Se fosse un film, il lancio di Prima che mi sfugga sarebbe semplice. Un fratello e una sorella s’incontrano al capezzale del padre che ha sempre suscitato in loro sentimenti ambivalenti. Affrontano il percorso tristemente banale dell’ospedale e delle sue bugie. Poi devono occuparsi del funerale e sistemare la sua casa. È un’occasione per far risorgere i ricordi contrastanti di un uomo enigmatico. Ma poiché si tratta di un libro e la protagonista si chiama Anne Pauly, come l’autrice, il rapporto con la realtà è un po’ diverso. Così, nel corso dei ricordi, questo padre “fine ma maldestro, gentile ma brutale, generoso ma egocentrico”, appare alternativamente agli occhi dei figli e del lettore come uno studioso innamorato del buddismo o un alcolizzato che picchia la moglie. Anne, una “lesbica di sinistra” e un’orfana addolorata, lo descrive per mezzo di ossimori – “un mostro accattivante”, “un orco timido” – come se non potesse decidere quale sentimento debba prevalere. Ma la questione assillante rimane quella di trovare un senso in questa “accozzaglia di niente” lasciata dal padre alla posterità. Le liste vertiginose di oggetti da ordinare, buttare via, conservare – una protesi di gamba, vecchie analisi mediche, una collezione di batterie usate, un panciotto – ci fanno sentire il vuoto opprimente della vita quotidiana e rimandano ognuno di noi al proprio inventario tragicomico. Quale valore, quale significato si può dare a questa accozzaglia di oggetti, ricordi e impressioni tra il banale e il sublime?
Camille Laurens, Le Monde

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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati