Alla fine degli anni ottanta, in un laboratorio di ricerca federale a Pensacola, in Florida, Tamar Barkay usò il fango in un modo che si sarebbe rivelato rivoluzionario: era una versione rudimentale di una tecnica che oggi sta sconvolgendo molti campi scientifici. Barkay aveva raccolto diversi campioni di fango, uno da un bacino idrico, un altro da un canale salmastro e un terzo da una palude di acqua salata. Aveva messo questi campioni in bottiglie di vetro e poi ci aveva aggiunto del mercurio, creando dei fanghi tossici.

A quel tempo Barkay lavorava all’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) e voleva sapere come i microrganismi contenuti nel fango interagiscono con un inquinante industriale come il mercurio, il che richiedeva la conoscenza di tutti gli organismi presenti in un determinato ambiente, non solo della piccola porzione che poteva essere coltivata con successo su una piastra di Petri in laboratorio. Ma la questione di fondo era così basilare che rimane uno degli interrogativi fondamentali di tutta la biologia. Come ha detto Barkay, oggi in pensione, in una recente intervista: “Cosa c’è lì?”. E soprattutto: “Cosa ci fa lì?”.

Sono le stesse domande che oggi si pongono ecologi, funzionari della sanità pubblica, conservazionisti, medici forensi, studiosi dell’evoluzione e degli ambienti antichi, e che spingono epidemiologi e biologi ad andare negli angoli più remoti del mondo.

L’articolo che Barkay e i suoi colleghi pubblicarono sul Journal of Microbiological Methods nel 1987 descriveva un metodo detto “estrazione diretta del dna ambientale”, che avrebbe permesso ai ricercatori di fare un censimento. Era uno strumento pratico, anche se piuttosto complicato, per individuare cosa c’era là fuori. Barkay lo ha usato per tutto il resto della sua carriera.

Oggi il suo studio è citato come un primo abbozzo di ricerca del dna ambientale (eDna), un modo relativamente economico, diffuso e automatizzabile per osservare la diversità e la distribuzione delle forme di vita. A differenza delle tecniche precedenti, che potevano identificare il dna a partire, per esempio, da un singolo organismo, questo metodo raccoglie anche la nube di altro materiale genetico che lo circonda. Negli ultimi anni il settore è cresciuto notevolmente. “Ha una sua rivista”, dice Eske Willerslev, un genetista dell’università di Copenaghen, in Danimarca. “Ha una sua società scientifica. È diventato un campo consolidato”.

L’eDna funziona come uno strumento di sorveglianza, che permette ai ricercatori di rilevare ciò che apparentemente non è rilevabile. Campionando i frammenti di dna presenti nell’acqua, nel suolo, nelle carote di ghiaccio, nei bastoncini cotonati e praticamente in qualsiasi altro ambiente immaginabile, perfino nell’aria, ora è possibile cercare un organismo specifico o scattare un’istantanea di tutti gli organismi presenti in un determinato luogo. Invece d’installare una telecamera per vedere chi attraversa la spiaggia di notte, l’eDna estrae queste informazioni dalle impronte sulla sabbia. “Tutti perdiamo pezzi”, dice Robert Hanner, un biologo dell’università di Guelph, in Canada. “Frammenti di cellule si staccano continuamente”. Come metodo per confermare la presenza di qualcosa, l’eDna non è infallibile. Un organismo rilevato potrebbe non vivere effettivamente nel luogo in cui è stato raccolto il campione. Hanner fa l’esempio di un uccello di passaggio, un airone, che ha mangiato una salamandra e poi ha lasciato il suo dna negli escrementi, il che potrebbe spiegare perché le tracce dell’anfibio sono presenti in regioni dove non ha mai vissuto.Tuttavia l’eDna può aiutare i ricercatori a scovare tracce genetiche disperse nell’ambiente, offrendo un’alternativa promettente e potenzialmente inquietante per raccogliere informazioni sugli organismi, compresi gli esseri umani, mentre svolgono le loro attività quotidiane.

Il mammut nel cucchiaino

La base concettuale dell’eDna risale a un centinaio di anni fa, prima della nascita della cosiddetta biologia molecolare, ed è spesso attribuita al criminologo francese Edmond Locard. In una serie di articoli pubblicati nel 1929, Locard proponeva un principio: ogni contatto lascia una traccia. L’eDna ha portato il principio di Locard nel ventunesimo secolo.

I campioni erano abbastanza intatti da rilevare mutazioni chiave che un giorno potrebbero essere usate per identificare singole persone

Per i primi decenni, questo campo di studi si concentrò soprattutto sulla vita microbica. Solo nel 2003 ha rivelato un ecosistema scomparso. Uno studio diretto da Willerslev ha estratto del dna antico da meno di un cucchiaino di sedimenti, dimostrando per la prima volta che si poteva rilevare la presenza di organismi più grandi, come le piante e i mammut. Nello stesso studio, i campioni raccolti in una grotta della Nuova Zelanda hanno indicato la presenza di un uccello estinto: il moa. Ma la cosa forse più interessante è che l’uso di questa tecnica per studiare il dna antico è nato da una prodigiosa quantità di sterco depositata centinaia di migliaia di anni fa.

Willerslev aveva avuto l’idea qualche anno prima, mentre contemplava un mucchio di sterco più recente: tra la laurea e il dottorato di ricerca a Copenaghen aveva avuto difficoltà a ottenere ossa, resti di scheletri e altri campioni fisici da studiare. Ma poi, ricorda, aveva visto fuori dalla finestra “un cane che defecava in strada”. Quella scena lo aveva spinto a pensare al dna contenuto nelle feci e a come veniva lavato via dalla pioggia senza lasciare tracce visibili. Quindi si era chiesto: “‘È possibile che il dna sopravviva?’ È proprio quello che ho cercato di scoprire”.

L’articolo del 2003 dimostrava la notevole persistenza del dna, che resiste nell’ambiente molto più a lungo di quanto si pensasse. In seguito Willerslev ha analizzato l’eDna della tundra ghiacciata nell’odierna Groenlandia, risalente a due milioni di anni fa, e ora sta lavorando su campioni provenienti da Angkor Wat, un enorme complesso di templi in Cambogia che si ritiene sia stato costruito nel dodicesimo secolo. “Dovrebbe essere il dna peggio conservato che si possa immaginare”, dice. “Con quel caldo e quell’umidità. Ma possiamo estrarlo”.

Willerslev non è l’unico a pensare che le applicazioni siano potenzialmente illimitate, soprattutto ora che gli ultimi progressi consentono ai ricercatori di sequenziare e analizzare grandi quantità di informazioni genetiche. “È una finestra aperta su molte cose”, dice, “più di quante me ne vengano in mente”. Non si tratta solo di studiare gli antichi mammut: l’eDna potrebbe farci scoprire gli organismi che si nascondono tra noi.

Gli scienziati lo usano per individuare esseri viventi di ogni tipo, che si tratti di una singola specie, come le alghe invasive, le anguille del Loch Ness o una talpa cieca che vive nella sabbia e che non viene avvistata da quasi novant’anni. I ricercatori campionano intere comunità, per esempio osservando l’eDna trovato sui fiori selvatici o nel vento, lasciato da tutti gli uccelli, le api e altri impollinatori.

Senza benda

Il successivo salto in avanti nella storia dell’eDna è stato la ricerca di organismi che vivono negli ambienti acquatici. Nel 2008 sull’autorevole rivista specializzata Chemistry World è comparso un articolo intitolato “L’acqua conserva la memoria del dna delle specie nascoste”, che descriveva il lavoro del ricercatore francese Pierre Taberlet e dei suoi colleghi. Il gruppo cercava le rane toro, che possono pesare un chilo e in Europa occidentale sono considerate una specie invasiva. Per individuarle di solito gli esperti scrutavano le coste con un binocolo e poi tornavano dopo il tramonto per ascoltare i loro richiami. L’articolo del 2008 suggeriva un modo più semplice, che richiedeva molto meno personale.

Raccolta di campioni nella metropolitana di New York, giugno 2016 (Thos Robinson, Getty per Weill Cornell Medicine)

“Si poteva ricavare il dna di quella specie direttamente dall’acqua”, dice Philip Thomsen, un biologo dell’università di Aarhus, in Danimarca, non coinvolto nello studio. “E questo ha davvero dato il via alle ricerche sul dna ambientale”.

Le rane non sono l’unica specie che sfugge al rilevamento tradizionale. Thomsen aveva cominciato a lavorare su un altro tipo di organismi notoriamente difficili da censire: i pesci. A volte si dice che contare i pesci è un po’ come contare gli alberi, a parte il fatto che si muovono, vivono in luoghi bui, e chi li cerca è come se lo facesse bendato. Il dna ambientale ha fatto cadere la benda. Un’analisi della letteratura pubblicata su questa tecnica, pur mettendo in guardia contro i rilevamenti erronei e le imprecisioni, ha riscontrato che gli studi sull’eDna di pesci e anfibi d’acqua dolce e salata erano sette volte più numerosi di quelli sulle specie terrestri.

Nel 2011 Thomsen, allora dottorando nel laboratorio di Willerslev, pubblicò un articolo in cui dimostrava che il metodo poteva rilevare la presenza di specie rare e a rischio di estinzione, tra cui anfibi, mammiferi come la lontra, crostacei e libellule. “Abbiamo dimostrato che bastava un bicchierino d’acqua per rilevare la presenza di questi organismi”, dice. Era chiaro che il metodo poteva essere usato nella biologia della conservazione per monitorare le specie.

Nel 2012 la rivista Molecular Ecology ha pubblicato un numero speciale sull’eDna, in cui Taberlet e altri lo definivano dna isolato a partire da campioni ambientali. Il metodo descriveva due approcci simili ma leggermente diversi. Uno risponde alla domanda sì o no: la rana toro (o qualsiasi altra cosa) è presente o no? Lo fa scansionando un metaforico codice a barre, brevi sequenze di dna tipiche di una specie o di una famiglia, chiamate primer, attraverso una tecnica detta reazione a catena della polimerasi quantitativa in tempo reale, o qPcr.

L’altro approccio, comunemente noto come metabarcoding del dna, produce un elenco di organismi presenti in un determinato campione. “In questo caso la domanda è: cosa c’è qui?”, dice Thomsen. “Trovi tutti gli elementi già noti, ma anche delle sorprese”. Uno mira a trovare l’ago in un pagliaio, l’altro prova a mostrare l’intero pagliaio.

L’eDna si distingue dalle tecniche di campionamento più tradizionali in cui gli organismi, come i pesci, vengono catturati, manipolati, sottoposti a stress e talvolta uccisi. I dati ottenuti con l’eDna sono oggettivi. È un metodo standardizzato e imparziale. “In un modo o nell’altro, rimarrà una delle metodologie più importanti delle scienze biologiche”, dice Mehrdad Hajibabaei, un biologo molecolare dell’università di Guelph che è stato uno dei pionieri del metabarcoding e ha tracciato la presenza di pesci a più di tremila metri di profondità nel mare del Labrador. “Ogni giorno emerge qualcosa che non mi era venuto in mente”.

Pesca a strascico

Negli ultimi anni il campo dell’eDna si è ampliato. La sensibilità della tecnica consente ai ricercatori di campionare ambienti che erano fuori dalla loro portata, per esempio catturando il dna dall’aria. Questo mostra le potenzialità del metodo, ma anche le sue insidie. L’eDna sembra circolare su una cintura di polvere globale, e può essere filtrato e analizzato per monitorare piante e animali terrestri. Ma l’eDna portato dal vento può provocare contaminazioni.

Nel 2019, per esempio, Thomsen ha lasciato all’aperto due bottiglie di acqua purissima, una in una prateria e l’altra vicino a un porto. Dopo alcune ore l’acqua conteneva eDna di uccelli e aringhe, dimostrando che nei campioni si erano depositate tracce di specie non terrestri. Gli organismi ovviamente non erano entrati nelle bottiglie. “Quindi il dna doveva venire dall’aria”, dice Thomsen.

Questi risultati ponevano un duplice problema: da un lato, le tracce possono spostarsi, due organismi che entrano in contatto tra loro possono poi portare il dna l’uno dell’altro, e solo perché è presente un certo dna non significa che la specie sia effettivamente lì.

Inoltre, non è detto che la presenza dell’eDna indichi che una specie è viva. Sono ancora necessarie indagini sul campo per valutare il successo riproduttivo di una specie, la sua salute o lo stato del suo habitat. Finora, quindi, l’eDna non sostituisce necessariamente le osservazioni fisiche e i rilevamenti. In un altro studio il gruppo di Thomsen ha raccolto eDna sui fiori per individuare gli uccelli impollinatori, ma più della metà del materiale era di origine umana. La contaminazione ha confuso i risultati e reso più difficile rilevare la presenza degli impollinatori.

Nel maggio 2023 anche un team dell’università della Florida, che in precedenza aveva studiato le tartarughe marine basandosi sulle tracce di eDna lasciate mentre si trascinavano sulla spiaggia, ha pubblicato una ricerca in cui compariva dna umano. I campioni erano abbastanza intatti da rilevare mutazioni chiave che un giorno potrebbero essere usate per identificare singole persone, suggerendo che la sorveglianza biologica solleva interrogativi senza risposta sull’etica e sul consenso informato. L’eDna è come una rete a strascico, che raccoglie informazioni sulla biodiversità in modo indistinto e inevitabilmente finisce, come dicevano gli autori dello studio, per “catturare accidentalmente tracce genetiche umane”. Anche se i problemi di privacy relativi alle impronte nella sabbia, almeno finora, sembrano ancora ipotetici, l’uso dell’eDna nelle controversie legali relative alla fauna selvatica è già una realtà. È usato anche nelle indagini della polizia: nel 2021, per esempio, un gruppo di ricercatori cinesi ha riferito che l’eDna raccolto dai pantaloni di un sospettato di omicidio aveva smentito le sue dichiarazioni rivelando che probabilmente era stato nel canale fangoso dove era stato trovato il cadavere.

Le preoccupazioni sull’eDna raccolto accidentalmente, in termini di precisione e di effetti sulla medicina umana e forense, evidenziano un’altra carenza, molto più importante. Secondo Hanner, dell’università di Guelph, “i nostri quadri normativi e le nostre politiche tendono a rimanere indietro di almeno un decennio rispetto alla scienza”.

Oggi ci sono innumerevoli potenziali applicazioni, come il monitoraggio della qualità dell’acqua, la valutazione dell’impatto ambientale di edifici e infrastrutture, la gestione delle specie e il rispetto delle leggi sulla conservazione. Nel 2021, nell’ambito di una causa civile, il Fish and wildlife service degli Stati Uniti ha cercato di stabilire se una specie a rischio era presente in un certo bacino idrografico usando sia l’eDna sia il campionamento tradizionale, e ha scoperto che non c’era. Di conseguenza il tribunale ha decretato che l’area non doveva essere protetta. La questione non sembra essere se il metodo dell’eDna può essere usato in tribunale, perché lo è già stato. “Ma in realtà non si può veramente affermare che in un ambiente qualcosa non c’è”, dice Hajibabaei.

Di recente, Hajibabaei ha sottolineato il problema della convalida: l’eDna permette di dedurre un dato, ma ha bisogno di criteri più consolidati per confermarlo (cioè se un organismo è effettivamente assente o presente, e in che quantità). In una serie d’incontri, gli scienziati hanno affrontato questi problemi di standardizzazione, che includono protocolli, catene di custodia e criteri per la generazione e l’analisi dei dati. Dopo aver esaminato una serie di ricerche, Hajibabaei e i suoi colleghi hanno scoperto che esistono moltissimi studi e prove di concetto per dimostrare che l’eDna funziona, ma rimangono prevalentemente confinati al mondo accademico. Per questo motivo, i professionisti che sperano di usare questa tecnica nel loro lavoro a volte sembrano chiedere la Luna. Per esempio, dice Hajibabaei, qualcuno gli ha recentemente domandato se poteva escludere totalmente la presenza di un parassita in un allevamento di pesci. “E io ho risposto: ‘Non posso garantirlo al 100 per cento’”.

Anche in un quadro analitico rigoroso, il problema dei falsi negativi e dei falsi positivi è particolarmente difficile da risolvere senza fare una delle cose che l’eDna permette di evitare: la raccolta tradizionale e l’ispezione manuale.

Nonostante questi limiti, una manciata di aziende sta già cominciando a commercializzare la tecnica. Per esempio, le applicazioni future potrebbero aiutare un’impresa a capire se il ponte che sta costruendo danneggerà gli animali in via di estinzione della zona. Un’azienda di acquacoltura potrà determinare se i suoi impianti sono infestati da pidocchi di mare, e un agricoltore potrà sapere se le nuove piante stanno attirando una gamma più ampia di api autoctone.

La questione è piuttosto importante, dato che l’eDna è considerato un modo indiretto per rilevare ciò che non è rilevabile o una soluzione alternativa in contesti in cui semplicemente non è possibile gettare una rete e catturare tutti gli organismi marini. “In questi casi è molto difficile essere sicuri”, dice Hajibabaei. “E questo è il nocciolo del problema”.

Un tesoro nelle fogne

L’eDna apre molte possibilità, rispondendo alla domanda originariamente posta da Barkay (e senza dubbio da molti altri): “Cosa c’è lì?”. Ma sempre più spesso fornisce anche elementi che portano alla domanda “Cosa ci fa?”.

“È molto più facile raccogliere mille sanguisughe. È come avere un gruppo di assistenti che fa i rilevamenti al posto tuo”

Elizabeth Clare, che insegna biologia alla York university di Toronto, in Canada, dice di aver osservato i pipistrelli appollaiarsi in un certo posto durante il giorno, ma, raccogliendo l’eDna presente nell’aria, ha potuto anche dedurre dove socializzavano di notte. Un altro studio ha trovato l’eDna di cane domestico in alcuni escrementi di volpe rossa. I due canidi non sembravano essersi incontrati, ma i ricercatori si sono chiesti se la loro vicinanza non avesse creato confusione o ci fosse stata una contaminazione incrociata, prima di optare per una terza spiegazione: le volpi mangiavano escrementi di cane.

Quindi, anche se l’eDna in sé non rivela il comportamento animale, secondo alcuni, il settore sta facendo passi da gigante nel fornire indizi su ciò che un organismo sta facendo, e su come sta interagendo con altre specie in un determinato ambiente, raccogliendo informazioni sulla sua salute senza osservarne direttamente il comportamento.

Consideriamo un’altra possibilità: il biomonitoraggio su larga scala. Negli ultimi tre anni, infatti, moltissime persone hanno partecipato a un ambizioso esperimento: raccogliere campioni ambientali dalle fognature pubbliche per trovare le particelle virali di sars-cov-2 e di altri organismi che infettano gli esseri umani. Tecnicamente, analizzare le acque reflue richiede un metodo analogo chiamato eRna, perché alcuni virus hanno solo informazioni genetiche memorizzate sotto forma di rna.

Tuttavia, si possono applicare gli stessi princìpi. Gli studi suggeriscono anche che l’rna, che determina quali proteine un organismo sta sintetizzando, potrebbe essere usato per valutare la salute dell’ecosistema, perché gli organismi sani possono produrre proteine completamente diverse rispetto a quelli sotto stress.

Oltre a monitorare la prevalenza delle malattie, il campionamento delle acque reflue dimostra che un’infrastruttura come le fognature può essere trasformata in un potente strumento per studiare qualcos’altro, come rilevare la presenza di agenti patogeni.

Clare fa proprio questo. “Sono una di quelle persone che tendono a usare gli strumenti in modo diverso da quello per cui sono stati concepiti”, dice. Clare è stata tra gli studiosi che hanno notato una lacuna nella ricerca: c’erano molti meno studi sull’eDna degli organismi terrestri. Così ha cominciato a lavorare su quello che potrebbe essere definito un filtro naturale, cioè gli invertebrati che succhiano il sangue dei mammiferi. “È molto più facile raccogliere mille sanguisughe. Il sangue al loro interno contiene il dna degli animali con cui hanno interagito”, dice. “È come avere un gruppo di assistenti che fa i rilevamenti al posto tuo”. Poi uno dei suoi studenti ha pensato di fare la stessa cosa con gli scarabei stercorari, che sono ancora più facili da raccogliere.

Ora Clare sta studiando una nuova applicazione per un altro sistema di monitoraggio continuo, usando i rilevatori che misurano la presenza di agenti inquinanti come il particolato fine e contemporaneamente aspirano l’eDna dall’aria.

Alla fine del 2023 possedeva solo un piccolo archivio di campioni, ma aveva già scoperto che, come sottoprodotto del monitoraggio della qualità dell’aria, queste centraline facevano anche da filtri per il materiale che stava cercando. In pratica è una rete transcontinentale che raccoglie campioni in modo molto regolare per lunghi periodi di tempo. “Si potrebbe usare per costruire serie temporali e dati ad alta risoluzione su interi continenti”, dice.

Nel Regno Unito, continua Clare, ci sono circa 150 centraline che aspirano aria ogni settimana, per un totale di circa ottomila misurazioni all’anno. Lei e i suoi collaboratori hanno recentemente analizzato una piccola parte di questi campioni – 17 misurazioni da due diverse località – e sono stati in grado di identificare più di 180 diversi gruppi tassonomici, tra cui 80 specie di piante e funghi, 26 di mammiferi, 34 di uccelli e almeno 35 di insetti.

Sicuramente esistono altri siti in cui fare ricerca ecologica a lungo termine. Gli Stati Uniti hanno una rete di strutture simili. Ma non si appoggiano a un’infrastruttura globale che misura costantemente la biodiversità, compreso il passaggio degli uccelli migratori, per stabilire l’espansione e la contrazione delle specie con il cambiamento climatico. Probabilmente l’eDna non sostituirà la rete di persone che registrano osservazioni in tempo reale e ad alta risoluzione su siti web come eBird o iNaturalist, ma la completerà. Come l’immagine sfocata di una galassia completamente nuova, la risoluzione attuale rimane bassa.

“È una sorta di sistema di raccolta generalizzata, che è un’assoluta novità nella scienza della biodiversità”, dice Clare. Si riferisce alla capacità di estrarre i segnali dell’eDna dal nulla, ma parla anche del metodo nel suo complesso: “Non è perfetto”, ha detto, “ma niente lo è”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati