Jane Sautière (Alberto Cristofari, Contrasto)

Questo è un libro breve ma deve essere letto lentamente. Ciò di cui parla è difficile da descrivere perché è qualcosa d’inafferrabile. L’argomento però è serio: la morte di bambini e il genocidio cambogiano consumato tra il 1975 e il 1979. Ma tutto viene raccontato attraverso ciò che manca, o meglio partendo da ciò che rimane quando tutto è scomparso. La scrittura scaturisce da un’esperienza ottica dell’autrice: nel suo campo visivo comparivano delle macchie, i “corpi mobili”, che disturbavano la visione. Grazie a questo disturbo e all’osservazione dell’ultima foto scattata dagli Khmer rossi a Bophana, una ragazza uccisa nel famigerato campo S21, l’autrice entra in una zona grigia che è l’esperienza della scomparsa del suo stesso passato. “Ciò che è morto è davvero morto?”, si chiede. In Cambogia, dove è vissuta tre anni, tra il 1967 e il 1970, durante gli ultimi anni del regime di Sihanouk, l’autrice cerca di adattarsi ai ritmi del paese, alla sua ricchezza di stimoli e alle sue continue fluttuazioni. La vita animale lì appare costamentemente simile alla vita umana, frutti sconosciuti maturano lasciando scie di odori inebrianti e dolciastri e scimmie essiccate sembrano ghignare dai banchi del mercato. In questo contesto Jane Sautière conosce la follia, il desiderio, la violenza sociale, il razzismo coloniale e tutto ciò che più tardi scoprirà nei libri di Marguerite Duras. La materia è sempre autobiografica, ma l’autrice esula spesso dalle circostanze per trovare un tono simile a quello del saggio. Corpi mobili ci invita a un’etica dell’attenzione, a considerare tutti uguali, senza svalutarli, senza quell’indifferenza che così spesso c’impedisce di esserci per gli altri. Scopriamo le cose sempre troppo tardi. Una scena del libro descrive tutto questo: una compagna di scuola khmer esprime il suo timore, all’inizio della guerra, che nulla sarà più come prima. Ma la persona con cui parla non la sta ascoltando. Un’altra persona, che ha trovato rifugio in Francia, dice: “Ho camminato sulle ossa”, e nessuno l’ascolta. Alla fine però capiamo tutto, ma è sempre troppo tardi. Rispondere agli altri, immaginare che la loro scomparsa abbia lasciato delle tracce: sono tutte qui la leggerezza e la grazia di questo libro così difficile da descrivere.
Tiphaine Samoyault, Le Monde

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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati