La giornata del 6 dicembre offre una fotografia politica della Romania dopo dieci anni di presidenza di Klaus Iohannis (Partito nazional-liberale, Pnl, centrodestra). Dietro un’apparente solidità e una retorica trionfalistica c’è la realtà di un paese diviso e di uno stato minacciato da mediocrità e clientelismo. L’impasse in cui si trova la Romania ha portato alla decisione della corte costituzionale di annullare le elezioni presidenziali, e quindi il ballottaggio dell’8 dicembre. Non è qualcosa di cui rallegrarsi collettivamente: la situazione è grave e rende obbligatorie alcune domande sullo stato di salute e sulle prospettive della democrazia in Romania.

Dopo aver oscillato tra posizioni diverse, la corte ha preso la sua decisione. Il comunicato e poi le motivazioni rese note dai giudici si possono ricondurre a un concetto che può essere definito “democrazia militante”. In qualità di guardiano della costituzione e delle elezioni, la corte è intervenuta invalidando una consultazione ritenuta viziata da irregolarità e non rispettosa dei diritti degli elettori. Come nella tradizione della giurisprudenza della corte, l’argomentazione è molto fragile. Anche nel caso dell’esclusione della candidata di estrema destra Diana Şoşoacă dal primo turno delle presidenziali (per alcune dichiarazioni aggressive e discriminatorie ritenute contrarie alla legge), la corte era stata abbastanza incerta nel giustificare il suo punto di vista. Nello stesso pronunciamento con cui hanno annullato il voto del 24 novembre, i giudici hanno stabilito che, con le elezioni da ripetere, l’attuale capo di stato rimarrà in carica fino alla nomina del suo successore.

Il 6 dicembre ha anche segnato la tardiva ripresa del dialogo tra il presidente Iohannis e i cittadini romeni, ignorati per troppo tempo. Ma il discorso pronunciato da Iohannis non ha tenuto conto delle emozioni che una decisione come quella della corte può innescare nella coscienza dei cittadini. Inoltre è stato piuttosto vago nella scelta delle parole. La Russia è il paese che ha attaccato il nostro ordine costituzionale, ma il suo nome è stato solo suggerito, non indicato chiaramente.

Gli eventi di questo dicembre devono essere osservati con grande lucidità per poter immaginare un futuro di stabilità e dignità politica. Annullare un voto non elimina le cause di fondo dei problemi, che non possiamo più ignorare: la protesta arrivata dalle urne e l’apatia di larga parte dell’elettorato. Il presidente e i funzionari dello stato hanno l’obbligo di andare fino in fondo nello smascherare questa congiura interna. La trasparenza è l’unico rimedio contro la sfiducia crescente.

Da Antonescu a Ceaușescu

In tutto questo il successo al primo turno delle presidenziali del populista filorusso Călin Georgescu è la cartina di tornasole che rivela la crisi della democrazia e la fragilità delle istituzioni romene. Georgescu incarna la complicità che ancora esiste tra alcuni settori della società e la Securitate (la polizia politica del regime di Nicolae Ceaușescu). Il suo messianesimo ha rispolverato non solo le idee dei legionari della Guardia di ferro (il partito fascista e antisemita attivo in Romania negli anni trenta) e di Ion Antonescu (il dittatore della Romania tra il 1940 e il 1944), ma anche il tribalismo degli anni di Ceaușescu. Il suo successo è il prodotto di una patologia politica vecchia di decenni: un prodotto di laboratorio che però non si sarebbe potuto sviluppare in assenza di un ambiente plasmato dalla mediocrità e dall’arroganza dei recenti leader del paese. In questi anni la frustrazione ha alimentato una corrente di eccessi demagogici, mentre i partiti tradizionali si sono dimostrati incapaci di rappresentare i cittadini.

In questo quadro la Russia è aggressore e agisce da catalizzatore. I documenti presentati dal consiglio supremo di difesa romeno parlano chiaro: la Russia e la Cina si sono impegnate per aiutare Georgescu a diventare capo di stato. Mosca sta conducendo una guerra ibrida contro la Romania. Quello che succede oggi, però, è il culmine di un processo a lungo ignorato dalle autorità. Il 6 dicembre non è il lieto fine di un film di spionaggio: la democrazia si rafforza solo attraverso il dialogo con i cittadini. Immaginare che possiamo andare avanti come se questi ultimi giorni non fossero mai esistiti sarebbe un errore terribile. E rimettere in moto il processo elettorale è una soluzione di breve termine. Per ridare forza alla democrazia e difendere la libertà bisogna eliminare falsità e mediocrità. Perché altrimenti, prima o poi, la solita politica tornerà ad alimentare un nuovo messianesimo. ◆ mt

Da sapere
Una decisione discutibile

◆ Al primo turno delle presidenziali romene del 24 novembre 2024 il più votato è stato l’indipendente Călin Georgescu, di estrema destra e filorusso, che ha sconfitto a sorpresa i candidati dei partiti tradizionali, dopo una campagna elettorale condotta esclusivamente sui social media. L’8 dicembre Georgescu avrebbe dovuto sfidare al ballottaggio la liberale Elena Lasconi, ma due giorni prima la corte costituzionale ha invalidato l’intero processo elettorale, sostenendo che il primo turno era stato falsato dalle interferenze russe a favore di Georgescu. Il nuovo voto si terrà nei primi mesi del 2025.

◆ “Il ragionamento della corte”, scrive Bogdan Manolea su Contributors, “considera solo le informazioni ottenute dalla declassificazione di alcuni documenti dei servizi segreti. Come hanno già detto altri, si tratta di indicazioni preliminari e non di prove in grado di dimostrare che il voto è stato alterato. Due dei cinque documenti citati non dicono nulla riguardo a possibili manipolazioni. Il resto sono prove molto labili, prese in gran parte da Tik Tok”. “Se gli elettori penseranno che il loro voto non conta nulla, visto che le elezioni possono essere annullate”, scrive Spotmedia, “si allontaneranno sempre di più dalla democrazia. E questo intaccherà la legittimità di qualsiasi potere politico”.


Ioan Stanomir è un giornalista e politologo romeno. È professore di diritto costituzionale all’università di Bucarest.

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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati