Nel 2020, quando il mondo intero era chiuso in casa, le vendite di sedie da ufficio negli Stati Uniti sono aumentate del 75 per cento. Podcast, articoli, manuali e guide all’acquisto spuntavano dalla sera alla mattina in risposta all’inquietante realtà che molti impiegati dovevano affrontare: le sedie che avevano in casa erano terribili. Quelli di noi che fanno un lavoro da scrivania – e in Giappone si calcola siano il 28 per cento degli occupati – hanno un problema comune e persistente che si chiama seduta. Anche prima della pandemia erano comparsi sul mercato marchingegni di ogni genere: scrivanie per lavorare in piedi, mentre si cammina o si fa la cyclette; sedie ergonomiche o su cui inginocchiarsi, e addirittura sedie che rimbalzano.

Un paese seduto

Ma la pandemia ha eliminato il pendolarismo con l’ufficio, costringendo molti a prendere atto che ormai passavamo circa un terzo della giornata fermi su una sedia. È diventato comune arrivare alla fine della giornata solo per rendersi conto di aver fatto cinquanta passi in totale – fino alla cucina e ritorno, fino al bagno e ritorno – e di aver deliberatamente allungato il giro delle commissioni, anche inutili, solo per sgranchirsi le gambe. Rimanere fermi sulla sedia aumenta il rischio di insonnia, depressione, obesità, problemi cardiovascolari e morte. Ripetiamo da anni che stare seduti è il nuovo fumare, ma dopo tre anni di pandemia abbiamo tutti la tosse del fumatore. O il sedere da scrivania, se preferite. “Siamo bravi a camminare e a correre, e ci piace stare sdraiati quando dormiamo. Il problema è la posizione intermedia”, scrive l’architetto Witold Rybczynski in Now I sit me down, la sua storia delle sedie. “Ogni sedia rappresenta una lotta per risolvere un conflitto tra gravità e anatomia umana. Mettersi seduti è sempre una sfida”.

Nell’ultimo mese, quando dicevo che stavo lavorando a una storia sulla “posizione seduta”, i miei interlocutori avevano una reazione che mi ha sorpreso. Tutti si lamentavano delle sedie che hanno al lavoro o della loro postazione domestica ed erano ansiosi di ricevere qualche briciola di saggezza ergonomica. Come per il sonno, c’è una promessa: se fai qualche piccola modifica cambierai la tua vita. E come per il sesso, c’è una paura strisciante: lo starò facendo male?

Il Giappone sta molto seduto. Uno studio dei 2011 pubblicato nell’American Journal of Preventive Medicine riferiva che, in base a un sondaggio tra più di 49mila adulti in venti paesi, i giapponesi e i sauditi erano quelli che passavano più tempo seduti, con una media ponderata di 420 minuti nei giorni feriali. Il rapporto dei giapponesi con la posizione seduta è ulteriormente complicato dall’antica usanza di sedersi sul pavimento.

Turisti e stranieri che vivono in Giappone potrebbero riconoscere facilmente la scena: arrivare in un ristorante con il tatami e puntare dritti al lato del chabudai (il tavolo basso) che tocca una parete, oppure rischiare di stramazzare, per il formicolio, dopo una ventina di minuti (o tirare un sospiro di sollievo quando allungando i piedi si scopre che sotto il tavolo c’è un buco dove far oscillare le gambe). Non basta, la cultura giapponese sostiene che c’è un modo “corretto” di sedersi, chiamato seiza, con un’intensa pressione sulle caviglie e le ginocchia che è parte integrante della pratica di arti tradizionali come il kendō, l’ikebana (la disposizione dei fiori) e il sadō (la cerimonia del tè).

Il modo in cui ti siedi, si scopre, può dire molto di te. Uno studio del 2022 pubblicato dal Journal of Physical Education and Sport, rivelava che le persone sedute dritte su una sedia o nella posizione seiza erano percepite da un gruppo di 132 universitari giapponesi come più pulite (vale a dire meno disordinate) di chi stava ingobbito. Erano anche ritenute più etiche, un concetto definito da caratteristiche come “il contributo al gruppo e alla società”, “il rispetto delle regole e delle buone maniere” e perfino “un sentimento di venerazione” nei confronti di quanto è al di là del potere umano, come la natura. Le persone accasciate sulla sedia erano considerate moralmente inferiori, e quelle appoggiate allo schienale reclinato all’indietro erano associate alla moralità più bassa.

Alcuni influencer che si occupano di salute ritengono addirittura che sedersi sul pavimento e lo stile di vita incoraggiato da questa posizione siano fattori cruciali per l’aspettativa di vita incredibilmente lunga dei giapponesi. Dan Buettner, esploratore e sostenitore entusiasta della longevità, autore di una serie di libri intitolati Zone blu (un riferimento alle regioni del mondo dove la durata della vita è molto alta), teorizza che “la pratica di Okinawa di sedersi sul pavimento è legata a salute, mobilità e longevità” e propone video su come, per esempio, guardare il telefono mentre si è seduti per terra.

La sedia di Dio

Esiste un modo giusto di sedersi? E il Giappone l’ha individuato? La domanda è molto più complessa di così. La storia di come i giapponesi si siedono è un microcosmo dei problemi della sua rapida modernizzazione e attraversa centinaia di anni di cultura, politica e religione. Il mondo può essere genericamente diviso tra chi usa le sedie e chi si siede sul pavimento. E fin dall’antichità il Giappone rientra nella seconda categoria, insieme alle culture islamiche del Medio Oriente e del Nordafrica, alle tribù di nativi americani e ai popoli dell’India e della Corea, come ha mostrato l’antropologo Gordon W. Hewes nel suo studio sulle posture del mondo negli anni cinquanta.

Le sedie sembrano una componente d’arredo soprattutto europea, ma in realtà le prime sono attribuite agli antichi egizi e risalgono al 2600 aC. Secondo gli studiosi denotavano lo status sociale. “Dio è seduto su una sedia”, dice Hidemasa Yatabe, designer e studioso di tecniche corporee, a proposito delle prime raffigurazioni di questo oggetto. “Quando Dio siede sulla sedia, il re riceve il diritto di governare da Dio. Il re siede rispetto ai suoi sudditi nel modo in cui Dio siede rispetto al re”.

Nel 200 dC la Cina aveva già realizzato uno sgabello pieghevole, poi intorno all’anno mille comparve la sedia e si diffuse rapidamente. Anche in Giappone si usavano le sedie, fin dal 500 dC, come provano dei resti trovati nella zona che fu colpita dall’eruzione del monte Haruna, nella prefettura di Gunma. Da molto tempo erano in uso anche sedili pieghevoli detti shōgi e seggi in legno scolpito usati dai monaci buddisti, chiamati kyokuroku. Ma ci sono voluti secoli prima che le sedie si diffondessero.

Pavimenti rialzati

Le cose sarebbero potute andare diversamente, come ha scritto nel 1986 l’architetto Arata Isozaki, vincitore del premio Pritz­ker. “Lo sgabello pieghevole era usato dai guerrieri per indicare la loro posizione di superiorità rispetto ai contadini, che s’inginocchiavano o sedevano per terra”, spiega, suggerendo che le sedie basse furono originariamente adottate in Giappone per motivi legati alla pulizia e alla gerarchia sociale. Ma la classe aristocratica dei guerrieri cominciò a costruire nelle sue case pavimenti di legno rialzati. Questi, lontani dalla sporcizia delle pietre o della terra battuta, portarono con sé un nuovo modo di vivere direttamente sul pavimento. In altri termini, il pavimento diventò una sedia. E così, malgrado l’entusiasmo con cui nel periodo Nara (710-794) si ispirò alla Cina per l’arte, la calligrafia e l’architettura, il Giappone voltò le spalle alle sedie.

Isozaki scrive che l’abitudine di sedersi sul pavimento si rivelò cruciale per lo sviluppo di un originale stile giapponese. La progettazione di stanze e giardini era concepita pensando a qualcuno che stava seduto o in ginocchio sul pavimento. Il più celebre regista inconfondibilmente giapponese, Yasujirō Ozu, era noto per l’uso di una cinepresa statica collocata molto in basso, vicino al suolo. “Quando riprendeva le famiglie, protagoniste predilette dei suoi film, Ozu preferiva gli interni, soprattutto nelle case in stile giapponese”, scrive Mark Schilling, critico cinematografico del Japan Times. “Girava da una posizione bassa, con la cinepresa sistemata all’altezza di una persona seduta su un tatami, per dare una sensazione d’intimità”. Yatabe, che ha scritto diversi libri sul modo di sedersi, si spinge più in là. Circondato da eleganti sedie artigianali realizzate in palissandro e ippocastano bianco giapponese nel suo Istituto giapponese di ricerca sulla cultura fisica, a Tokyo, Yatabe studia la storia delle posture ed estetica del corpo. Con il crepitio del caminetto in sottofondo, provo varie sedie che ha progettato per lavorare e per meditare. Mi siedo su una che ricorda un po’ uno strumento di tortura, e appoggiandomi allo schienale dalla gola mi scappa un fievole gemito non propriamente professionale.

Cerimonia del tè, Kyoto, 1951 (Werner Bischof, © Werner Bischof estate/Magnum/Contrasto)

“Quasi tutti gli aspetti legati alla vita dei giapponesi sono nati dalla premessa di sedersi sul pavimento”, scrive in “Nihonjin no suwarikata” (Stili di seduta dei giapponesi, 2011). “Dalle posture quotidiane per mangiare e bere o dai modi per salutare gli altri, fino alle posizioni fondamentali nelle arti tradizionali, è impossibile capire fino in fondo la cultura giapponese se non si considera l’abitudine di sedersi sul pavimento”. Nel suo atelier, mostra un kimono, con una forma e un taglio basati su criteri di bellezza che nascondono le linee del corpo, invece di sottolinearle. Le pose ampie e le ginocchia profondamente piegate, stando in piedi o seduti, erano variamente associate alla bellezza e alla forza, spiega.

Gli uomini di alto rango, come imperatori e samurai, erano raffigurati seduti in una posizione detta rakuza, con le piante dei piedi che si toccavano e le ginocchia divaricate (quella che alcuni lettori potrebbero conoscere come “posizione della farfalla”), ed era una dimostrazione di forza e di bellezza. Yatabe contrappone questa tradizione ai ritratti dei re dell’Europa occidentale, che posavano in piedi con una gamba protesa in avanti. Ovviamente non è possibile pensare alle linee di un kimono senza considerare anche il seiza.

I valori estetici influenzano la cultura. E anche i governi. Durante la restaurazione Meiji del 1868, il periodo di rapida modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone, uno dei tanti aspetti della vita sociale e culturale che furono esaminati con cura fu il modo in cui la popolazione si sedeva. Nei primi anni ottanta dell’ottocento, scrive Yatabe, quando i bambini per la prima volta cominciarono in massa a frequentare la scuola pubblica obbligatoria, si avvertì il bisogno d’insegnare non solo a leggere e a scrivere, ma anche l’etichetta, che includeva come salutare correttamente gli altri, come mangiare educatamente il bentō, come inchinarsi e – avete indovinato – come sedersi.

Il manuale “Nuova edizione del galateo per la scuola elementare” descriveva molto dettagliatamente il modo “corretto” di sedersi, una variante elaborata di quello che oggi chiameremmo seiza, un termine formato dai caratteri di “giusto” e “seduta”. “Mettetevi in posizione eretta con i piedi uniti, fermatevi e, partendo dal sinistro, spostate indietro un piede alla volta. Mentre sollevate le dita dei piedi, inginocchiatevi piegando entrambe le gambe, poi sistemate gli alluci e sedetevi. Quando siete seduti, poggiate le mani direttamente sulle ginocchia e riposate le braccia, stando concentrati come se non doveste far cadere un uovo di gallina da ciascuna ascella”.

La storia di come ci si siede in Giappone è un microcosmo dei problemi legati alla rapida modernizzazione

Quando accenno al seiza a colleghi e amici cresciuti in Giappone, c’è una sorta di sussulto universale. Lo raccontano come se fosse una specie di punizione: “Mettiti in seiza e pensa a cos’hai fatto!”. Il seiza può migliorare la flessibilità delle anche e mandare sostanze nutritive alle ginocchia, ma restare seduti a lungo in questa posizione viene anche associato a gambe storte e a problemi di circolazione sanguigna ed edemi. “Mi piace molto il seiza”, mi scrive un amico taiwanese che pratica il sadō e l’ikebana. “Mi piace non stare troppo comodo”.

Nella cerimonia del tè il seiza è visto come un modo elegante di rendere compatto il corpo in sale sempre più piccole. Per di più, originariamente indicava l’atteggiamento umile del padrone di casa nei confronti dell’ospite, spiega l’ufficio della Mushakōji senke kankyuan, una delle tre maggiori scuole di tè giapponesi. Ma Sen no Rikyū, il padre della moderna cerimonia del tè giapponese, da cui discendono direttamente tutte e tre le scuole, sedeva nell’agura, cioè a gambe incrociate. Eppure per gli standard di oggi questo stile è considerato rozzo o trasandato, e sicuramente inadatto alle donne. È sorprendente che un modo di sedersi sia circondato da tante controversie. Ma è significativo che un’altra delle tre scuole non mi abbia concesso un’intervista per timore che il suo nome apparisse in un articolo che poteva denigrare il seiza. Un libro di sadō per principianti racconta in dettaglio una riforma cruciale della tradizione: “I praticanti immaginarono un nuovo approccio alla cerimonia del tè, adattandola ai tempi”. Era il 1872, e la novità erano le sedie.

Il cambiamento stava lentamente arrivando in Giappone. Negli anni sessanta e settanta del novecento, durante la rapida crescita economica postbellica, l’uso delle sedie era ormai entrato nelle case giapponesi. In effetti, il Giappone è arrivato da poco sulla scena globale delle sedie. E per questo gli abitanti delle sue città mostrano una fascinazione assoluta per questo oggetto. Nella primavera del 2022, diversi spazi Muji nel quartiere di Ginza, a Tokyo, ospitavano mostre di sedie. Nell’estate del 2022, due esposizioni di sedie sono state allestite contemporaneamente al Tokyo metropolitan art museum e al museo di arte contemporanea di Tokyo, una con progetto del designer danese Finn Juhl e l’altra con modelli del francese Jean Prouvé.

Stando a quanto scrive Makoto Shimazaki nell’introduzione a Sedie giapponesi, a partire dai primi anni sessanta il Giappone è diventato uno dei più grandi mercati al mondo per mobili europei come la sedia Y di Hans Wegner. I pionieri giapponesi delle sedie moderne, come ci mostra il libro, hanno inglobato nei loro progetti alcuni elementi della casa giapponese. Gli sgabelli impilabili di Isamu Kenmochi, sistemati fianco a fianco o uno di fronte all’altro, non sprecavano spazio, una risorsa che in Giappone scarseggia. La sedia a raggio di Kappei Toyoguchi s’ispirava alla sedia Windsor, ma era più larga e profonda. L’ampio cuscino permetteva di incrociare o piegare le gambe sulla sedia e, con un’altezza di soli 34 centimetri, il sedile era abbastanza basso perché la persona seduta si trovasse più o meno alla stessa altezza di chi era inginocchiato sul pavimento. Un’altra sedia di Toyoguchi aveva gambe arrotondate per non rovinare la superficie del tatami. Come hanno dimostrato questi designer, le sedie costruite in occidente semplicemente non si adattavano allo stile di vita predominante in Giappone.

Il più celebre regista inconfondibilmente giapponese, Yasujirō Ozu, era noto per l’uso di una cinepresa statica messa molto in basso, vicino al suolo

Nuovi punti dolenti

Oggi in Giappone chi sta seduto si trova in una posizione molto bizzarra: a soli sessant’anni dal passaggio dal tatami alla sedia, la società sta scoprendo nuovi punti dolenti. Secondo Yatabe, sono il risultato del tentativo di adattarsi troppo in fretta a una cultura del corpo straniera, quella europea. Lo paragona alle donne che cercano di passare in massa ai tacchi alti: i piedi, abituati ai geta (sandali di legno) e agli zōri (sandali bassi), potrebbero non avere l’arco plantare in grado di sopportare quelle calzature. I valori estetici che hanno influito su posture e fisico non potevano essere superati con la stessa rapidità del decollo economico giapponese postbellico.

Allo stesso modo, sedersi per terra ha rappresentato una parte così importante della vita per così tanto tempo che la società non poteva semplicemente adattarsi alle sedie dalla sera alla mattina. Yatabe ricorda sua nonna e altri anziani che conosceva, nati nell’era Meiji (1868-1912). Quando camminavano erano curvi in avanti o avevano bisogno di un bastone, ma quando stavano seduti sul pavimento sembravano incredibilmente comodi ed eleganti. Questa era l’intensità dell’allenamento fisico a cui si erano sottoposti, dice.

Le posture “corrette” e la tradizione di sedersi sul pavimento forse stanno svanendo, ma il loro effetto sulla cultura rimane. “All’università in California ho scoperto che mi siedo in modo strano”, mi racconta una collega giapponese mostrandomi una posizione simile al virasana dello yoga, in cui le ginocchia si toccano e i glutei sono a terra, con le gambe a forma di V. “E quando sono tornata in Giappone ho dovuto disimparare a stare seduta a gambe incrociate, perché era considerato volgare”, continua. Sayaka Murata, autrice di La ragazza del convenience store, una volta mi ha detto che ai convegni e alle fiere del libro in Europa gli altri scrittori facevano commenti sul suo modo di stare seduta dritta e aggraziata. “Ho provato (a ingobbirmi), ma era davvero molto difficile”.

Da sempre l’Homo sapiens cammina in posizione eretta, eppure la nostra colonna vertebrale si piega continuamente verso il basso

Per tutta la sua lunga carriera Kageyu Noro, professore dell’università Waseda e uno dei massimi esperti giapponesi di ergonomia, ha risposto alle domande delle persone sul mal di schiena. Nel suo ambulatorio sulla seduta, in cinque anni ha visitato circa trecento persone, mostrando come correggere sedie e posture, per esempio aggiustando dei cuscini che sprofondavano troppo o costruendo schienali. Gli mostro una cosa che mi hanno regalato, una comunissima sedia pieghevole blu. Proprio dove ci si aspetterebbe un supporto lombare c’è uno spazio vuoto. Io la uso sempre ma, come gli spiego, mi scatena il mal di schiena. Lui mi suggerisce di arrotolare un asciugamano e incastrarlo tra sedile e schienale per avere un sostegno. Noro sta lavorando a una tecnologia che consente “una sorta di dialogo tra la sedia e la persona che la usa”. In realtà, spiega, non esiste una sedia che vada bene per tutti.

Per Noro la risposta non va cercata nell’ergonomia moderna ma molto indietro nella storia del Giappone. Il monaco buddista Dōgen, vissuto dal 1200 al 1253, portò in Giappone il buddismo zen e diffuse la pratica dello zazen, o meditazione seduta zen. Il monaco e i suoi discepoli si sedevano sugli zafu, cuscini rotondi di tifa intrecciata. “Il modo di sedersi di Dōgen era estremamente logico”, dice Noro. “Chiedeva ai monaci di farsi da soli lo zafu più adatto al loro corpo”. La chiave era personalizzare: stare comodi su una sedia dipende, anche, dal vostro peso. Nelle sue ricerche Noro ha approfondito il rapporto tra peso corporeo e “livello di sprofondamento”, cioè la variazione di altezza del cuscino. Il suo laboratorio ha progettato una sedia per la microchirurgia che consente al paziente di rimanere seduto comodo per molte ore durante interventi di estrema precisione, e per questo ha usato il modello di cuscino di Dōgen del duecento.

Yatabe fa eco alle conclusioni di Noro. Dopo anni di studio ha cominciato a fare sedie su misura concepite per adattarsi al corpo dei suoi clienti. Insiste che è inutile guardare all’ergonomia occidentale quando il rapporto del Giappone con la posizione seduta a terra risale a migliaia di anni fa, ed è influenzato dalle tradizioni dello zen, dello yoga e del tai chi.

Sedersi non è solo una questione di arte, salute, etichetta e tradizione. È anche una questione dell’anima. “Il seiza è una postura che consente di concentrare la forza sul punto vitale del corpo, il dan-tian”, mi dicono alla scuola di tè Mushakouji senke kankyuan. “Alcuni credono che adottando questa posizione si possa calmare e soddisfare la mente”. Mentre le sedie causano tanta tensione agli impiegati, certi modi di sedersi sono davvero un mezzo per sopportare le fatiche quotidiane. La meditazione laica è diventata molto popolare, perfino una pratica estrema chiamata meditazione vipassana, che si è trasformata in un rifugio alla moda per chi è stanco del mondo: dieci giorni di meditazione seduta, silenziosa, completamente disconnessi dalla società.

Mentre lavoravo a questo articolo, ho partecipato a due lezioni di pratiche meditative molto diverse. Ma i risultati sono stati gli stessi: dopo appena un’ora di posizione seduta, le mie gambe sono diventate completamente insensibili. Sentendomi dire che dovevo pensare solo al mio respiro e all’energia del mio corpo, non riuscivo a non chiedermi: che diavolo sto facendo? Perché sto qui seduto?

Questo potrebbe essere il nocciolo della questione per chi è costretto alla scrivania, afflitto da dolori al collo, alle spalle e alla schiena: stare seduti tutto il giorno fissando uno schermo spesso sembra il contrario esatto della vita. Da sempre l’Homo sapiens cammina in posizione eretta, eppure la nostra colonna vertebrale si piega continuamente verso il basso, i nostri occhi seguono icone e testi, il nostro sedere cerca superfici dove appoggiarsi. Ci facciamo in quattro per riappropriarci della capacità di stare seduti – un problema che ci siamo creati da soli – nel nome della salute, della cultura, della bellezza, della realizzazione di sé e perfino di quell’ideale indefinibile chiamato felicità: c’è qualcosa di più umano? ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati