A sei anni, come regalo di compleanno ricevetti un mappamondo che poggiava su un supporto. Aveva una lam­padina all’interno e si poteva far ruotare. Chi l’aveva fatto non aveva dedicato molto impegno all’isola in cui vivevo io, l’Islanda, per cui i suoi contorni erano approssimativi. Per giunta l’isola era di colore bianco, a significare che era ricoperta di ghiaccio come il polo Nord. Io sapevo che non era così. A parte la capitale Reykjavík, sul globo erano indicati il vulcano Hekla e anche la sua altezza, 1.447 metri. Ma non era segnato nessun confine, anzi il pianeta si divideva in terraferma e oceani in cui tutto era mescolato e tutto connesso. I fiumi erano tratti di penna blu e un esile dito di bambina poteva seguire il loro corso fino al mare attraverso molte terre e numerose frontiere, la stessa acqua, lo stesso pesce che depone le uova in un paese ed è pescato in un altro.

A sei anni ero consapevole di abitare su un’isola lontana e più o meno nello stesso periodo avevo scoperto di parlare una lingua che non era parlata in nessun altro posto e che si chiamava islandese. Quelli che la parlavano allora erano 180mila, oggi sono 350mila. Anche se non capivo ancora la parola örlög, destino, mi pareva tuttavia uno strano destino sia essere nata su un’isola in mezzo all’oceano sia parlare una lingua che ben pochi capivano.

In qualche modo tutto questo è finito nei miei romanzi: il tema della memoria insulare, l’avere per vicino solo l’oceano, una lingua per poche anime, una natura da isola vulcanica ai margini dell’Artico.

Il mappamondo ce l’ho ancora e non è da molto che gli ho cambiato la lampadina.

Quando oggi lo guardo sulla mia scrivania, mi sembra di osservare la Terra dallo spazio, di vedermi davanti il terzo pianeta più vicino al Sole, una macchiolina azzurro pallido delle dimensioni di una capocchia di spillo, nel buio profondo del cosmo, che non gira solo intorno al Sole alla velocità di 108mila chilometri all’ora, ma anche su se stessa, a 1.690 chilometri all’ora, e così mi capita pure di pensare a quanto poco ci vorrebbe per far deviare il globo terracqueo dalla sua rotta. E dato che un pensiero tira l’altro, ricordo di aver sentito dire che quando gli astronauti arrivano a una distanza abbastanza grande da vedere la Terra in lontananza, piangono e si abbracciano.

A sei anni ero consapevole di abitare su un’isola lontana e avevo scoperto di parlare una lingua che non era parlata in nessun altro posto e che si chiamava islandese

Si ritiene che il numero delle lingue parlate nel mondo oscilli tra seimilacinquecento e settemilacento, dipende da come sono contati i dialetti. Ogni due settimane una di loro muore, per cui andando avanti così si può presumere che il novanta per cento delle lingue si estinguerà entro la fine del prossimo secolo. Un giorno c’è chi parla una lingua e dice di amare qualcuno, o di avere fame, e il giorno dopo nessuno lo capisce più.

Secondo me la madrelingua è l’unica patria di uno scrittore e dal momento che ogni lingua comporta uno specifico modo di pensare, in un’altra lingua io scriverei storie totalmente diverse. Considerando le lingue ufficiali dei centonovantatré paesi delle Nazioni Unite, scrivo nella lingua nazionale parlata dal minor numero di persone al mondo. Ogni giorno nascono soldati e medici, ma non poeti né linguisti, dice un personaggio del mio romanzo Eden.

A loro vorrei aggiungere i traduttori, soprattutto quelli che traducono lingue utilizzate da poche persone. In alcuni paesi del mondo c’è un solo traduttore che traduce dall’islandese (il che significa che gli autori islandesi rimarranno in lista d’attesa per qualche anno), in altri non ce n’è nessuno.

La conoscenza si accumula a poco a poco e da quando molto tempo fa ho avuto in regalo il mappamondo ho scoperto diverse cose, per esempio che gli oceani stanno morendo. E anche se vivo su un’isola priva di foreste, so che nel mondo esistono 73.300 specie di alberi. Ho imparato anche che la lingua è lo strumento principale nella lotta degli esseri umani per il potere. E che non sempre questi ultimi sono capaci di far combaciare pensieri e parole. So anche che tutte le persone che abitano sulla Terra sono legate attraverso la stessa comune antenata che visse in Africa e che è probabile parlasse una sorta di lingua palatale. Ho poi imparato che l’essere umano è l’unico animale che ride e piange, e su questo ho scritto un libro (Hotel Silence, Einaudi 2018), e che allo stesso modo è l’unico che scrive poesie e racconta storie, e anche su questo ho scritto un libro (La vita degli animali, Einaudi 2021). Nel mio ultimo romanzo, Eden, che tratta di vari elementi della realtà che stanno scomparendo, tra gli idiomi e la natura, il personaggio principale è una linguista specializzata in lingue minoritarie. Ha calcolato quanti alberi dovrebbe piantare per compensare le emissioni degli aerei che ha preso per partecipare oltreoceano a convegni sulle lingue minoritarie a rischio d’estinzione, ed è giunta alla conclusione che sarebbero cinquemilaseicento.

Se l’islandese scompare, scompaiono i 620mila vocaboli di quella lingua. Scompare una lingua che usa la stessa parola per pecora e fiume glaciale, una parola di una sola lettera, á. Se la mia lingua madre scompare, scompare una lingua che per dire televisione, elicottero e computer crea neologismi tutti suoi e dice sjónvarp, þyrla e tölva. Se l’islandese scompare, scompare una lingua che usa lo stesso verbo per lasciare, separarsi da una persona (að skilja við) e per capire una persona (að skilja). Ma soprattutto, se la lingua in cui scrivo scompare, scompare la sola lingua che io conosca che adopera la stessa parola (heima o heimur) per indicare “casa” e “mondo”. ◆ sr

Auður Ava Ólafsdóttir è una scrittrice islandese. Sarà ospite di Babel, festival di letteratura e traduzione, che si terrà a Bellinzona, in Svizzera, il 16 settembre. L’edizione 2023 di Babel è dedicata alle isole letterarie e linguistiche (babelfestival.com). Questo testo è inedito. Il titolo originale è Tölfræði: um eyjur í miðju hafi, fámenningstungumál og það sérstaka fólk sem kallast þýðendur.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati