Domenica pomeriggio, chiudendo il festival di Internazionale a Ferrara, il filosofo giapponese Kohei Saito ha evocato la regola del 3,5, una teoria elaborata da Erica Chenoweth, studiosa di Harvard: quando un movimento non violento arriva a coinvolgere in modo attivo il 3,5 per cento della popolazione, il successo è garantito e inevitabile.
Rispondendo alla domanda di una ragazza che chiedeva cosa si può fare di concreto per cambiare le cose, Saito ha spiegato che cominciare a organizzarsi, dal basso e in momenti come per esempio quelli del festival, è già un primo passo.
A Ferrara lo scorso fine settimana non c’era, ovviamente, il 3,5 per cento della popolazione italiana, però c’erano tantissime persone, come non se ne vedevano da prima della pandemia.
Sarebbe stato contento Jeff Jarvis, giornalista statunitense e grande esperto di mezzi d’informazione. L’anno scorso ha pubblicato un saggio che s’intitola semplicemente Magazine, rivista, in cui scrive tra l’altro: “Per me l’essenza di un magazine non sono né gli articoli né le immagini, ma la comunità”.
Jarvis racconta che le riviste, almeno quelle statunitensi, che poi sono tra le più antiche, sono state costruite proprio sulle comunità. Un tempo erano luoghi intorno ai quali i lettori e le lettrici si riunivano perché condividevano un interesse, un bisogno, una circostanza, un particolare gusto culturale, un’affinità: una comunità, anche se immaginaria. “Le riviste non si limitavano a riunire le comunità, ma le spingevano ad agire in campagne e battaglie”.
I magazine statunitensi, ricorda Jarvis, sono stati i primi a muoversi per abolire la schiavitù (National Era), sono stati fondamentali per il movimento femminista (Ms. Magazine) e poi per il movimento pacifista e contro la guerra in Vietnam (Ramparts, The Nation, Rolling Stone): “Forse sogno troppo, auspicando l’evoluzione delle riviste e dei loro valori in questa nuova realtà”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero | Abbonati