Catherine Clément (Sophie Bassouls, Sygma/Getty)

Nel Tedesco di mia madre, l’autrice Catherine Clément parla che è ancora un feto e ricompare qua e là. Non è la testimone del primo incontro di sua madre con il tedesco ma lo racconta da romanziera. Lei è questa bambina che non piange mai, ma emette solo di tanto in tanto “uno di quei grandi sospiri infantili che scuotono il mondo”, quando la sua famiglia si deve nascondere tra il 18 e il 20 giugno del 1940. Si spara su entrambe le sponde della Loira, i ponti saltano in aria. Il colonnello Michon disobbedisce a Pétain e continua a combattere. Il 20 giugno si arrende e i francesi vengono fatti prigionieri. La secchezza delle frasi contraddistingue il libro: il 14 giugno i tedeschi entrano a Parigi: “Thierry de Martel, chirurgo, primario dell’ospedale americano a cui l’ambasciatore Bullitt aveva affidato la direzione, si uccide con un’iniezione di stricnina. Bullitt riceve un biglietto: ‘Ti avevo promesso che non avrei lasciato Parigi. Non ti ho mai detto se ci sarei rimasto vivo o morto’”. A Thoureil, la nonna paterna dell’autrice costruisce un pollaio, una stalla, un orto e compra un maiale. Raymonde, la madre farmacista, torna a Parigi alla fine dell’agosto 1940. Un ufficiale tedesco l’aspetta sul marciapiede, non è un nazista, è il dottor Schültz, un gentile signore che lei aveva accolto nel 1938 nella sua farmacia e che diceva di essere un esule delle leggi razziali. Ora si rivela come il capo medico militare dei servizi segreti, ha aperto il suo ufficio in rue du Cherche-Midi per preparare l’installazione dell’Abwher, il servizio di intelligence militare tedesco, poco lontano da lì, all’hotel Lutetia. Le dice che quando verrà in farmacia con il berretto da ufficiale, vorrà dire che quella notte non dovrà dormire nell’appartamento sopra il negozio. Avverte subito Raymonde che i suoi genitori devono trasferirsi a sud e che la piccola deve rimanere ad Anjou. Le consiglia anche di indicare nelle carte “nessuna professione”, non farmacista e soprattutto non di “origine ebraica”. Del resto che sia di origine ebraica lo sanno già. Le consiglia di andare a prendersi la stella gialla ma di non indossarla. Così Raymonde riesce a superare la guerra evitando i rastrellamenti ma, dopo la liberazione, morti i suoi genitori e fatta rientrare la bambina, non vorrà mai più rivedere Schültz.
Claire Devarrieux, Libération

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati