Non ci sono motivi validi per escludere le bambine e i bambini dal voto. Anzi, l’età del voto andrebbe abbassata a sei anni, estendendo il diritto di eleggere i propri rappresentanti a tutti quelli che vanno a scuola. Quando sostengo questa tesi, di fronte alle platee più diverse, sono sempre colpito dalla reazione che incontro: incredulità. Quale potrebbe essere la ragione per fare una cosa così palesemente avventata e irresponsabile? La maggior parte degli interlocutori riconosce che la nostra democrazia sta diventando litigiosa, frustrata e frustrante. Le divisioni politiche sono sempre più ampie e le istituzioni non sembrano attrezzate a gestirle. Questo, però, non giustifica l’estensione del diritto di voto ai bambini. Non si finirebbe per peggiorare le cose?

La risposta è no. Anzi, forse le migliorerebbe. Ma per capire perché, dobbiamo prima esaminare i problemi della democrazia, in particolare il divario generazionale, che negli ultimi decenni è diventato un fattore politico sempre più importante.

anna parini

Non siamo mai stati così divisi, eppure non abbiamo mai avuto tante cose in comune. Il Regno Unito, come altre democrazie occidentali, è spaccato a metà su quasi tutte le questioni più importanti. I sostenitori dell’uscita dall’Unione europea contro quelli che volevano rimanere. Nord contro sud. Città contro campagne. Laureati contro non laureati. Allo stesso tempo, però, condividiamo gli stessi punti di riferimento. Guardiamo gli stessi programmi tv, chiacchieriamo delle stesse cose e siamo ossessionati dalle stesse celebrità. Quando Oprah Winfrey ha intervistato il principe Harry e la moglie Meghan Markle, le loro dichiarazioni sono state accolte con reazioni diverse a seconda della tribù politica a cui appartenevano gli spettatori. Ditemi come avete votato al referendum sulla Brexit e vi dirò se eravate dalla parte di Meghan o della cognata Kate. Resta il fatto che nel Regno Unito la trasmissione l’abbiamo guardata tutti. E quando l’intervista è andata in onda, eravamo tutti in lockdown.

I contorni di questo nuovo panorama – politicamente diviso, socialmente collegato – sono ancora più netti in termini generazionali. Se alle elezioni politiche britanniche del 2019 avessero votato solo le persone con meno di trent’anni, l’allora leader dei laburisti Jeremy Corbyn avrebbe ottenuto la vittoria più schiacciante nella storia del suo partito. Se avessero votato solo gli ultrasessantenni, i conservatori avrebbero conquistato quasi tutti i seggi. I vecchi e i giovani sono diventati due nazioni politiche separate. Ma non sono, come disse l’ex premier britannico Benjamin Disraeli a proposito dei ricchi e dei poveri, “due nazioni che non hanno reciproche relazioni e non provano reciproche simpatie, che ignorano i pensieri e i sentimenti dell’altra, come se vivessero in diverse regioni o abitassero diversi pianeti”. Oggi giovani e anziani interagiscono a quasi tutti i livelli. La vita familiare si fonda su questa interazione. Le diverse generazioni non solo non abitano pianeti diversi, ma spesso condividono la stessa casa.

Naturalmente la famiglia può essere un luogo di forti antagonismi, soprattutto quando giovani e anziani abitano sotto lo stesso tetto. Nessuna società è mai stata immune al conflitto intergenerazionale. Ciò che differenzia la nostra società dalle altre è che le generazioni sono profondamente divise sulla politica, ma unite da tante altre cose.

Negli anni settanta, quand’ero bambino, la musica pop era soprattutto per i giovani. I più vecchi ascoltavano la musica classica, le grandi orchestre o le canzoni dei musical. I ragazzi dicevano le parolacce, ma non davanti ai genitori. I genitori dicevano le parolacce, ma non davanti ai figli. I giovani portavano i jeans, i nonni no: vestivano ancora in giacca e cravatta, con gonne e abiti. Quando faceva più caldo i ragazzi si spogliavano, ma era un loro privilegio. I vecchi dovevano sudare. Se oggi andiamo per strada d’estate vediamo molti uomini in pantaloncini corti, a prescindere dall’età.

Come spiegare il divario politico sempre più profondo che si staglia dietro il crescente conformismo sociale? La risposta è una combinazione di demografia e geografia. La nostra società sta invecchiando rapidamente e gli elettori più anziani prevalgono sui più giovani. Sta succedendo in Europa, negli Stati Uniti e anche in alcune parti dell’Asia. La dinamica tradizionale del conflitto intergenerazionale era che le generazioni precedenti detenevano ricchezza e potere, mentre i giovani avevano i numeri dalla loro parte. In tutte le società democratiche, dall’antica Atene al Regno Unito degli anni settanta, gli elettori con meno di quarant’anni erano più numerosi di quelli ultrasessantenni. Oggi non è più così. Il conformismo sociale attuale non dipende semplicemente dal fatto che i vecchi scimmiottano i ragazzi. Dipende dal fatto che nelle società dove le persone di mezz’età e gli anziani sono il blocco economico e politico dominante, i loro interessi prevalgono. La musica pop un tempo si rivolgeva ai giovani perché erano loro a comprarla. Oggi pensa a soddisfare i gusti delle persone della mia età. Ho 54 anni e ora è mio figlio di dodici anni che si ritrova ad ascoltare la musica di quando io ero giovane, non il contrario.

Il motivo per cui le elezioni del 2019 hanno restituito la fotografia di un paese politicamente vecchio è banalmente il peso dei numeri. Gli ultrasessantacinquenni, che un secolo fa formavano appena il 5 per cento dell’elettorato, ora si avvicinano al 20 per cento. Non solo: gli elettori più anziani vanno a votare più dei giovani. Spesso i politici progressisti si lamentano che se i ventenni partecipassero alle elezioni con la stessa dedizione dei settantenni gli equilibri si ribalterebbero. I risultati elettorali, si dice, vanno contro gli interessi dei giovani perché i giovani non votano. Oggi si può tranquillamente sostenere il contrario, e cioè che i giovani non si presentano ai seggi perché i risultati elettorali non sono mai a loro favore. A cosa serve votare se il sistema è contro di te?

Questo processo è accentuato da movimenti geo­grafici che vedono un’aggregazione di elettori giovani nelle città e nei centri universitari, dove si trasferiscono per lavorare e studiare. Dagli anni ottanta in poi l’espansione dell’istruzione superiore ha portato a una migrazione su vasta scala dei ragazzi dalle città di origine, dove spesso non tornano più. I posti dove vanno a vivere – Brighton o Bristol, Canterbury o Cambridge – sono diventati terra di conquista per i candidati laburisti perché lì i giovani fanno la differenza. Ma mentre i loro voti si accumulano nelle aree metropolitane densamente popolate, i collegi da cui quei giovani provengono premiano sempre di più i candidati conservatori. Alcuni collegi elettorali del cosiddetto red wall (“muro rosso”, cioè quella vasta parte del Galles e dell’Inghilterra che votava compattamente per i laburisti) nel 2019 sono stati conquistati dai conservatori, perché in quelle aree l’età media degli elettori si è alzata dopo che molti studenti sono andati a vivere altrove.

Così s’innesca una serie di circoli viziosi. Se i politici che rappresentano gli elettori anziani continuano a vincere, i giovani si scoraggiano e non vanno a votare, accentuando lo squilibrio politico. Se i giovani inseguono la mobilità sociale spostandosi in zone dove vivono altri giovani, cresce anche la probabilità che gli elettori anziani determinino gli esiti del voto in tutte le altre zone del paese. Le conseguenze saranno un governo e delle politiche sfavorevoli a quella mobilità sociale che gli elettori più giovani tendono a preferire. Tutto questo succede nel Regno Unito almeno da una generazione. Si difendono le pensioni, mentre s’ignora il problema dei debiti degli studenti. Gli interessi di chi ha acceso un mutuo prevalgono su quelli di chi ha un contratto d’affitto. Più del 70 per cento degli elettori con meno di trent’anni ha votato per rimanere nell’Unione europea eppure il paese ha comunque deciso per la Brexit. Quando i vecchi diventano più numerosi dei giovani, inevitabilmente le divisioni aumentano. Anche se tutti guardano serie tv come Bridgerton.

Per capire perché, dobbiamo prima esaminare i problemi della democrazia, in particolare il divario generazionale, che negli ultimi decenni è diventato sempre più importante

Quando è scoppiata la pandemia, inizialmente era sembrato che questo divario generazionale potesse essere colmato. C’era un nemico comune da affrontare. Le regole del confinamento valevano per tutti, e l’esperienza di stare in casa aveva creato una serie di nuovi punti di riferimento. Lamentarsi di
Zoom – per il lavoro, per le chiamate in famiglia, per tutto – è diventata un’abitudine di giovani e meno giovani. Restare in casa, portare la mascherina, districarsi tra le nuove regole: sono tutte cose che abbiamo fatto insieme, con le stesse date cerchiate sul calendario e lo stesso senso di delusione quando, a quelle scadenze, non c’era una soluzione chiara in vista. Il nostro essere socialmente connessi non è mai stato così evidente come quando abbiamo dovuto isolarci dagli altri.

Ma questo senso di connessione non faceva che nascondere uno schema familiare. In una società in cui demografia e geografia stanno ampliando le divisioni politiche intergenerazionali, la pandemia non ha fatto nulla per colmarle. Anzi, le ha aggravate. Gli effetti della malattia variano molto a seconda dell’età di chi si ammala. Le probabilità di morire di covid-19 sono molto più alte per gli ultrasettantenni che per i trentenni. Così gli anziani hanno avuto la priorità nelle misure precauzionali, nelle cure, nelle vaccinazioni. La politica e i cittadini non hanno avuto molta scelta: la malattia non lasciava altre opzioni.

Da questo punto di vista, le conseguenze del covid-19 hanno riaffermato una tendenza consolidata. In una popolazione che invecchia, la sanità sale tra le priorità politiche. Gli anziani hanno più bisogno di assistenza, ed è la popolazione attiva che deve pagargliela. Dal momento che gli anziani determinano i risultati elettorali, i politici fanno tutto il possibile per non cambiare quest’equazione. Quell’aura di intoccabilità che caratterizza il National health service (Nhs, il servizio sanitario nazionale britannico) da quand’è nato nasconde un marcato allontanamento dai suoi obiettivi originari. Nel 1948, quando fu istituito, la priorità era la salute dei bambini: la società era caratterizzata da un’alta mortalità infantile, alcune malattie tipiche di quest’età erano ancora molto diffuse e i bambini rappresentavano una percentuale molto più alta della popolazione complessiva. Oggi l’Nhs si concentra sugli anziani, e i loro interessi vengono per primi. Il covid-19 non ha cambiato le nostre priorità sanitarie. Le ha semplicemente messe a nudo.

La pandemia ha messo in evidenza gli squilibri intergenerazionali senza fare nulla per risolverli. I politici parlano di risarcire i giovani per i sacrifici che hanno fatto, ma il nostro sistema politico fa poco per incentivare il governo a trasformare le parole in azioni concrete. I giovani possono ragionevolmente sostenere che la democrazia li discrimina in più modi: non solo i loro candidati perdono le elezioni, ma i loro rappresentanti non sono quasi mai dei loro coetanei. L’età media alla camera dei comuni britannica è praticamente la stessa da un secolo: non si discosta mai troppo dai cinquant’anni. Nel parlamento del Regno Unito eletto nel 2019 ci sono più deputati ventenni di quanti ce ne siano mai stati. Ma sono appena 21 – contro trecento ultracinquantenni e ultrasessantenni – e sono comunque meno degli ultrasettantenni.

C’è un’altra fonte di discriminazione democratica di cui non si parla. Se gli elettori ultrasessantenni sono più numerosi di quelli con meno di quarant’anni non è perché rappresentano una percentuale più alta della popolazione. L’età mediana nel Regno Unito è 40,4 anni: significa che i minori e i maggiori di quarant’anni sono lo stesso numero. Gli ultrasessantenni, anche se più numerosi di una generazione fa, sono ancora una minoranza. Ma la democrazia non funziona così. Non c’è un limite massimo d’età per votare, ma c’è un limite minimo: i minori di diciott’anni (sedici anni in Scozia) non godono dei pieni diritti di cittadinanza, tra cui quello di voto. Succede perché è sempre stato così.

Quando si tratta di democrazia, bambine e bambini non contano. Ma perché? Le argomentazioni contro l’estensione del diritto di voto ai più piccoli partono sempre dall’idea di competenza. Questo, però, significa applicare una serie di parametri che da tempo non applichiamo più al resto della popolazione. È vero, ovviamente, che molte bambine e bambini avrebbero difficoltà a comprendere dinamiche politiche complesse. È difficile immaginare un gruppo di seienni alle prese con la riforma fiscale. Anche molti adulti, però, hanno difficoltà a seguirle, e ognuno di noi ha grandi lacune. Il fatto è che nessuno ci chiede di essere competenti per votare. E allora perché dovremmo pretenderlo dai bambini?

Vincolare la concessione del diritto di voto al superamento di un ipotetico test è un’idea sostanzialmente ottocentesca. Il principio del suffragio universale è che il voto non è un diritto che appartiene all’individuo in base alla sua competenza a esercitarlo. Al contrario, spetta a ognuno di noi perché facciamo parte di una comunità politica democratica, pronta ad accettare le conseguenze delle decisioni che i politici prendono al suo posto. Se subiamo le conseguenze di quelle decisioni, dovremmo avere il diritto di esprimere un’opinione su chi è incaricato di decidere. E questo vale sia per i bambini sia per gli adulti.

Forse, allora, la tesi che si oppone alla concessione del diritto di voto ai bambini non è tanto di principio, ma di ordine pratico. È chiaro che un gruppo di adulti probabilmente capisce meglio qual è la posta in gioco in un’elezione rispetto a un gruppo di scolari. Questo, però, dipende soprattutto da come sono concepiti quei gruppi. È sorprendente la facilità con cui gli scettici saltano alla conclusione che abbassare l’età del voto a sei anni significherebbe dare ai bambini di sei anni una parola decisiva sul governo del paese. È un’assurdità: la fascia d’età più bassa sarebbe una piccola minoranza dei bambini, e i bambini sono comunque una minoranza dell’elettorato totale. Gli elettori più anziani sarebbero in ogni caso in grado di prevalere sui più giovani. Se però prendiamo come riferimento chi va a scuola, ci sono buone probabilità che alcuni gruppi siano meglio informati di molti adulti, perché hanno il tempo e le risorse per imparare qual è la posta in gioco, se lo vogliono. Certo, non si può obbligare nessuno a interessarsi di politica, ma questo vale sia per i bambini sia per gli adulti. La differenza è che chi va a scuola ha più strumenti per colmare le sue lacune.

La questione della competenza – e la difficoltà a usarla come argomento contro l’estensione del volto ai bambini e alle bambine – è particolarmente rilevante nelle società che invecchiano. Se l’età media della popolazione aumenta, aumenta anche il numero degli elettori affetti da demenza e da altre forme di declino cognitivo. Nessuno, però, ritira il diritto di voto agli anziani né sottopone ottantenni e novantenni a un test di competenza. Ancora una volta, sorprende la frequenza con cui, quando si affronta l’argomento, molte persone dicono che piuttosto di dare il voto ai bambini preferirebbero toglierlo agli anziani. L’idea ottocentesca di discriminare sulla base della competenza non è scomparsa.

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Il fatto, però, è che non sarebbe meglio – e neanche più sicuro – togliere il voto agli anziani. Ogni volta che qualcuno propone un piano per limitare l’elettorato attivo, dovrebbe sempre chiedersi come metterlo in pratica. Affidandolo ai medici? Andando negli ospizi e chiedendo agli ospiti di fare un test? Fissando semplicemente un tetto massimo, per esempio ottant’anni? E che fare con gli elettori ultraottantenni attivi, impegnati ed estremamente informati? Come spiegargli che hanno perso il diritto di voto perché alcuni loro coetanei sono stati giudicati inadatti a esercitarlo?

Ci sono molte cose da dire sul principio del suffragio universale, ma la più importante è che riflette l’idea democratica fondamentale di “una testa, un voto”. Non ha tempo da perdere con quote, competenze e test. Togliere il voto alle persone anziane violerebbe questo principio. Dare il voto ai bambini lo tutelerebbe e lo amplierebbe.

Ma le argomentazioni contro il voto ai bambini non finiscono qui. Una delle più comuni è che i piccoli farebbero semplicemente quello che dicono i genitori. All’inizio del novecento si diceva spesso che era inutile dare il voto alle donne perché avrebbero fatto solo quello che dicevano i mariti. Naturalmente non era vero: le donne erano in grado di fare le loro scelte, e spesso votavano in modo diverso dai mariti.

I bambini sarebbero meno indipendenti? Potrebbero anche essere soggetti alla pressione dei genitori, più di un adulto che si lascia influenzare dal coniuge, ma in realtà non lo sappiamo, perché non abbiamo mai provato a scoprirlo. I bambini seguono le opinioni dei genitori su questioni diverse dalla politica? A volte, ma non sempre. Decidono mai di fare il contrario di quello che pensano i genitori? Non sempre, ma può succedere abbastanza spesso.

È altrettanto plausibile che i bambini siano influenzati da altri. Forse dai nonni, visto che molti minori trascorrono con i nonni lo stesso tempo che trascorrono con i genitori, spesso impegnati al lavoro. O magari dagli insegnanti, dagli amici, o dagli youtuber preferiti, dai calciatori, dai supereroi. Quindi, direte voi, sto ammettendo che i bambini sarebbero soggetti a ogni tipo di pressione esterna. Certo, ma questo vale anche per gli adulti. Gli studi sociali dimostrano in modo schiacciante che tutti gli elettori, vecchi e giovani, istruiti e non, fanno le loro scelte politiche sulla base di fedeltà, identità e forme di condizionamento di gruppo che spesso hanno poco o nulla a che fare con la politica, e che sono lontanissime dai temi di cui si discute ad alto livello.

In un modo o nell’altro, apparteniamo tutti a una tribù politica. Sappiamo se i bambini di sei anni sarebbero più conservatori dei loro genitori? No, ma c’è un solo modo per scoprirlo: farli votare. Inoltre c’è chi si chiede se i bambini non debbano essere protetti più a lungo possibile dal confronto con le spiacevoli realtà del mondo adulto. Non dovremmo preservarli dalle responsabilità dei grandi? Anche queste sono argomentazioni familiari, e anche queste sono state già usate per negare il voto alle donne: perché gravare qualcuno di responsabilità superflue quando il duro compito di prendere le decisioni difficili può essere lasciato ad altri? Nel saggio Il secondo sesso, Simone de Beauvoir replica in modo chiaro a questa linea di pensiero: sono sempre le persone al potere che sostengono di voler proteggere gli altri dall’esercitarlo. Lo dicono gli uomini, non le donne. Lo dicono i colonizzatori, non i colonizzati. Lo dicono gli adulti, non i bambini. Chi non ha voce in capitolo non vuole essere sollevato dal fardello di avercela. Vuole sperimentarla. E una volta che l’ha sperimentata, non vuole più rinunciarci.

Le bambine e i bambini sono un caso speciale? Si dice spesso che avvicinarli alla politica significherebbe corromperli perché la politica è una cosa sporca. Io penso il contrario. Portare la politica nelle scuole non renderebbe peggiori le scuole: renderebbe migliore la politica, proprio perché prendiamo sul serio la tutela dei bambini. Proviamo a fare un esperimento: prendiamo un dibattito politico tra adulti, con i suoi protagonismi esasperati, le sue liti furibonde, i suoi strepiti e le sue faziosità. Ora immaginiamo che un dibattito simile, sugli stessi temi, si svolga davanti a un pubblico di bambini della scuola primaria, mentre i loro insegnanti osservano. La conversazione sarebbe più sguaiata? O sarebbe più ordinata, magari anche più informata?

Le restanti argomentazioni contro il diritto del voto ai bambini sono esplicitamente di parte. Data la spaccatura demografica ed elettorale che divide il Regno Unito, la proposta di estendere il diritto di voto sembra una mossa disperata del Partito laburista per rovesciare le sue magre prospettive elettorali. Abbassare l’età del voto a sedici anni, com’è successo in Scozia, pare un’operazione di ingegneria politica bella e buona: dato che gli elettori più giovani tendono a sinistra su una serie di temi, far crescere il loro numero potrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore di determinate cause. Abbassare l’età del voto a sei anni avrebbe lo stesso effetto? No. Innanzitutto perché non sappiamo come voterebbero i bambini: non sono coinvolti nei sondaggi, quindi nessuno gliel’ha mai chiesto. Poi, perché estendere il diritto di voto su larga scala raramente produce gli effetti desiderati.

Abbassare l’età del voto di due anni, a sedici anni, sarebbe comunque una riforma monca, che potrebbe essere interpretata come una manipolazione. Il grande vantaggio di abbassarla di dodici anni è che gli esiti sarebbero imprevedibili. Sarebbe paragonabile ad altre grandi emancipazioni, come quella degli operai nell’ottocento e delle donne nel novecento, due svolte che hanno aperto nuove opportunità a tutti i partiti e hanno imposto una concezione dell’elettorato molto più inclusiva e fantasiosa. In entrambi i casi – contrariamente alle aspettative – il partito conservatore ha scoperto come allargare il suo consenso. Non sto dicendo che succederebbe anche questa volta. Sto solo dicendo che non lo sappiamo.

E allora, perché fissare arbitrariamente una soglia? Perché non fare del voto un diritto della persona – o addirittura un diritto di nascita – e concederlo a tutti? Anche se alcuni teorici l’hanno sostenuta, questa idea non regge nella pratica, perché neonati e bambini piccoli avrebbero bisogno di qualcuno che vota per loro. Se il voto diventa un sistema di deleghe e surrogati, perde la semplicità e la chiarezza di “una testa, un voto”. Credo in una soglia di competenza minima, che è la capacità di esprimere una preferenza. Il fatto di andare a scuola mi sembra un modo ragionevole di accertarla: se vai a scuola, puoi mettere una croce su una casella o premere un bottone su una macchina. Quindi puoi votare.

Avere il diritto di voto significa condividere parte del destino di una comunità democratica e affrontare le conseguenze delle decisioni prese da chi è al potere. I bambini devono fare i conti con queste conseguenze per più tempo di tutti. Se un’obiezione è che non partecipano alla vita della comunità allo stesso modo degli adulti perché non guadagnano, non pagano le tasse o non ottemperano a doveri, dobbiamo ricordare che da tempo non consideriamo questi fattori dei prerequisiti per esercitare il diritto di voto. Gli adulti possono votare a prescindere dalle tasse che pagano, dagli obblighi pubblici a cui ottemperano, dal fatto di contribuire o di beneficiare delle finanze pubbliche. Tutti possiamo farlo perché abbiamo delle cose in comune che vanno oltre il nostro contributo individuale. Abbiamo preferenze, opinioni, speranze e paure. Votare è un modo per farsi sentire: non l’unico, e magari non il più efficace, ma comunque uno dei principali. Anche bambine e bambini dovrebbero averlo.

È appurato che i piccoli sono più sensibili ad alcuni temi rispetto agli elettori più anziani. L’istruzione ha una priorità molto alta sia per i vecchi sia per i giovani, ma l’ambiente ha un’importanza di gran lunga superiore per i giovani. Forse perché il loro orizzonte temporale è più lungo, o magari per altri motivi: le mode, il condizionamento dei coetanei, il pensiero di gruppo. Non importa: le preferenze sono preferenze, gli interessi sono interessi, e il fatto che vengano dai più giovani non li squalifica. Tutte le preferenze dovrebbero contare. Sarebbe meglio così per tutti.

Contrariamente alle aspettative di molte persone, dare il voto ai bambini e alle bambine non innescherebbe una trasformazione radicale. Raramente è stato così. Alla fine sono gli stessi tipi di candidate e candidati a essere eletti, perché gli incentivi a entrare in politica non cambiano. Come dice un vecchio adagio, se il voto contasse davvero qualcosa lo abolirebbero. Ma votare è comunque importante. Non sto dicendo che i bambini e le bambine di sei anni dovrebbero sedere in parlamento: sarebbe una cosa rivoluzionaria (e, francamente, un po’ folle). Credo semplicemente che tutti dovrebbero poter partecipare al processo elettorale e avere la possibilità di dire la loro, in modo che i politici tengano conto delle opinioni di tutti quando scrivono i loro programmi. Messa così, è un’idea molto meno radicale di quel che sembra.

Alcune cose cambierebbero. Le politiche sul clima probabilmente salirebbero sulla scala delle priorità. Gli orizzonti temporali di alcune decisioni politiche si allungherebbero. I politici avrebbero uno spettro più ampio di opinioni di cui tenere conto. Ma credo che nessuno dei soggetti coinvolti in questa nuova democrazia allargata diventerebbe migliore. La politica sarebbe ancora un gioco spietato. Partecipare alle elezioni non renderebbe i bambini migliori, così come non rende migliori gli adulti. Il punto non è insegnare l’educazione civica ai bambini: lo scopo della democrazia elettorale non è mai stato questo. Il voto non darebbe ai bambini il controllo sul loro futuro: sarebbero sempre gli adulti a comandare. Ma potrebbe rinvigorire la democrazia, migliorarla, variarla, renderla un po’ meno ingessata, prevedibile e stantia.

Forse potrebbe servire anche a colmare il divario generazionale. In un certo senso, è vero che i bambini vivono su un pianeta diverso da quello degli adulti. Non guardiamo gli stessi programmi tv, a meno che non siamo costretti. Per i grandi la vita dei seienni è profondamente misteriosa. È soprattutto per questo che la politica democratica dovrebbe aprirsi al loro punto di vista. Allo stesso tempo i bambini non vivono separati dalle generazioni che li hanno preceduti. Non emigrano in luoghi dove possono fare la vita che sognavano. Sono costretti a coesistere con i grandi. E anche se preferirebbero non farlo, devono ascoltarli, perché del resto sono ancora i grandi a decidere per loro. I bambini parlano con i genitori, i nonni, gli insegnanti e i tutori. Gli adulti non sempre li ascoltano, anche se sarebbe meglio lo facessero. Ma la conversazione c’è, e questa è una precondizione della politica democratica.

Nel suo ultimo saggio Give children the vote (Date il voto ai bambini), il politologo John Wall riflette sull’emancipazione di quel quarto della popolazione a cui il diritto di votare è sistematicamente negato: “È fondamentale rendere le società contemporanee più democratiche. È l’unico modo per spingere i leader politici a rispondere all’esperienza vissuta di tutti e non solo a quella di alcune persone. È l’unico modo di rendere il diritto di voto pienamente equo ed efficace. Non è la risposta a tutti i problemi. Ma dev’essere parte della soluzione. C’è bisogno di un riequilibrio e questa forse è la nostra migliore speranza per raggiungerlo. La politica non è mai perfetta. Ma se le società vogliono essere davvero democratiche, devono superare i loro pregiudizi più radicati e abbracciare l’intera comunità umana”.

La pandemia ci ha dato l’opportunità di rimettere in discussione alcuni concetti che davamo per scontati. Scelte politiche che due anni fa sarebbero sembrate impossibili oggi sono diventate la norma. Perché allora non possiamo ridiscutere il suffragio universale? ◆ fas

David Runciman

è nato nel 1967. È professore di scienze politiche all’università di Cambridge, nel Regno Unito. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di un’istituzione imperfetta (Bollati Boringhieri 2019). Questo articolo è uscito sul Guardian con il titolo Votes for children! Why we should lower the voting age to six.

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Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati