Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, l’attacco israeliano contro Gaza sembra essere la continuazione con altri mezzi dell’assenza di politica. Israele non dà l’impressione di sapere come andrà a finire. Senza un chiaro senso della fine non può esserci risposta alla domanda morale e strategica più cruciale: quando è abbastanza?

Anche nella logica brutalmente matematica della vendetta, il prezzo di sangue per le orrende atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre è stato pagato da tempo. La conta dei morti – se questa deve essere la misura della punizione – è salita ben oltre il livello richiesto per una proporzione nella sofferenza. Eppure non sembra esserci un limite chiaro. Per quale fattore devono essere moltiplicate le morti ebraiche? Quando, come chiese il poeta irlandese W.B. Yeats in un altro conflitto, sarà abbastanza?

“Basta” è la parola che il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin sottolineò nel suo discorso del settembre 1993 alla firma degli accordi di Oslo: “Noi che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi, oggi vi diciamo con voce forte e chiara: basta sangue e lacrime. Basta. Oggi diamo una possibilità alla pace e vi diciamo e vi ripetiamo: basta”.

Basta è un obiettivo politico e un limite etico. Senza il primo è difficile stabilire il secondo. Per sapere fino a che punto puoi spingerti, devi sapere dove vuoi arrivare. Il governo di Benjamin Netanyahu sembra non sapere né l’una né l’altra cosa.

Si è parlato molto dei fallimenti dell’intelligence che hanno permesso i massacri del 7 ottobre. Ma questi errori derivano da qualcosa di più profondo: un fallimento cognitivo. C’è stato un falso senso di sicurezza. Rabin, nel discorso con cui accettò il premio Nobel per la pace nel 1994, spiegò chiaramente che non ci può essere sicurezza senza pace: “C’è solo un mezzo radicale per santificare la vita umana. Non i blindati, i carri armati, gli aerei o le fortificazioni di cemento. L’unica soluzione radicale è la pace”.

La fine dell’illusione

La pacificazione è un processo politico. Le guerre possono creare le circostanze in cui si svolge, ma non la fanno accadere. Rabin comprese questa verità. Con il suo omicidio e l’ascesa di Netanyahu, è stata deliberatamente dimenticata. La politica – la negoziazione di un giusto accordo con i palestinesi – è stata abbandonata e sostituita dall’illusione che la sicurezza potesse essere creata e mantenuta da aerei, carri armati, fortificazioni e tecnologia per la sorveglianza. Quell’illusione è morta di una morte orribile, ma continua a esistere come uno zombi. La prima condizione per un ritorno alla politica sarebbe ammettere che tutta la linea di Netanyahu è stata un disastro, non solo per i palestinesi, ma anche per Israele.

Israele ha già tentato due strategie radicalmente diverse nella Striscia di Gaza. La prima era un’ortodossia militare e politica nota: conquistare e colonizzare. Gaza, appartenuta all’impero ottomano e poi al mandato britannico in Palestina, dopo il 1948 fu governata dall’Egitto, anche se né ai suoi abitanti originari né alla vasta popolazione di rifugiati fu concessa la cittadinanza egiziana. Conquistata da Israele nel 1956, la Striscia fu rapidamente restituita al controllo egiziano. Ma dopo la guerra dei sei giorni del 1967 tornò a Israele e sarebbe stata amministrata da un governatore militare israeliano per quasi quarant’anni (il controllo civile di Gaza è passato nel 1994 all’Autorità nazionale palestinese, Anp). Alla fine degli anni settanta il governo di destra di Menachem Begin immaginò che questo dominio potesse essere reso permanente e stabile se un numero sufficiente di ebrei si fosse trasferito lì. S’insediarono nella Striscia 8.500 coloni, un numero abbastanza grande per creare nei palestinesi la sensazione che la loro esistenza fosse in pericolo, ma troppo piccolo per controllare il territorio. A Israele servivano tremila soldati per proteggere 8.500 ebrei. Nella seconda intifada (2000-2005) ne perse 230.

La decisione presa da Ariel Sharon nel 2005 di mettere fine all’occupazione militare e di smantellare con la forza gli insediamenti non fu un capriccio. Fu un riconoscimento della realtà: il tentativo di colonizzazione non era più sostenibile. Occupando Gaza, Israele non aveva guadagnato nulla e aveva perso soldati, denaro e reputazione.

Non per niente nel 2014, quando Hamas lanciava razzi contro Israele, Netanyahu non ha sostenuto il suo ministro degli esteri Avigdor Liberman, che chiedeva di riconquistare e rioccupare Gaza. Netanyahu aveva già usato toni aggressivi contro Hamas, affermando nel 2008: “Porteremo a termine il lavoro. Rovesceremo il regime terroristico di Hamas”. Ma in realtà non ha mai voluto rovesciare Hamas. Ha usato la minaccia come un espediente retorico. E oggi cerca di riempire questo contenitore vuoto di un significato e di uno scopo. E di sangue.

Due fallimenti

Per Israele la vera alternativa all’occupazione militare e alla colonizzazione era proprio Hamas. I fondamentalisti religiosi – fedeli a un antisemitismo estremo e all’idea di cancellare Israele – potevano essere usati per indebolire l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e, dopo il 2005, per mantenere il movimento palestinese diviso tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. La stranezza di questa linea non stava solo nell’illusione che un movimento jihadista potesse essere, nella pratica, un alleato di Israele, ma nella forma di guerra che creava. Dato che Hamas avrebbe continuato ad attaccare Israele, Israele avrebbe continuato a fare ritorsioni. Le rappresaglie sarebbero state sanguinose, spesso orrende nel bilancio delle vittime civili. Ma sarebbero state calibrate in modo da garantire che Hamas restasse al potere a Gaza.

Un’analisi delle guerre di Israele nella Striscia tra il 2009 e il 2014, commissionata dall’esercito di Washington all’istituto di ricerca statunitense Rand Corporation e pubblicata nel 2017, mostra un modo di combattere progettato per non sconfiggere il nemico: “Israele non si è mai battuto per una vittoria decisiva a Gaza. Anche se era in grado di sconfiggere militarmente Hamas, non poteva rovesciarlo senza rischiare che un’organizzazione più radicale governasse Gaza. E Israele non voleva neanche assumersi la responsabilità di governare Gaza in un vuoto di potere postbellico”.

In questa politica, che consisteva nell’attaccare ripetutamente un regime con una travolgente potenza di fuoco senza però volere la vittoria, era implicita l’impossibilità di arrivare a una conclusione. Non ci sarebbe stata pace, ma neanche una guerra decisiva. Anche se queste eruzioni di violenza hanno provocato la morte di migliaia di palestinesi e di centinaia di israeliani, il loro scopo era mantenere la brutalità a un livello che la Rand corporation definisce “gestibile”.

L’idea di una carneficina controllata ha avuto come risultato il massacro del 7 ottobre. Netanyahu è stato costretto ad abbandonare da un giorno all’altro lo schema che era stato la base di tutto il suo approccio alla questione palestinese: fare in modo che Hamas restasse abbastanza forte da negare autorità all’Anp, ma abbastanza debole da non rappresentare niente di più che una minaccia sporadica e limitata per i cittadini israeliani.

Il fallimento del piano A di Israele era stato riconosciuto con il ritiro da Gaza nel 2005. Il collasso ancora più catastrofico del piano B è stato ammesso dopo che gli attacchi di Hamas hanno distrutto l’illusione di un contenimento in senso letterale e politico. Ma l’unica risposta che Netanyahu sembra capace di dare è un miscuglio totalmente incoerente del piano A e del piano B. Ci sarà, per un periodo imprecisato, un’occupazione militare. Ma finirà in una sorta di ritorno alla situazione che seguì il ritiro del 2005: potere senza responsabilità. Israele eserciterà un potere assoluto su Gaza, ma non se ne assumerà la responsabilità. Questo non è un piano, è la fusione di due fallimenti.

Incollare i cocci

L’occupazione militare non ha funzionato quando la Striscia aveva una popolazione meno numerosa, quando le sue città non erano ridotte in macerie, e quando c’era una generazione in meno cresciuta nella disperazione e nel rancore. Nessuno sembra pensare che possa funzionare ora. Allo stesso modo, la convinzione che Gaza potesse essere controllata dall’esterno da un governo israeliano che non si assumeva nessuna responsabilità verso la sua popolazione, non si prendeva nessun obbligo per il suo benessere e poteva isolarsi dalle sofferenze che questo avrebbe generato, si è dimostrata una calamità. L’idea che i cocci di queste due strategie fallite possano essere incollati insieme per creare quella che il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant definisce “un nuovo regime di sicurezza” non è credibile.

Bombe e carri armati non rispondono alle domande. Chi dovrà governare Gaza se non Hamas o Israele? Israele pensa davvero che qualcun altro – un consorzio internazionale o un regime fantoccio palestinese – entrerà in questo mondo infernale insanguinato fatto di macerie e polvere, abitato da sopravvissuti traumatizzati, e si prenderà il compito di ricostruirlo, sorvegliarlo e governarlo? Come farà Israele a ottenere con i suoi vicini quella pace senza la quale non può esserci sicurezza per i suoi cittadini?

Queste questioni politiche restano senza risposta e lo stesso vale per quelle morali. Quanti morti sono troppi morti? Come saranno rispettati gli obblighi del diritto internazionale e della decenza in strade piene di bambini, donne, anziani e malati? Cosa difende l’“autodifesa” israeliana? Israele vede la sua vera immagine in questo massacro? Riesce a immaginare una vita oltre la vendetta? ◆ fdl

Fintan o’Toole è un giornalista e scrittore irlandese, editorialista dell’Irish Times.

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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati