La Russia oggi è una terra lontana, misteriosa, ostile. Sembra incredibile che si sappia così poco del paese più vasto del mondo e che ha sconvolto l’ordine internazionale. Un buio ancor più fitto che ai tempi più cupi dell’Unione Sovietica. Se la Russia sembra diventata un pianeta a sé stante è in gran parte responsabilità di un regime che ha dichiarato guerra anche ai giornalisti stranieri, impedendogli d’oltrepassare i perimetri stabiliti dalla propaganda. Nell’estate del 2023 ho viaggiato con il fotografo Alessandro Cosmelli per un mese lungo il fiume Volga per seimila chilometri. Matuška, lo chiamano, i russi: la piccola madre. Scorre dalle colline di Valdaj – tra San Pietroburgo e Mosca – alla terra dei ciuvasci, dei tatari, dei cosacchi, dei calmucchi, e ad Astrachan sfocia nel mar Caspio: dove l’Europa e l’Asia s’incontrano, o si separano, ponte o confine, a seconda di ciò che indica la bussola della storia. È qui che tutto è cominciato, che l’impero ha messo le sue radici: lungo il fiume si trovano molte delle città che hanno fondato la cultura e la fede russa, da Uljanovsk, la città natale di Lenin, a Stalingrado (oggi Volgograd), luogo della più grande battaglia della seconda guerra mondiale. Ed è questa la storia che pesa sull’identità russa di oggi, mentre il paese guarda indietro e si aggrappa al passato per alimentare il mito della sua grandezza. Sembra di nuovo pronto a resistere e a soffrire – una delle cose che ai russi sono sempre riuscite meglio –e appare rassegnato a un futuro d’isolamento, autoritarismo e forse anche autodistruzione.

Prima di cominciare la discesa lungo il fiume ho incontrato Michail Piotrovskij, direttore dell’Ermitage di San Pietroburgo, nel suo studio al piano terra del museo, dove si è ritagliato uno spazio tra pile di libri, scartoffie e opere ancora imballate. Le fotografie che affollano la stanza – e che lo ritraggono con eminenti leader occidentali: un sorridente Tony Blair, una mesta Angela Merkel – sembravano anch’esse reperti di un’altra epoca, quanto l’arazzo appartenuto a Caterina la Grande appeso sopra la sua scrivania. “Il Volga era tutto, ed è ancora tutto”, mi ha detto. “Perché ti fa aspirare alla grandezza. Offre una sorta d’intimità, di riparo sotto un cielo luminoso, non come gli ampi spazi della steppa o dei fiumi siberiani, che ti fanno sentire un puntino nel cosmo”. Piotrovskij è un illustre studioso di islam. Lo conosco da anni, ma finora avevamo sempre parlato del Canaletto, di Bisanzio, dei grandi esploratori arabi e dei suoi amati vini siciliani. Questa volta l’ho trovato in pieno fervore bellico. E non perché dovesse difendere la sua prestigiosa posizione: alla sua età, 79 anni, potrebbe tranquillamente tenere la testa bassa e andare avanti in silenzio, come ha scelto di fare la maggior parte dei russi. Ha parlato con la sua solita calma, ma sembrava febbricitante, come se qualcosa lo stesse divorando dall’interno. Il mite intellettuale Piotrovskij è diventato un guerriero. “La Russia è molti popoli, ma una sola nazione”, mi ha detto. “Lungo il Volga è stata in grado d’incorporare tutti. L’islam è una religione della tradizione e dell’identità russe quanto l’ortodossia cristiana. In Europa, in America, parlate sempre di multiculturalismo, ma le vostre città scoppiano d’odio. Noi, senza chiacchiere, abbiamo incluso tutti, perché siamo una civiltà imperiale”. Poi si è animato. “Guardate l’Ermitage!”, ha esclamato allargando le esili braccia e strabuzzando gli occhi. “È l’enciclopedia della cultura mondiale, ma è scritta in russo perché è la nostra interpretazione della storia del mondo. Può essere arrogante, ma è questo che siamo”. Ha fatto un respiro profondo, perché stava per parlare di Stalingrado, la sua Gerusalemme: “Non la chiamo Volgograd, ma Stalingrado. Oggi più che mai è il nostro punto di riferimento, un simbolo ineguagliabile di resistenza, il peggior incubo dei nostri nemici. Durante la grande guerra patriottica [come i russi chiamano la seconda guerra mondiale] lì si è difeso il Volga come corridoio vitale. Ed è stato lo stesso negli ultimi mesi. Il Volga e il Caspio alimentano il nostro commercio con l’Iran. Esportiamo petrolio in India e importiamo quel che ci serve, aggirando le sanzioni”. Si è tolto gli occhiali per pulirli con un lembo della giacca. “Stalingrado è totem e destino. Se i nazisti l’avessero presa, avrebbero tagliato il Volga e conquistato tutta la Russia. Materia che si è fatta spirito. Stalingrado è un monito. Chiunque ci provi farà la fine di tutti gli altri: gli svedesi, Napoleone, i tedeschi e i loro alleati”. Poi ha proseguito. “I russi sono come gli sciti: aspettano, soffrono, muoiono e poi uccidono”.

Khairutdinov mi dice che mi considera un nemico e che nessuno vuole parlare con me

Una porta sull’Iran

Nel corso del viaggio ho ripensato spesso a questo incontro; seguendo il fiume, ricordavo lo sguardo severo di Piotrovskij e sentivo l’eco delle sue parole. Quando ho visitato un allevamento di storioni ad Astrachan, sul delta del Volga, ho capito che aveva ragione. Olesja Sergeeva, la biologa alla guida dell’azienda, ha ribadito l’importanza del commercio con l’Iran. Nel suo piccolo – si fa per dire, perché Sergeeva fornisce il caviale anche al Cremlino – ha aggirato le sanzioni, acquistando mangime dall’Iran invece che dall’Europa. “Ormai tutto passa da qui”, ha detto. “Sul delta si stanno costruendo nuovi moli per i portacontainer e le petroliere”.

Sergeeva mi ha portato a visitare i quartieri ebraico, armeno e iraniano di Astrachan. All’esterno di un parco era stata allestita una mostra fotografica sui volontari civili che sostengono l’esercito. Al tramonto, l’elegante lungofiume era affollato di famiglie e gruppi di giovani che parlavano e ridevano in tono sommesso. Le coppie stavano sedute sul parapetto a mangiare anguria, i barconi-ristorante proiettavano luci multicolori sul fiume. L’atmosfera era in qualche modo un po’ fin de siècle, volute di fumo s’alzavano dalle griglie dove cuocevano gli šašlyk (spiedini alla brace), la brezza calda portava con sé il lamento d’un violino lontano.

Le facciate dei caffè e i balconi in ferro battuto ricordavano New Orleans. Sergeeva mi ha fatto notare i restauri in corso ovunque, i cantieri sul canale che attraversa la città vecchia, le ville ottocentesche in legno che diventeranno alberghi o residenze di lusso. “Erano destinate alla rovina”, ha detto. “Ma ora che i soldi girano, Astrachan è di nuovo la porta della Russia europea, dell’Asia centrale e dell’India. Per ora è così”.

Sul delta, che si estende a ventaglio per quasi cento chilometri prima di raggiungere il mar Caspio, coppie di caccia sfrecciavano a bassa quota. Ho cercato di dare un’occhiata alla dogana del porto commerciale, ma c’erano posti di blocco su ogni via d’accesso e il porto turistico era chiuso. Anche il traghetto non era più in servizio. Da lontano, tuttavia, s’intravedevano le gru del porto intente a caricare e scaricare merci, una decina di navi-cargo e tre chiatte in rada, dove il ramo principale del fiume è più largo. Lungo 101 chilometri, il canale Volga-Don fu costruito sotto Stalin con il lavoro di settantamila detenuti e inaugurato nel 1952. Fa parte della via d’acqua che collega il Volga a Rostov sul Don, da dove si può raggiungere la città ucraina di Mariupol, oggi occupata dai russi. A sud di Volgograd ho provato a percorrere una strada sterrata che portava all’imboccatura del canale, ma sono stato intimorito dalla presenza di un elicottero e mi sono accontentato di raccogliere delle dolcissime fragoline di bosco.

Ad Astrachan girava voce che l’Iran avesse investito un miliardo di dollari nello sviluppo del corridoio Caspio-Volga-Don. Si parlava di traffici di prodotti agricoli e petrolio, ma anche di turbine, pezzi di ricambio, componenti mediche e nucleari. Non ho potuto verificarlo, ma ormai è chiaro che Astrachan è uno snodo essenziale nella strategia del blocco economico antioccidentale che guarda a est.

Il pregiato caviale di Sergeeva è prodotto con un sistema di sua invenzione: estrae le uova dallo storione con una piccola incisione, senza ucciderlo. Sullo stesso pesce l’operazione può essere ripetuta per tre volte. Ha garantito che la produzione e la vendita del suo caviale sono ai livelli di prima della guerra. “In Russia non c’è festa senza caviale, anche nella situazione attuale”, ha affermato. Poi ha spiegato che da quando è stato vietato il prelievo di storioni selvatici nel Caspio, nella regione del Volga gli allevamenti sono proliferati, passando da tre a sessanta negli ultimi cinque anni. Sergeeva viaggiava molto e in Europa è conosciuta per il suo uso dell’acquacoltura. Potrebbe trovare lavoro ovunque. Quindi perché restare? “Sono nata qui, ho studiato qui, mio marito è russo, mio figlio è russo, io sono russa”, ha detto. “Non direi che sono una patriota, e non voglio esprimere il mio pensiero su Putin e sulla guerra. Ma posso assicurarvi che la mia vita non è cambiata. Non è cambiata per niente”. È arrossita, nell’imbarazzo di parlare di un argomento sconveniente. “I russi stanno reagendo alle sanzioni in modo straordinario, anche con il rublo debole e l’inflazione. I prezzi dei beni di prima necessità sono rimasti stabili. E oggi si consumano prodotti migliori e più sani di prima della guerra, dei formaggi eccezionali, per esempio”.

Il pane di Putin

Mai avrei immaginato che uno dei temi ricorrenti del mio viaggio sarebbe stato il cibo patriottico a chilometro zero. Ma sembra che lungo il bacino del Volga le sanzioni occidentali e l’economia di guerra abbiano innescato una sorta di movimento per la riscoperta della tradizione gastronomica russa. L’abitudine ai prodotti occidentali ha viziato il palato del russo medio metropolitano, che oggi compra camembert e prosciutto made in Russia. Una versione culinaria del russkij mir (mondo russo), l’idea putiniana della supremazia della civiltà russa. Sui menù dei ristoranti lungo il Volga è spesso indicato che i prodotti sono “del territorio”, con il nome dell’azienda produttrice. Si servono svekolnik e okroška, semplici zuppe fredde estive, per esaltare la qualità dei ravanelli locali, coltivati senza fertilizzanti occidentali.

A Rybinsk, nell’oblast di Jaroslavl, un tempo “pescheria dello zar”, non si pesca più; in compenso la città s’è reinventata come “forno di Mosca”. Ogni giorno i camion partono per la capitale carichi di pagnotte calde. Le panetterie sono ovunque e nella regione la coltivazione di grano e segale è aumentata del 40 per cento. Uno dei primi ad accendere un forno è stato Andrej Kovalev, 44 anni, che fino a tre anni fa non sapeva nemmeno come guadagnarselo il pane. “Ho imparato a usare la zakvaska, un lievito tradizionale”, mi racconta nel suo grande laboratorio sulla piazza Rossa di Rybinsk, dove dopo la rivoluzione d’ottobre la statua di Lenin sostituì quella di Alessandro II. Kovalev è la star del posto: offre assaggi ai passanti sfoggiando una barba infarinata, una casacca da mugico e ai piedi un paio di lapti, le antiche calzature fatte di rafia di betulla intrecciata. Aprire una panetteria per Kovalev è stato un atto politico, voleva contribuire a salvare i valori rurali russi “contro il consumismo scopiazzato dall’America”. “La gente disprezzava il pane russo”, dice. “Pensava che fosse roba da poveracci. Volevano le baguette, i signorini! Le mie sono vecchie ricette, di molto prima della perestrojka. Quando eravamo felici”.

Un tuffo in Unione Sovietica

Non fosse stato per quel gigantesco manifesto elettorale piazzato su un raro incrocio nella steppa, che mostrava Sergej Kazankov accanto a Lenin e Stalin, forse mi sarei perso il più surreale dei revival dell’Unione Sovietica. Usando una vpn per proteggere le mie ricerche online, apprendo che nel 2021 Kazankov è stato rieletto alla duma di stato (la camera bassa del parlamento) con i comunisti, che è stato colpito dalle sanzioni occidentali per aver sostenuto l’invasione dell’Ucraina e che suo padre, Ivan Kazankov, è stato a lungo un pezzo grosso del partito. Per un periodo Sergej ha diretto il kombinat agroalimentare Zvenigovskij, di proprietà del padre Ivan.

A questo punto del viaggio sto attraversando la repubblica autonoma dei mari, a circa 150 chilometri da Kazan, la capitale della repubblica del Tatarstan. Più precisamente mi trovo nel distretto di Zveni­govskij, che dà il nome all’azienda di Kazankov, nota nella regione come l’“ultimo sovkhoz”, cioè fattoria collettiva su larga scala. Mi basta fare una piccola deviazione, attraversare una distesa di girasoli e chiedere indicazioni a un distributore di benzina (“Quando vedi il monumento a Marx sei praticamente arrivato”) per arrivare all’edificio che, a prima vista, sembra una rievocazione del paese dei soviet. La bandiera rossa dell’Urss sventola sopra il complesso bianco e giallo. Secondo l’azienda è grande quanto quella ammainata al Cremlino il 25 dicembre 1991. Le pareti dello stabilimento sono ricoperte di scritte rosse con il punto esclamativo tanto caro ai bolscevichi: “Onore e gloria agli operai del kombinat Zvenigovskij!”; “Compagni, lottiamo per il nostro villaggio, lottiamo per la Russia!”; “Ora e per sempre, guerra al fascismo!”. Il viale che porta all’ingresso degli stabilimenti è abbellito dalle foto dei trenta stacanovisti premiati nel 2023, tra cui il miglior insaccatore, il miglior trattorista – un tale con baffi e maglietta Nike – e il miglior meccanico dell’anno. Camion e furgoni contrassegnati da falce e martello escono dai cancelli. Tutto sotto lo sguardo compiaciuto di Stalin, casacca e pantaloni da operaio infilati negli stivali, che saluta bonariamente dal suo piedistallo a quattro gradini. Un po’ a margine vigila accigliato Lenin, la mano infilata nel cappotto come Napoleone, pittato di color porporina, sistemato su soli due gradini e parzialmente coperto dalle fronde di una betulla. L’ingresso dell’edificio della direzione, una solida struttura modernista, è dominato dalla scritta Cccp (Sssr, cioè Urss in caratteri cirilici) in bronzo. Le guardie alla reception indossano la mimetica. Presto mi rendo conto che si tratta di una delle principali aziende agroalimentari della Russia, con una produzione di migliaia di tonnellate di carne e latticini all’anno. Fondato nel 1995, ben dopo la morte dell’Unione Sovietica, il kombinat si definisce un’impresa comunista-stalinista.

Ivan Kazankov ha 81 anni e uno sguardo grigio, da lupo. È alto e corpulento, un’ampia cravatta rossa adagiata sulla pancia. Mostra subito curiosità per la strana e non annunciata visita, e nessuna circospezione: si capisce che è un vero boss, uno che non risponde a nessuno, capo assoluto di questa Stalingrado agraria, del suo piccolo impero rurale sul Volga, paradossalmente ispirato al più grande sterminatore di contadini della storia. L’ufficio, d’altronde, sembra fatto apposta per disorientare chiunque speri di capire qualcosa della Russia del 2023: busti di Stalin accanto a icone ortodosse russe, un ritratto di Nicola II che incombe su una statuetta della Sojuz, una foto di Vladimir Putin appesa accanto a un’immagine di sant’Andrea, il santo patrono della Russia. Al caos di questo pantheon si aggiunge l’opacità intorno alla natura dell’azienda, che mi è stata presentata come “cooperativa agricola statale, esattamente come ai tempi dell’Urss”, ma che poi si scopre essere una privatissima holding di famiglia, alla cui guida il tovarišč (compagno) Ivan ha piazzato la figlia per sostituire il figlio, ormai deputato. “L’importante è che funzioni come prima”, spiega. “I profitti servono ad aumentare i salari dei quattromila dipendenti e a espandere l’azienda”.

Più tardi, a Kazan, mi raccontano che in mezzo alle rapine e alla corruzione degli anni novanta, quando i banditi più spregiudicati saccheggiavano le attrezzature industriali e militari sovietiche, anche Kazankov si è preso la sua modesta parte. Ha messo le mani su una fattoria in rovina e l’ha abilmente trasformata in questo colosso industriale, adattando il sistema produttivo del kombinat socialista al selvaggio mercato post-sovietico. L’oligarca delle salsicce Kazankov sa bene quanto i consumatori russi soffrano ancora per la perdita del collettivismo di stato.

Da allora, il suo patrimonio è diventato leggenda. E continua a crescere con l’economia di guerra. Perché Kazankov è un grande sostenitore delle sanzioni occidentali: “Sono uno strumento di sviluppo incredibile per la Russia”, dice. “L’occidente avrebbe dovuto imporle già negli anni novanta. Saremmo diventati la locomotiva del mondo. Peccato”. Per lui le sanzioni sono adrenalina pura. Si entusiasma nel raccontare come alla Zveni­govskij hanno copiato perfettamente i “mezzi di produzione” italiani, tedeschi e israeliani: “Abbiamo raddoppiato le linee in un anno e riforniamo quasi mille supermercati in tutta la Russia”. Ivan ritiene che la sua “azienda comunista a ciclo integrato” sia il modello ideale per “ricostruire una nuova Unione Sovietica con cibo sano e locale proveniente dalla nostra terra”.

Mi mostra una stalla appena inaugurata, a una decina di chilometri di distanza, dove ha riprodotto gli impianti di mungitura israeliani. Le mandrie pascolano in ampie radure ben delimitate. Il suo autista ci porta in giro con una Mercedes blindata nuova di zecca importata dal Kirghizistan, una delle vie preferite dal contrabbando tedesco. Per l’escursione, Kazankov indossa un cappellino da baseball con la scritta Cccp cucita sul davanti e la falce e martello ai lati. Mi confida che sta pensando di marchiare anche le mucche allo stesso modo. “Alleviamo mucche da latte e maiali, fino al confezionamento del prodotto finito, carne, formaggi, kefir”, spiega osservando il suo regno dai finestrini oscurati dell’auto. “Perfino gelati, buoni come quelli della mia infanzia. Gorbačëv e Eltsin avevano rovinato anche i gelati, vigliacchi”.

La guerra in Ucraina ha fruttato una montagna di rubli al compagno presidente. “La produzione di formaggio è aumentata dell’80 per cento”, dice. “Sostituiamo i formaggi francesi e italiani. Continuiamo a comprare, siamo a 120mila frisone”. Gli chiedo della guerra. “Ovviamente vinceremo”, ha risposto, “perché sappiamo come combattere e perché non possiamo perdere. Se necessario useremo armi atomiche, distruggeremo la terra, distruggeremo tutto”.

Il Volga vicino a Kostroma, Russia, luglio 2023 (Alessandro Cosmelli)

Produrre o comprare

Arrivato a Kazan, mi invita a pranzo Farid Khairutdinov, un imprenditore tataro di 48 anni che mi è stato descritto come una “figura molto importante in città”. Ci siamo scambiati messaggi attraverso un canale criptato, e ha promesso di procurarmi incontri interessanti. Quando arrivo alla Tatarskaja usadba, un famoso ristorante locale, lo trovo ad aspettarmi in una stanza privata con Mansur Hazrat Jalaletdinov, il mullah della moschea Al Marjani, l’unica attiva a Kazan prima del 1990. Da allora ne sono sorte circa cento. Khairutdinov mi informa che la settimana precedente, allo stesso tavolo, c’era Dmitrij Medvedev, ex primo ministro e presidente russo, oggi vicepresidente del consiglio di sicurezza della Federazione Russa. Dopo una lunga premessa mi fa sapere che mi considera “un nemico” e che nessuno vuole incontrarmi o rispondere alle mie domande. Farei meglio a visitare un museo, aggiunge. Poi mi ricorda che ha prestato servizio nell’Fsb, i servizi segreti russi. Il mullah annuisce, evidentemente soddisfatto. Detto questo, per mostrarmi l’ospitalità tataro-russa, mi offrono un pranzo indimenticabile: dodici portate e tre ore di conversazione tanto assurda quanto istruttiva. Sostengono che nella lingua tatara non esiste la parola “ritirata”; che i tatari erano i migliori arcieri di Pietro il grande; e che Michail Kutuzov, il generale che sconfisse Napoleone, era un tataro. Gli faccio notare che Kutuzov era stato il militare che aveva abbattuto la resistenza tatara in Crimea alla fine del settecento.

“In effetti perse un occhio”, replica Khairutdinov, e il mullah annuisce. “Ci piace fare la guerra. Dico bene, Mansur?”.

“È vero”, risponde il mullah. “Combattiamo anche contro i nostri demoni”.

Speravo di approfondire il tema, ma Khairutdinov cambia discorso: “Le sanzioni ci hanno uniti ancora di più”.

Pavel faceva il tassista e si era indebitato. Una sera si è ubriacato e si è arruolato

Quando arriva l’agnello allo spiedo, Khairutdinov dice che prima della guerra avrei mangiato “dell’agnello di merda della Nuova Zelanda”, ma che invece questa carne, tenera e saporita, è russa. Non solo: fino a ieri l’agnello che ci stanno servendo pascolava a pochi chilometri di distanza. L’ha allevato lui stesso, sostiene. È un produttore di carne biologica, agnelli e oche, con negozi in tutto il Tatarstan. “Non c’è concorrenza, è fantastico. Pensa che importavamo le oche dalla Romania e dalla Francia. I miei cosciotti e il prosciutto d’oca ora li esporto anche in Turchia”.

Chiedo perché non allevassero agnelli e oche anche prima della guerra, anzi perché la Russia producesse così poco e importasse quasi tutto, senza generare ricchezza che non fosse quella derivante dal petrolio e dal gas. Il mullah mi guarda negli occhi e mi dice che proprio qui stava il genio russo: “Comprare senza produrre”, spiega. “Perché dovrei produrre una bicicletta se posso semplicemente comprarla? Spendo meno. Semplice”.

L’eterno conflitto

Più di trent’anni fa raccontai la prima estate del conflitto in Jugoslavia dalle spiagge del paese, che stava andando in pezzi. Ricordo un’orchestra di anziani musicisti che suonava un foxtrot solo per me, unico ospite di un grande albergo sull’isola di Rab. In quel momento i mortai sparavano e la gente moriva a pochi chilometri dalla costa dalmata. Qui, lungo il Volga, la guerra e la morte sembrano presenze spettrali. La gente balla la techno e si concede cocktail dai nomi improbabili: Hiroshima, guerra russo-giapponese, tedesco ubriaco. In quasi un mese di viaggio ho visto solo quattro bombardieri: volavano sopra Tver, vicino alla sorgente del Volga. Ho sentito il rombo dei caccia solo una volta, nel basso corso del fiume. Ho incontrato alcuni soldati disarmati in licenza, e ho visto una colonna di venti camion che trasportavano carri armati coperti da teloni, diretti probabilmente al fronte, a centinaia di chilometri di distanza. Per il resto, la solita Russia. Almeno in apparenza. Anzi, una Russia insolitamente dinamica. Ho visto cantieri e gru in attività nelle periferie delle città, restauri di palazzi e chiese nei centri storici, imponenti lavori in corso sulle strade federali, ruspe e operai all’opera nell’interramento di nuove condotte, squadre di giardinieri nei parchi, netturbini diligenti e cestini dei rifiuti sempre vuoti. Mi sono imbattuto nelle code estenuanti dei weekend, quando i russi – cascasse il mondo – vanno nelle case di campagna.

Fatalismo? Indifferenza? O arroganza, come aveva insinuato Piotrovskij all’Ermitage? Ho faticato a trovare posto negli alberghi o sui traghetti, tutti sovraccarichi di turisti costretti a rinunciare al Mediterraneo e ad accontentarsi del Volga. Come Tatiana, la manager di mezza età di una catena di supermercati. Quando l’ho incontrata, su un traghetto a Jaroslavl, indossava un cappello panama, occhiali da sole Gucci e sandali capresi; stava andando a sud, verso la dacia dove passava le estati da ragazza. “Ho una barca a Mykonos, chissà quando la rivedrò”, mi ha detto. “Sto imparando a conoscere di nuovo il mio fiume. Incontro amici che non vedevo da trent’anni. Una vacanza interessante”. Le ho detto che sembrava un po’ triste e rassegnata. “I russi sono stati tristi e rassegnati per millenni”, ha risposto. “È così che resistiamo. Sono contraria a questa guerra, ma non posso fare altro che aspettare, come tutti. Ci manipolano con idee artificiali. Spazzatura. Ma anche l’occidente ci umilia da troppi anni, avremo pure il diritto di essere ciò che vogliamo senza doverci sentire dei barbari, o no?”.

Pensare che le idee antioccidentali che scorrono nelle vene del paese siano semplicemente il frutto dell’indottrinamento del regime sarebbe sopravvalutare Putin e ignorare ciò che ha guidato la Russia nel corso della sua storia, almeno dai tempi di Pietro il grande: l’attrazione, se non l’invidia, per l’occidente – quello di Voltaire o quello di Hollywood – e allo stesso tempo la difesa orgogliosa, superba, prepotente della propria diversità. I russi hanno sempre alternato il desiderio di essere inclusi alla paura di essere contaminati e corrotti. Dal complesso d’inferiorità a quello di superiorità. Un conflitto di civiltà lacerante esemplificato dallo scontro intellettuale tra il filoliberale Ivan Turgenev e l’identitario e slavofilo Fëdor Dostoevskij. Purtroppo oggi non si vola a quei livelli, anzi non esiste nemmeno un dibattito, forse ancora meno che ai tempi dell’Unione Sovietica. Ma è chiaro che i russi sono nella loro fase Dostoevskij: sta riemergendo dal sottosuolo, anche in chi rifiuta il revanscismo neoimperiale di Putin e della chiesa ortodossa, la voglia di chiudersi nel proprio piccolo, ma sconfinato mondo.

Anna, per esempio, è una giovane donna che si definisce “antisistema, pacifista, pagano-ambientalista” e afferma che “oggi ci fanno essere degli zombi per spedirci a uccidere i nostri fratelli”. Eppure difende i “valori della famiglia” e “l’amore per gli antenati”. La sua priorità, spiega, è “preservare la tradizione russa”. Rifiuta “la moderna cultura occidentale dove tutto è lecito, facile e divertente”. Si spinge a dire che oggi sono quelli come lei, “quelli che tengono la vecchia Russia nel cuore, a custodire le radici europee del paese”.

I suoi capelli sono lunghi e biondi come il grano, i suoi occhi verde smeraldo, indossa collane etniche e un lungo abito color giada. Ha 34 anni e vive nella “Giamaica del Volga”, ai piedi dei monti Žiguli, che si tuffano nel fiume creando effetti botanici meravigliosi, come l’abbondante crescita di marijuana selvatica. Per la raccolta arrivano volontari da tutta la Russia. “Feste memorabili”, racconta Anna. “Ma ora che il governo ha praticamente vietato i raduni non ufficiali, è come essere in prigione”. Mi racconta di essere una guaritrice sciamanica, ma ufficialmente fa l’infermiera. Il suo compagno suona il cosiddetto Volga dub, una sorta di reggae che è la colonna sonora dei pirati del fiume.

Per raggiungere il loro covo, sull’isola segreta, partiamo dopo il tramonto su una zattera a motore costruita con pallet e tavole da surf. Siamo ospiti di Shukhrat e Albert: hanno fuso i loro nomi per chiamare l’isola Shubert. La loro amicizia è scoppiata insieme alla guerra, Shukhrat ha perso un figlio, Albert ha spedito il suo in Svezia. Non accettavano più la realtà e hanno deciso d’abbandonarla, occupando una striscia di sabbia emersa in primavera nel mezzo dell’immenso Volga. Pian piano sono stati raggiunti da altri fuggiaschi che si sono accampati con le famiglie. Ne è nata una comunità indipendente con le sue regole, prima tra tutte non seguire le notizie. Meditano, organizzano incontri e corsi di yoga. Cantano canzoni reggae contro la guerra, usano solo strumenti tradizionali, come balalaika, domra e bayan. Ogni venerdì sera arrivano amici e musicisti da Kazan, Samara, Togliatti e va in scena una piccola Woodstock. “Non è una fuga dal mondo”, dice Albert, ex ingegnere di sistemi di sicurezza, “ma la creazione di un mondo separato. Questa ora è la nostra patria, basata sui veri valori russi. Là fuori tutto era spaventoso”.

L’isolamento nell’isola di Shubert non è riuscito a lenire i suoi tormenti. Albert aveva intrecciato un rapporto speciale con due youtuber ucraini, e aveva in programma di andare a trovarli in moto nel Donbass, proprio nel febbraio 2022. “Poi quel giorno maledetto mi hanno lasciato dei messaggi vocali, mi chiedevano se ero loro nemico e perché li stavamo bombardando e ammazzando”, mi confida. “Ancora non so perché siamo finiti dall’altra parte, è terribile. Posso solo piangere, ma mia madre mi diceva che i ragazzi non devono piangere”. Quelle sulle guance di Albert sono le uniche lacrime che vedo durante il mio viaggio.

Un uomo rispettato

Un venerdì sera mi ritrovo a Nižnij Novgorod, la città di Maksim Gorkij, sul viale principale, sotto il famoso Cremlino locale, travolto da un ciclone di giovani ubriachi. I locali traboccano di gente e si balla fin sui marciapiedi, con i drink in mano. La facciata di un edificio di sei piani è ricoperta dalla lettera Z, simbolo del sostegno alla guerra in Ucraina. Sono in compagnia di Artëm Fomenkov, storico e professore di scienze politiche. Gli chiedo come giudica l’inquietante contrasto tra i ragazzi della movida e i loro coetanei inviati al fronte. “Quelli che combattono non vengono dalle grandi città, ma dai piccoli centri. Dalle periferie più miserabili, dove si arruolano solo per denaro”, mi spiega. “È improbabile che la maggior parte della popolazione urbana si senta direttamente colpita dalla guerra”. Poi riflette un attimo e aggiunge: “Ed è per questo che continuano a vivere così. Non sono coinvolti e quindi fanno la stessa cosa che facevano due anni fa, cento anni fa, duecento anni fa: macerare in un miscela di nostalgia, malinconia e disperazione. Putin è solo l’ultimo a sfruttare questa passività”, continua. “Ricorda: i russi sono responsabili del loro destino, non vittime”.

Basta allontanarsi di duecento metri dalla baraonda per sbattere il muso contro la realtà. In città la via Ošarskaja è ancora chiamata bordel, perché era la via della prostituzione ai tempi di Gorkij. Nello stesso stabile oggi hanno sede l’Fsb e la polizia militare. Chiunque finisca trascinato da queste parti di notte ha un’alta probabilità di essere mandato in un campo di addestramento e poi al fronte. “I ragazzi che avete visto in realtà sono terrorizzati, bevono molto più di prima”, dice Fomenkov. “Sanno bene che non devono farsi trovare in certe zone soli, ubriachi, senza un alibi sicuro o almeno un cognome importante”.

Il giorno dopo mi ritrovo in una strada senza nome, nel soggiorno di un’izba (piccola casa tradizionale russa) dipinta di celeste e circondata da galline scheletriche e carcasse d’auto che fungono da pollai. Era la casa di Pavel, morto nel Donbass nell’autunno 2022, quaranta giorni dopo essersi arruolato. La figlia Zarina, diciott’anni, è incinta e mi guarda con occhi stupefatti, verdi e gialli come l’erba della steppa. È seduta su un divano bordeaux accanto a sua madre Valentina, minuta e provata. Mi raccontano che Pavel faceva il tassista e si era indebitato. Una sera era tornato a casa ubriaco e aveva detto di essersi arruolato. Aveva mostrato a Valentina il contratto, poco più di duecentomila rubli al mese (circa duemila euro). Guidare un taxi gliene fruttava al massimo quarantamila, alcuni mesi quasi niente. Il soffitto della casa è basso, un grande cielo blu di plexiglass con le nuvole. Alle pareti sono appese le foto dei bambini: in una nuotano nel Volga con il padre. Poi c’è Pavel, raggiante con il suo nuovo decespugliatore. “Era un uomo buono, rispettato”, dice Valentina. “Non potevo fermarlo. L’ha fatto per i suoi tre figli, per pagare il mutuo”. Dieci giorni di addestramento ed è partito. Sembra sia saltato su una mina. “L’hanno mandato avanti per controllare il terreno. Ma non lo sapremo mai”, dice Zarina, mordendosi le labbra.

Il Volga vicino a Volgograd, Russia, luglio 2023  (Alessandro Cosmelli)

Poi sono arrivati due ufficiali del distretto militare a consegnare la lettera prestampata di Putin, la medaglia e tutto il resto. Valentina mi assicura che la gente è stata solidale, anche i vicini con cui non parlava da anni sono venuti con focacce e vodka. Lei e Pavel si amavano, racconta, ma non si erano mai sposati. Valentina ha fatto causa alla madre di lui per ottenere i milioni di rubli con cui lo stato risarcisce le vite dei caduti ai legittimi eredi. “Cosa pensava? Pavel aveva le sue idee. Diceva che era ora di fargliela vedere a quelli che avevano abbandonato l’Unione Sovietica. Ma è partito solo per fare due soldi, in fondo era un mercenario, no?”.

Nell’angolo, vicino allo stereo e ai cd, le luci rischiarano un piccolo memoriale sormontato dal tricolore russo: ci sono la fisarmonica di Pavel, il suo cappello di paglia per le feste zigane, girasoli finti, immagini della Madonna a cui era devoto, i peluche che ancora regalava a Zarina. E poi, sorridente come lo zio bonaccione di famiglia, Stalin. “Il suo adorato Stalin”, dice Valentina.

Anima asiatica

Eccola la vera icona dell’estate russa: Stalin, il Che Guevara della “generazione Z”. Lenin avrà pure più statue di tutti, settemila solo in Russia, ma non è più il suo braccio a indicare l’avvenire. Stalin, invece, sta vivendo una seconda giovinezza, il suo nome ricorre come un mantra. C’è perfino una marca di salsicce che porta il suo nome. Il suo più grande sponsor è Putin: nominandolo, il presidente sa di toccare la corda magica che risveglia sogni di gloria covati in segreto da un paio di generazioni. “Putin non si paragona a Lenin”, afferma lo storico Dmitrij Rusin. “Troppo cerebrale e complesso per questi tempi di facili approssimazioni. E troppo europeo”. Rusin è professore all’università statale di Uljanovsk. Nel 1970 hanno costruito un enorme monumento a Lenin nel centro della sua città di origine. “Putin, invece, ama essere affiancato alla figura di Stalin, così come Stalin associava la sua spietata idea del potere russo a quella di Ivan il terribile”, mi racconta Rusin mentre ci avviciniamo al monumento. “Un’idea non europea, ma piuttosto asiatica, che non tiene in nessuna considerazione la vita dell’individuo. Questo ritorno del culto di Stalin, soprattutto tra i giovani, m’inorridisce. Sento la catastrofe arrivare”. La fontana davanti al memoriale è asciutta. “Il complesso l’hanno chiuso per restauri cinque anni fa”, dice il professore. “Doveva riaprire nel 2020, ora parlano del 2025. Ma da Mosca non arrivano i fondi. Vogliono impoverire Uljanovsk”.

Volgograd è un’altra storia. Putin vuole ripristinare il vecchio nome di Stalingrado per meglio strumentalizzare il simbolo della battaglia con cui Stalin cambiò le sorti della seconda guerra mondiale. “Siamo di nuovo minacciati dai carri armati tedeschi”, ha detto il presidente nel febbraio 2023, inaugurando un nuovo monumento a Stalin nel museo dedicato ai duecento giorni dell’assedio, in cui morì un milione di soldati sovietici e tedeschi. “Ancora una volta siamo chiamati a respingere l’aggressione dell’occidente”.

“I russi sono come gli sciti: aspettano, soffrono, muoiono e poi uccidono”

Tuttavia è Samara, cinquecento chilometri a nord di Volgograd, il luogo dove il fantasma di Stalin ci fa capire quanto poco conosciamo la Russia. Il suo monumento si trova nel punto in cui il Volga piega prepotentemente verso oriente, quasi attirato dagli Urali. La città è conosciuta come la Chicago russa, per la sua grande vitalità industriale, culla di mercanti e gangster. Ma in estate Samara diventa la Saint-Tropez del Volga, con spiagge eleganti e il mondano passeggio sul lungofiume, secondo solo a quello di Soči. E, proprio come Soči, è meta dei putiniani di più stretta osservanza. Sui monopattini circolano ragazzini e ragazzine borghesi con costose sneakers americane e la maglietta oggi più di moda, quella con il faccione di Stalin: “Ci fossi io non ci sarebbe tutta questa merda”, c’è scritto sopra.

Fatto costruire dal dittatore nel 1942 sotto il vecchio palazzo del partito a Samara, quando i nazisti erano alle porte di Mosca, il bunker locale è diventato meta di pellegrinaggio anche per le scuole. Nel mio turno oltre la metà sono giovani sui vent’anni. Scendiamo fino a 37 metri sottoterra, dove furono attrezzati l’appartamento per il leader sovietico e la sala operativa d’emergenza. L’appartamento non è mai stato usato, ma la guida spiega che è stato risistemato ai tempi della crisi di Cuba e anche dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Oggi può ospitare fino a seicento persone per cinque giorni. E dentro “prende pure il cellulare”. Andrej, ingegnere elettronico di 24 anni, arrivato da Mosca insieme a tre amici, mi confida che secondo lui “Stalin era un vincente”. Siamo davanti a una mappa militare originale della controffensiva sovietica. “Per noi giovani, Stalin è il numero uno. Dobbiamo combattere il male come durante la grande guerra patriottica. Aspetti negativi? Si dicono tante cose, ma l’importante sono i risultati”, dice. “Credo che ci siano stati più morti negli anni novanta con le guerre tra criminali e l’alcol. Quella è stata la nostra prima esperienza di democrazia: il periodo peggiore della nostra storia”.

Nella seconda estate della “guerra contro il male”, come l’ha definita Andrej, addirittura i pope d’assalto sono indulgenti con Stalin, che confiscò i beni della chiesa ortodossa e trasformò molte cattedrali in prigioni, fabbriche e caserme. Era stato Piotrovskij, all’Ermitage, a suggerirmi d’incontrare un giovane sacerdote di nome Michail Rodin, “una delle voci emergenti”, della chiesa russa. “Vive a Balakovo”, mi aveva detto Piotrovskij, “un posto dimenticato da Dio”.

Rodin, che ha 44 anni e quattro figli, appartiene alla chiesa dei vecchi credenti, nata nel seicento da uno scisma causato da controversie rituali e liturgiche con la chiesa ortodossa ufficiale. Una lunga storia di repressioni e clandestinità. Ma oggi la conflittualità con la chiesa governata dal patriarca Kirill sembra essere rientrata, grazie alla piena sintonia sul sostegno all’invasione dell’Ucraina e alla sacra missione della Russia nel nome di dio.

In alto da sinistra in senso orario: il prete ortodosso Michail Rodin. Zarina, figlia di Pavel, che si è arruolato ed è morto in guerra. Il professor Dmitrij Rusin. Monica, cameriera alla mensa del kombinat Zvenigovskij. (Alessandro Cosmelli)

Credere e morire

Arrivo a Balakovo di sera, nell’aria c’è odore di ammoniaca. In città tutto gira intorno a due delle più grandi centrali elettriche del Volga, ma le strade sono buie. L’unico segno di vita proviene dal Lucky pub, che ospita un concerto dei Kiss, una rock band locale con un certo seguito: i ragazzi del pubblico cantano a memoria le loro canzoni. Sembra di stare in pieno Midwest; ci sono tavoli da biliardo, freccette, patatine fritte in cestini con carta a quadretti, e un cartello con la scritta luminosa “No war here”.

Rodin, che parla un ottimo inglese, mi dice che la sua chiesa – una casetta con tronchi di pino rosso profumato, il forno per il pane dell’eucarestia e icone preziosissime, collocata però nello squallido quartiere industriale della città – è stata finanziata da un certo Robert Stubblebine, uno statunitense che si è trasferito a Mosca. Stubblebine è vicepresidente e primo azionista di Yandex, il Google russo, lanciato dal suo socio d’affari Arkadij Volož, un oligarca che ha definito la guerra “barbara” (probabilmente nel tentativo, non riuscito, di essere depennato dalla lista dei miliardari colpiti dalla sanzioni).

Rodin ha altre idee: “La guerra è l’ultima possibilità di salvezza per l’anima dell’uomo”, dice con un sorriso serafico. “Già nel libro dell’Apocalisse, Giovanni il teologo scriveva degli ultimi momenti della razza umana, quando ognuno dovrà scegliere il proprio cammino: stare con Dio o andare incontro a dolori e sofferenze eterne”. Il suo tono non cambia quando gli chiedo della rinnovata popolarità di Stalin. “Non voglio giudicare, perché Dio non può essere rimosso dal cuore dei russi”, risponde. “Ma nessuno chiede aiuto a Stalin o al partito. Tutti invocano Dio!”.

Conosco abbastanza bene i preti russi, tendono a essere bruschi e sussiegosi. Rodin è diverso, moderno e arcaico allo stesso tempo. Usa i social e ha modi da medioevo. Ha girato il mondo, ma per lui non esiste che la Russia. Gli chiedo cosa significhi essere russi. “Siamo influenzati dagli spazi immensi pieni di nulla, e dal clima duro”, dice. “In una terra così bisogna avere un obiettivo, un sogno. Noi russi abbiamo bisogno di avere qualcosa di grande a cui tendere. Sognavamo il comunismo, l’uguaglianza e una vita in cui nessuno fosse sfruttato da nessuno. Ogni persona uguale all’altra”. Poi prosegue: “Se i russi credono in qualcosa, ci credono fino alla fine. Credono in Dio, e sono pronti a morire per la fede. Credono nel comunismo, e sono pronti a morire per il comunismo. Credono nella Russia, e sono pronti a immolarsi per la Russia”.

Anche a usare la bomba atomica, batjuška (padre in russo)?

“Certo che sì”, risponde secco. “Siamo pronti a sacrificarci. Perché se non vinciamo, bruceremo tutto. Se non otteniamo questo futuro luminoso allora che senso ha vivere?”. A questo punto Rudin ha gli occhi infuocati. “Il nostro presidente sta dicendo quello che tutti pensano. Se non abbiamo la Russia che vogliamo, siamo pronti al martirio, a sacrificare noi stessi e il mondo intero, se è ingiusto e malvagio. Non c’è bisogno di un mondo così”.

Sono di nuovo in strada quando mi accorgo che Albert mi ha mandato un messaggio dall’isola di Shubert. Un reggae in inglese, appena composto: “Al tramonto il Volga è immerso in una luce pura; al mio cuore succede lo stesso, quando è illuminato dall’amore”. ◆

Questo reportage è stato realizzato con il sostegno del Pulitzer center on crisis reporting di Washington.

Marzio G. Mian è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Guerra bianca. Sul fronte artico del conflitto mondiale (Neri Pozza 2022).
Alessandro Cosmelli è un fotografo documentarista italiano. Il suo ultimo libro è Havana buzz (Damiani 2017), realizzato con la fotografa Gaia Light.

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati