconda brigata macedone è stata intitolata ad Adem Demaçi, il “Nelson Mandela kosovaro”, rinchiuso per ventotto anni nelle carceri prima jugoslave e poi serbe.

La Macedonia ha lo status di paese candidato all’ingresso nell’Ue dal 2005

Nonostante simili “provocazioni” e la costante presenza delle bandiere albanesi, l’impressione è che a Tetovo, una città che trabocca di negozi di articoli in oro e argento, regni ancora l’armonia interetnica. Vedere sedute insieme al tavolo di un caffè di fronte all’affascinante moschea Šarena una ragazza con il velo e una in minigonna è abbastanza eloquente.

Inoltre, gli albanesi della Macedonia del Nord sono europeisti convinti. In ogni modo, nei Balcani il commercio non conosce confini. Durante le festività di capodanno, a Tetovo la maggior parte delle auto arriva dall’estero: dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Austria, dall’Italia. Spesso sentiamo dire alle persone del posto che “amano molto Spalato”: alcuni proprietari di gioiellerie hanno vissuto nella città croata fino all’inizio della guerra, e oggi uno dei migliori ristoranti di Tetovo si chiama Dubrovnik, come un’altra celebre località dalmata.

La grande fuga

Pochi giorni prima delle dimissioni del governo Kovačevski, a Skopje si è tenuto un incontro tra i leader dei paesi dei Balcani occidentali e un gruppo di diplomatici europei e statunitensi per discutere del piano dell’Unione per la crescita della regione. Gli europei hanno promesso libertà di movimento per capitali, persone e servizi e la possibilità per i macedoni di lavorare “dove vogliono”. In cambio, i leader locali dovranno formare un mercato comune che avrà accesso al mercato europeo anche prima dell’ingresso formale dei singoli stati nell’Unione. O meglio, le merci europee avranno libero accesso al mercato balcanico e i macedoni potranno portare a compimento il loro destino e diventare manodopera a basso costo nell’Europa occidentale senza complicazioni burocratiche.

Secondo il censimento del 2021, hanno lasciato il paese duecentomila persone, circa il 10 per cento della popolazione. Stando alle stime ufficiose gli emigrati sono invece mezzo milione. Questo spiegherebbe perché tutti i negozi del bazar di Skopje vendono valigie e perché ovunque in città s’incontrano persone che trascinano sui sanpietrini i loro bagagli.

Nella taverna Gluvo kuče il cameriere di nome Bojan ci racconta la sua esperienza nel ristorante For, sull’isola croata di Hvar, dove ha lavorato per tre anni. Quest’estate si prenderà una pausa. Lo stipendio mensile era buono, racconta: il primo anno mille euro, che aumentavano di duecento ogni estate. A Skopje guadagna cinquecento euro, e la metà se ne va per l’affitto. Si stima che sessantamila macedoni abbiano lavorato sulla costa croata nell’estate del 2023. Secondo i dati dell’Eurostat, il 40 per cento è a rischio povertà, mentre nel paese la disoccupazione giovanile è al 35 per cento. Non abbiamo il coraggio di dire a Bojan che il futuro dei macedoni non migliorerà poi tanto quando diventeranno ufficialmente la periferia dell’Unione europea. ◆ ab

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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati