Boris, il narratore di I miei due papà, non è Victor Hugo. Lo dice lui stesso rivolgendosi a un “tu” la cui identità sarà svelata solo nell’ultima pagina di questa formidabile opera prima. Suspence? Non proprio, perché ci si dimentica velocemente del misterioso interlocutore con cui questo quattordicenne tenta di confidarsi. Lui non parla una sola lingua, ma due: il francese (quello di Bondy, la banlieue di Parigi in cui vive, quello che ha imparato a scuola e quello di sua zia Béatrice) e poi il “congolese”, anche se quest’ultimo non è tecnicamente una lingua. Fin dalle prime pagine Mukendi, un insegnante di francese di Rouen arrivato in Francia a sette anni dalla Repubblica Democratica del Congo, ci mostra il dilemma del suo protagonista: crescere in un ambiente in cui è costretto sempre a spiegarsi e a chiarire cosa sta dicendo. Questo crea situazioni comiche spingendo a provare empatia per il personaggio. Boris è diverso da tutti gli altri. Ha due papà, e uno, quello vero (sparito da tempo) riappare improvvisamente all’inizio del romanzo. Anni prima, il papà che il narratore aveva conosciuto da piccolo a Kinshasa, lo aveva spedito a vivere in Francia con suo zio Fulgence. Quando rivede il figlio lo abbraccia ma lui è pieno di dubbi: “Era come se ci fossero tanti strati di non detto e di malinteso tra di noi quanti sono stati i giorni in cui non ci siamo visti, senza contare i giorni in cui ero convinto che fosse morto”. Mukendi riesce, come raramente succede, a catturare la collisione dei sentimenti e dei ricordi nel momento in cui si ricongiungono un padre dal passato pieno di mistero e un figlio che ha dovuto crescere tra i vuoti e i silenzi di quest’uomo. In ogni caso quello che lui chiama papà lo capisce meno dello zio Fulgence che lo ha cresciuto trasmettendogli l’arte dell’arguzia, l’amore per la musica congolese (la scena in cui i due papà ballano un pezzo di Pepe Kalle è un capolavoro) e la passione per le omelette al prosciutto e formaggio. Secondo il suo “vero papà”, Fulgence sta facendo di lui “un piccolo uomo bianco” e a Boris toccherà fargli capire che lui vede la Francia esclusivamente in bianco e nero. C’è qualcosa di profondamente affascinante in questa figura paterna ugualmente simpatica e insopportabile. Gladys Marivat, Le Monde
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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati