13 novembre 2014 15:49

La scena doveva essere divertente: Piper Chapman, la protagonista della serie Orange is the new black, arriva nella sua nuova dimora, un carcere dello stato di New York. Piper è troppo bianca, bionda, di classe media, e in quell’ambiente sembra caduta da un altro pianeta, come conferma quando dice a una guardia che le scarpe della sua uniforme da detenuta sembrano le Toms.

“Chi è Tom?”, chiede la guardia, completamente all’oscuro.

“Sono scarpe. Quando ne compri un paio l’azienda ne regala un altro a un bambino che ne ha bisogno. Sono ottime, le fanno di diversi colori e…”.

Forse Toms ha pagato per questa citazione che lo consacra, o forse è stata solo una strizzatina d’occhio. In ogni caso, non si potrebbe chiedere di più in questo mondo pop: la gloria di essersi guadagnato un profilo sociale, e che qualcuno lo dica in televisione. Blake Mycoskie ha trionfato nella vita.

Gli ci è voluto un po’. Mycoskie è nato in un sobborgo di Dallas nel 1976, ma non voleva restarci. Quando un infortunio ha infranto i suoi sogni di tennista ha provato ad aprire due o tre attività (una lavanderia per studenti, un’azienda di cartellonistica) prima di lanciarsi nella versione moderna dell’avventura: The amazing race, un reality show che nel 2002 l’ha portato in Argentina, dove tra tanti esotismi ha visto anche giocatori di polo in scarpe di tela e ragazzini scalzi. Al suo rientro a Los Angeles ha trovato i soldi per aprire un canale via cavo dedicato ai reality, lanciato due anni dopo. È stato allora che ha rispolverato il suo satori dimenticato: quei ragazzi, quelle scarpe.

Nel 2006 Mycoskie ha fondato la Toms: avrebbe venduto scarpe di tela usando la bandiera argentina come marchio e per ogni paio venduto ne avrebbe regalato un altro a un bambino povero, di quelli che vanno in giro scalzi. In questo mondo in preda a leggeri sensi di colpa sembrava un’idea redditizia, che però doveva essere divulgata. Gli affari languivano fino a quando il Los Angeles Times ne ha parlato sulle sue pagine. Il meccanismo ha richiamato l’attenzione – e la carità, la coscienza sporca o la morbosità – dei lettori, e da allora le vendite sono aumentate vertiginosamente: a volte, il risvolto migliore di una donazione è che fa guadagnare molto. L’anno scorso Toms ha festeggiato i dieci milioni di paia donate. Se la sua pubblicità dice il vero, significa che ne ha venduti altri dieci milioni.

Mycoskie dev’essere felice: grazie al suo marketing della carità riesce a vendere a cinquanta o sessanta euro delle scarpe che in qualsiasi negozio di Buenos Aires costano tre o quattro euro, e che al massimo gliene costeranno uno o due nelle sue fabbriche in Argentina, Cina ed Etiopia.

Oltre che fondatore dell’impresa, è responsabile delle donazioni. È ancora un ragazzo abbronzato e attraente, così smaccatamente californiano da passare buona parte del suo tempo su uno yacht attraccato a Marina del Rey, a giocare a golf, a pescare a mosca, a gestire la sua azienda e a fare conferenze in cui spiega, per esempio, che “se comprate un paio di Toms e non vi sentite parte di una comunità, vuol dire che abbiamo fallito”.

A me fa impressione vedere la bandiera celeste e bianca su ogni scarpa. Le alpargatas con la suola di gomma e la tomaia di tela, che io indosso sempre, in effetti sono un simbolo argentino. Settant’anni fa il populismo peronista si convinse di dover opporre la povertà onesta alla disonestà della cultura e coniò uno slogan che diventò famoso: “alpargatas sì, libri no”. Adesso Toms dice alpargatas sì, soldi sì, coscienza a posto anche. O, detto in altre parole: è possibile aiutare i poveri senza per questo smettere di essere ricchi e molto cool. Le signore della parrocchia lo sapevano già, ma non sono mai riuscite a renderlo così redditizio.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it