Scegliete un ricordo. Può essere recente, come la colazione che avete fatto stamattina, o lontano, come il primo giorno d’asilo. L’importante è che riusciate a visualizzarlo. Tenete l’immagine nella mente. Ora pensateci: vedete la scena attraverso i vostri occhi, come nel momento in cui si è svolta? O vi vedete al suo interno, come se osservaste il personaggio di un film? In altre parole, la guardate in prima o in terza persona? Di solito associamo questo tipo di distinzione alla narrazione. Ma, proprio come una storia, ogni ricordo visivo ha una sua prospettiva intrinseca. Vedere implica un punto d’osservazione. E a volte, nel ricordo, quel punto non è il luogo in cui ci si trovava in quell’istante.

Questo fatto è strano, perfino inquietante. Stride con la nostra idea della memoria come semplice registrazione dell’esperienza. Per molto tempo gli psicologi e i neuroscienziati hanno prestato poca attenzione al fenomeno. Ma qualcosa è cambiato negli ultimi anni: con il moltiplicarsi delle ricerche sulla funzione della prospettiva, si sono moltiplicate anche quelle sulle sue potenziali implicazioni. È emerso che la prospettiva nella memoria è importante per la giustizia penale, i pregiudizi impliciti e il disturbo da stress post-traumatico. A un livello più profondo, ci aiuta a dare un senso a chi siamo.

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La distinzione tra ricordi in prima e terza persona risale almeno a Sigmund Freud, che ne parlò verso la fine dell’ottocento. Ci vollero ottant’anni, però, perché degli studi empirici cominciassero a definire le specificità della prospettiva all’interno dei ricordi. Ed è solo negli anni duemila che il settore ha preso piede. Da questi studi si è capito che i ricordi in terza persona sono molto meno rari di quanto si pensasse. Il fenomeno è associato a diversi disturbi mentali, come la depressione, l’ansia e la schizofrenia. Ma in realtà non è solo il sintomo di una patologia: è abbastanza diffuso anche tra le persone sane.

È difficile quantificare quanto sia comune. Peggy St. Jacques, docente di psicologia all’università canadese di Alberta che studia la prospettiva nella memoria, mi ha detto che circa il 90 per cento degli individui riferisce di avere almeno un ricordo in terza persona. Sulla base delle sue ricerche, St. Jacques stima che mediamente circa un quarto dei nostri ricordi degli ultimi cinque anni sia in terza persona. Almeno un paio di ricerche hanno rilevato che le donne tendono ad avere più ricordi in terza persona rispetto agli uomini, ma un altro studio non ha evidenziato alcuna differenza statisticamente significativa. La ricerca sulle possibili disparità demografiche è nel complesso scarsa. In rari casi, c’è chi ha solo ricordi in terza persona.

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Se cercate di richiamare alla mente i vostri, sappiate che le cose possono farsi subito confuse. Forse riuscite a ricordare scene di quando eravate molto piccoli che immaginate in terza persona. Ma è faticoso capire se si tratti di memorie autentiche tradotte dalla prima alla terza persona o di scene in terza persona costruite a partire da racconti o fotografie. Per alcuni i ricordi in terza persona sono naturali, ad altri sembrano fantascienza.

Il motivo per cui un determinato ricordo è rievocato da una prospettiva piuttosto che dall’altra è il risultato di un insieme di fattori. St. Jacques mi ha spiegato che è più probabile che le persone ricordino in terza persona le esperienze in cui si sono sentite ansiose o impacciate, per esempio durante una presentazione in pubblico. È sensato: se c’immaginiamo attraverso gli occhi del pubblico in quell’occasione, è più probabile vederci attraverso i loro occhi al momento del ricordo. I ricercatori hanno riscontrato ripetutamente che più un ricordo è lontano, più è probabile che lo si rievochi in terza persona. Anche questo è abbastanza intuitivo: se il ricordo in prima persona riflette la capacità di adottare la posizione – e di abitare l’esperienza – del proprio io passato, è naturale che sia più difficile guardare il mondo come lo si vedeva a sei anni che come lo si è visto la settimana scorsa.

La tendenza a tradurre in terza persona i ricordi più remoti può spiegarsi anche con il fatto che più gli eventi sono distanti, meno dettagli possediamo. E meno dettagli abbiamo, meno è probabile che riusciamo a recuperare il punto di vista da cui abbiamo assistito alla scena in origine, dice David Rubin, professore di psicologia della Duke university che ha pubblicato decine di articoli sulla memoria autobiografica. Meno intuitivo, forse, è il contrario: riusciamo a ricordare una scena in modo più dettagliato quando ci viene chiesto di assumere una prospettiva in prima persona rispetto a quando proviamo a riviverla in terza persona. “A volte, in un’aula di tribunale, a un testimone oculare di una rapina si chiede di ricostruire l’accaduto, però dal punto di vista del cassiere”, racconta St. Jacques. Ma se gli studi della psicologa sono indicativi, questa tattica potrebbe offuscare piuttosto che affinare la memoria del testimone. “La nostra ricerca suggerisce che può far diventare il ricordo meno vivido, rendendo il testimone oculare meno propenso a rievocare i particolari”.

Il ricordo del passato e la proiezione nel futuro sono così simili che alcuni psicologi li riuniscono in un’unica categoria: i viaggi mentali nel tempo

Anche senza le istruzioni dell’esaminatore, per il testimone oculare potrebbe essere più naturale ricostruire la rapina in terza persona: i ricercatori hanno scoperto che spesso si tende a ricollocare i ricordi traumatici o emotivamente intensi al di fuori della prima persona. Questo può dipendere dal fatto che i ricordi in prima persona di solito suscitano reazioni emotive più forti quando li rievochiamo, mentre con una prospettiva in terza persona, possiamo prendere le distanze dall’esperienza dolorosa, mi dice Angelina Sutin, psicologa della Florida state university.

Le informazioni a nostra disposizione possono svolgere una funzione simile. In situazioni di tensione, sottolinea Rubin, le persone tendono a concentrarsi sull’oggetto della loro rabbia o della loro paura. Prendiamo lo scenario della rapina in banca: la polizia “vuole che il cassiere descriva l’individuo che lo sta rapinando, e invece lui descrive nei minimi dettagli la canna della pistola puntata in faccia”. Non riesce a ricordare molto altro. E così, non avendo le informazioni necessarie per collocarsi nella sua prospettiva originale, fluttua.

Momenti traumatici

Questo effetto di distanziamento potrebbe avere manifestazioni piuttosto sconvolgenti, nessuna però paragonabile a quella riguardante le esperienze di pre-morte. Per anni, filosofi e psicologi hanno documentato casi di chi, in momenti traumatici, ha avuto la sensazione di distaccarsi dal proprio corpo, solitamente fluttuando verso l’alto. Rubin avvisa che questi resoconti non sono descrizioni riportate al momento, ma ricostruzioni a posteriori. Quindi ne ha un’opinione incerta: quella che a posteriori sembra un’esperienza extracorporea può essere in realtà solo la trasposizione, indotta dal trauma, di un ricordo dalla prima alla terza persona, così convincente da ingannare il soggetto, portandolo a credere che l’esperienza stessa sia avvenuta in terza persona. In questa teoria, chi ricorda è come una persona che guarda attraverso una finestra dal vetro convesso, scambiando una distorsione del vetro per una distorsione del mondo.

Le dissociazioni traumatiche sono casi estremi, ma per niente isolati, di quella che Rubin definisce “la natura costruttiva del mondo”. In un articolo sulla prospettiva nei ricordi pubblicato nel 2019, St. Jacques ha osservato che lo spostamento del punto di vista e la creazione di una scena completamente nuova si basano sugli stessi processi mentali che avvengono in regioni corrispondenti del cervello. Il ricordo del passato e la proiezione nel futuro sono così simili che alcuni psicologi li riuniscono in un’unica categoria: i viaggi mentali nel tempo. Entrambi sono gesti di costruzione. La distinzione tra memoria e immaginazione si confonde.

In genere, a un certo livello, la gente lo capisce, ma difficilmente troveremo un esempio più inconfutabile di quello dei ricordi in terza persona. Se voi e un amico cercate di ricordare l’arredamento del ristorante in cui avete cenato il mese scorso, potreste scoprire di essere in disaccordo su alcuni punti. Voi pensate che la carta da parati fosse verde, il vostro amico invece blu, uno dei due si sbaglia, ma entrambi siete sicuri di avere ragione. Con i ricordi in terza persona, invece, siamo consapevoli che il ricordo è distorto, perché non sarebbe stato possibile guardare noi stessi in quel momento. Se, senza nemmeno accorgercene, siamo in grado di cambiare un elemento così cruciale come la prospettiva da cui osserviamo un ricordo, quanto possiamo essere certi dei dettagli del ricordo?

In questo senso, i ricordi in terza persona sono quasi terrificanti. I cambi di prospettiva sono più che semplici lacune della memoria. Nel suo laboratorio alla Ohio state university, la psicologa Lisa Libby sta studiando la relazione tra la prospettiva nei ricordi e l’identità, cioè la maniera in cui i cambiamenti nella nostra memoria giocano un ruolo nel modo in cui diamo un senso a chi siamo. In un esperimento, Libby ha chiesto a un gruppo di studenti se fossero interessate alle materie scientifiche. Le studenti hanno poi partecipato a un’attività scientifica: alcune in una versione progettata per essere coinvolgente, altre in una volutamente noiosa. In seguito, quando ha domandato alle studenti come avevano trovato l’esercizio, ha proposto ad alcune di ricordarlo in prima persona e ad altre in terza persona. Le risposte del gruppo in prima persona riflettevano il reale livello di coinvolgimento nell’esercizio; quelle del gruppo in terza persona corrispondevano invece alle loro dichiarazioni d’interesse espresse nella prima domanda.

La morale di Libby: ogni memoria sembra avere una propria funzione. “Un modo per pensare alle due prospettive è che contribuiscono a rappresentare due componenti diverse di chi siamo come persone”, afferma Libby. Ricordare un evento in prima persona predispone a uno stato d’animo esperienziale. Aiuta a ricordare come ci siamo sentiti in quel momento. Richiamare alla memoria un evento in terza persona ci colloca in uno schema mentale più narrativo. Aiuta a contestualizzare l’esperienza, allineandola alle nostre convinzioni precedenti e inserendola in una storia coerente. La memoria è la materia prima dell’identità, o almeno una di esse; la prospettiva è uno strumento che usiamo per modellarla.

Forse la cosa più interessante di tutto questo è quello che suggerisce sulla propensione umana alla narrazione. Quando spostiamo i nostri ricordi da una prospettiva all’altra, spesso senza nemmeno rendercene conto, stiamo plasmando e rimodellando la nostra esperienza in una storia, trasformando il caos in coerenza. L’impulso narrativo, a quanto pare, è ancora più profondo di quanto generalmente riconosciamo. Non è solo un capriccio della cultura o un casuale effetto della vita moderna. È un fatto psicologico, radicato nella mente umana. ◆ svb

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati