I popoli arabi credono di parlare la stessa lingua, invece a volte perfino nello stesso paese non riescono a mettersi d’accordo neanche su come chiamare il cavolfiore, l’anguria o il pomodoro.

In Egitto, per esempio, il pomodoro ha due nomi. Uno è tamatem, che deriva dall’originale mesoamericano, traducibile con “acqua grassa con ombelico”. L’altro è outa o qouta, che forse inizialmente stava a indicare i cesti di frutta di vimini ma che, da un certo punto in poi, è stato usato solo per i pomodori, probabilmente perché ne contenevano grandi quantità.

Francesca Ghermandi

Nei dialetti levantini, il pomodoro si chiama bandora. Secondo una teoria etimologica il nome sarebbe una bastardizzazione dell’italiano “pomodoro”, forse a testimonianza del fatto che i pomodori arrivarono in queste zone sulle navi mercantili provenienti da Venezia, da Genova o da una delle altre città stato italiane.

Secondo un’altra fonte, invece, il pomodoro sarebbe arrivato in Siria non grazie a un italiano ma al console britannico John Baker, alla fine del settecento. Naturalmente, può darsi che Baker lo abbia portato e poi i siriani abbiano scelto un nome copiandolo dagli italiani che vivevano nel Levante. O magari ci troviamo di fronte all’ennesimo esempio di arroganza imperiale, in cui i britannici si prendono il merito per qualcosa che c’era già, come per esempio la civiltà.

Se è chiaro che furono gli europei a far conoscere il pomodoro agli arabi e ai turchi, forse furono questi ultimi a insegnare agli europei come usarlo in cucina. L’apprezzamento occidentale per il pomodoro è “abbastanza recente”, secondo il botanico statunitense Edgar Anderson. “Ci è arrivato non dal Messico, ma dagli italiani e dai francesi. I francesi hanno imparato l’uso del pomodoro dagli italiani e gli italiani stessi lo avevano appreso dai turchi, o almeno dai popoli del Levante”, scrive nell’edizione del 1952 degli Annals of the Missouri botanical garden.

Per confondere ulteriormente le acque, secondo Anderson la parola italiana pomodoro (letteralmente “mela d’oro”) era in realtà una bastardizzazione di “pomo dei mori”: l’attuale varietà rossa dei pomodori sarebbe stata inizialmente coltivata in Nord­africa per poi essere importata in Italia. In Francia il nome sarebbe cambiato ancora, diventando pomme d’amour (“mela dell’amore”).

Queste migrazioni e mutazioni di termini sono molto comuni nel mondo dell’alimentazione. Prendiamo le arance. La parola “arancia” è stata importata nelle lingue europee dall’arabo (naranj), che a sua volta l’ha presa in prestito dal termine sanscrito che indica l’albero delle arance (naranga). Ma mentre la parola “arancia” è ancora usata in molte parti d’Europa, nell’arabo moderno è caduta in disuso. Oggi gli arabi chiamano le arance bortuqal, in riferimento al Portogallo, probabilmente perché tra i paesi del Mediterraneo è lì che sono state coltivate per la prima volta le arance dolci, a differenza di quelle amare coltivate dagli arabi.

La parola araba sharab (bevanda) ha generato diverse mutazioni, tra cui sharbat, sherbet, sorbette, sorbet, syrup e gli italiani sorbetto e sciroppo. Alcuni nomi di alimenti tornano a casa dopo secoli di peregrinazioni e vengono reintegrati nella lingua originale, che si trova ad avere due parole per lo stesso ingrediente. Un esempio lampante è il carciofo, che nasce in arabo come al kharshufa e diventa alcachofa in spagnolo, carciofo in italiano e artichaut in francese. L’inglese artichoke in qualche modo è tornato alla terra di origine ed è stato riarabizzato nel Levante come ardi (terra) shoki (pungente, spinoso), in un processo noto come corrispondenza fonosemantica.

Se l’itinerario del pomodoro può essere sorprendente, non è un caso isolato. Come dimostra il girovagare delle parole di cui parlavamo prima, la storia migratoria dei cibi e delle cucine rivela che la nostra tavola è un calderone – o un’insalata mista – di cose provenienti da civiltà diverse. Oggi gli europei danno per acquisiti molti ingredienti introdotti dagli arabi e dai musulmani, come le spezie che un tempo facevano le fortune dei mercanti.

Alcuni all’inizio non erano nemmeno considerati commestibili. In Europa, per esempio, il pomodoro fu usato per secoli soprattutto come pianta ornamentale: la gente si rifiutava di mangiarlo per paura che fosse una “mela avvelenata” o addirittura per la sua somiglianza con la belladonna, il “frutto del diavolo”.

A prescindere da chi nel Mediterraneo ne abbia scoperto per primo l’uso in cucina, oggi il pomodoro è onnipresente nei piatti della regione, anche nelle zone che un tempo facevano parte o erano sotto l’influenza dell’impero ottomano.

A quanto pare, inoltre, la sua diffusione non è avvenuta per gradi ma di getto, come una marea improvvisa. L’uso della salsa di pomodoro per condire la pasta risale alla fine del settecento, e le ricette per la pizza al pomodoro cominciarono a spuntare solo negli anni trenta del secolo successivo; la famosa margherita comparve solo alla fine dell’ottocento.

Mio figlio, che trova disgustoso il sapore di questo frutto-ortaggio, o ortaggio-frutto, sarebbe molto contento se fosse ancora una pianta ornamentale (anche se vorrebbe dire rinunciare al suo adorato ketchup). È rimasto incredulo, però, quando ha scoperto che la stessa diffidenza circondava un’altra importazione dal nuovo mondo, la patata, oggi apprezzata in tutto il pianeta.

Oggi consideriamo la patata come uno degli ingredienti base della dieta mondiale, ma c’è voluto parecchio tempo prima che la gente comune la portasse a tavola. I superstiziosi contadini europei credevano che fosse il frutto di una stregoneria e alcuni si rifiutavano di mangiarla perché non era citata nella Bibbia.

Oggi gli europei danno per acquisiti molti ingredienti introdotti dagli arabi e dai musulmani. Alcuni all’inizio non erano nemmeno cibi. Il pomodoro era una pianta ornamentale

Fu necessaria una monumentale campagna di persuasione da parte dell’aristocrazia (Luigi XVI portava un fiore di patata all’occhiello e Maria Antonietta ci si adornava i capelli) per convincere i poveri a mangiare questo tubero sotterraneo dall’aspetto poco invitante.

Gli sforzi, però, hanno pagato. La patata è stata talmente assimilata nelle diete degli europei che molti non sanno niente delle sue radici straniere.

Il Belgio, il paese dove vivo, è talmente pazzo delle patate che ha elevato la loro versione fritta (le frieten o frites) allo status di piatto nazionale, l’accompagnamento perfetto per la birra. Non solo ci sono negozi che vendono patate fritte a ogni angolo di strada, c’è addirittura una gara annuale per incoronare il miglior friggitore di patatine del paese. Un famoso chef belga ha chiuso il suo ristorante stellato per aprire una paninoteca di lusso dove le sue speciali chips accompagnano la carne.

Nel 2011, quando i giovani belgi, ispirati dai loro coetanei arabi, sono scesi in piazza per manifestare contro l’incapacità dei politici di formare un governo, hanno ribattezzato scherzosamente la loro protesta “rivoluzione delle patatine fritte”.

La melanzana è stata oggetto di una diffidenza simile in Medio Oriente finché l’intervento reale non l’ha elevata al rango di “caviale delle verdure”, come ha raccontato la scrittrice palestinese Reem Kassis.

Nel nono secolo alcuni arabi la disprezzavano perché, dicevano, aveva “il colore dell’addome dello scorpione e il sapore della sua puntura”. Quando però, nel dicembre dell’825, il califfo abbaside Al Mamun organizzò un sontuoso banchetto per festeggiare le sue nozze con Khadija, la figlia del suo visir, la presenza di un piatto a base di melanzane cambiò per sempre le sorti dell’ortaggio.

Nella prima Europa moderna non erano solo i cibi stranieri a essere sospettati di stregoneria, ma anche le bevande. Tra queste c’era l’infuso del demonio, il caffè, inventato dai miscredenti musulmani. Se oggi gli italiani sorseggiano beati il loro cappuccino (che, ironicamente, prende il nome dal colore della tunica degli omonimi frati), in passato il clero italiano considerava il caffè una creazione di Satana per via dell’eccitazione demoniaca che procurava, oltre che per le sue origini musulmane.

Come spesso accade con le demonizzazioni, il motivo principale non era la paura del diavolo, ma quella della sedizione. Il caffè (derivato dalla parola araba qahwa) non solo rendeva le persone più vigili, ma le spingeva a raccogliersi nei moderni bar, un uso di discendenza araba, che erano diventati enclave del dissenso frequentate da intellettuali e artisti. Il potenziale sedizioso del caffè e dei locali dove veniva servito era talmente temuto da alcuni potenti che ci furono ripetuti tentativi di mettere al bando la bevanda e i bar un po’ ovunque, dalla Mecca a Istanbul fino all’Italia, al Regno Unito, alla Svezia e alla Prussia.

Fortunatamente per noi europei amanti della caffeina, fu l’insospettabile papa Clemente VIII a sdoganare la bevanda. Il pontefice, dice la leggenda, assaggiò il caffè e gli piacque talmente che decise di battezzare il chicco musulmano, convertendolo in cristiano.

Arabi e musulmani non hanno influenzato solo quello che gli europei bevono e mangiano, ma anche il loro comportamento a tavola. La tipica immagine degli arabi seduti a terra che consumano i pasti con le mani o usano un pezzo di pane per raccogliere il cibo è talmente radicata che sono rimasto di sasso quando ho scoperto che l’uso della forchetta per infilzare il cibo e non contaminare le dita non è stata un’invenzione europea ma persiana, proprio come i tacchi alti.

Non solo: l’ossessione medievale per le spezie tra le élite europee non nasce dall’esigenza di mascherare il gusto dei piatti volgari, come è stato sostenuto, ma dal desiderio di copiare i “pasti sfarzosi” degli arabi, scrive un ricercatore che ha messo a confronto le ricette degli antichi libri di cucina europei con quelle arabe.

Oggi usiamo termini francesi per descrivere le portate di un pasto, ma anche l’idea di consumare il cibo in momenti separati è araba. Fu introdotta in Europa alla corte di Abdel Rahman II a Cordova (allora musulmana) dal dandy medievale Ziryab (uccello nero), che a Baghdad aveva frequentato la corte di Al Mamun, il già citato califfo amante delle melanzane. Ziryab pensò anche le stagioni della moda, sviluppò una forma di deodorante, reinventò l’oud arabo come liuto spagnolo e rivoluzionò la teoria musicale.

Francesca Ghermandi

Come possiamo vedere, il cibo, non diversamente dall’uomo, è un grande migratore. Una cosa che vale per gli ingredienti e per le ricette. In questo grande miscuglio di civiltà, la cucina fusion non è niente di nuovo; anzi, possiamo dire che è la condizione di base della gastronomia. Si fa fatica a trovare un piatto che non contenga ingredienti e influenze di qualche altro posto nel mondo, non solo presi in prestito dai popoli amici ma anche tacitamente carpiti dai nemici più disprezzati.

Il cibo viaggia spesso sulle spalle dell’imperialismo, ma tende anche a sopravvivere all’impero che lo diffonde: gli ottomani, i francesi e i britannici ne sono la dimostrazione. Ecco perché i paesi del Mediterraneo, per esempio, hanno molto in comune in ambito culinario, anche se ognuno rivendica gelosamente la proprietà della sua cucina.

Una delle mode gastronomiche lanciate nel Regno Unito è quella del tè. È risaputo che i britannici, per saziare la loro sete liberi dal dominio cinese, crearono piantagioni di tè nell’Asia meridionale, dove la passione per il masala chai con il latte ancora resiste, ed esportarono la bevanda in tutto l’impero e oltre.

Meno noto è che la storia d’amore tra gli egiziani e il tè è nata sotto il dominio britannico. Il tè era disponibile anche da prima, ma non era molto apprezzato; la maggior parte degli egiziani preferiva la scossa elettrica del caffè.

Da piccolo, quando vivevo a Londra, non sapevo niente del ruolo del Regno Unito nella diffusione del tè. Ai miei occhi di bambino e di adolescente, il rito del tè egiziano e quello britannico appartenevano a due mondi separati. A casa, lo shai era dolce e di un colorito rossiccio, che noi chiamavamo “nero”. Fuori, invece, il tè aveva una sfumatura tra il marrone scuro e il beige, a seconda della quantità di latte aggiunto, ed era “bianco”.

Trovavo il tè con il latte talmente disgustoso che, quando mi chiedevano se ne volevo una tazza, facevo capire chiaramente ed educatamente che lo preferivo nero, se non era un problema, e non lo era mai. A volte, i genitori dei miei amici facevano la faccia un po’ stupita o interrogativa quando rivelavo i miei gusti esotici in fatto di bevande. Però era molto più stupita la mia quando dimenticavo di esprimere la mia preferenza (o loro dimenticavano la mia richiesta) e mi servivano il tè bianco.

A volte, scusandomi, facevo notare che non prendevo il tè con il latte. Al che l’ospite si profondeva in mille scuse per essersene dimenticato e tornava con un tè non sbiancato, addolcito con varie zollette di zucchero per chiedermi scusa. Altre volte nascondevo la mia delusione, ma per quanto possibile cercavo di non bere il tè, a parte qualche breve sorso di­plomatico.

Per mia fortuna, anche i miei antenati rifiutavano educatamente il latte nel tè che i britannici gli avevano fatto conoscere.

Curiosamente, in Egitto il tè non superò in popolarità il caffè fino agli anni venti del novecento. Questo vuol dire che quando sono nati i miei nonni il tè era ancora una moda relativamente recente. Poi però in pochissimo tempo diventò la bevanda nazionale non ufficiale, apprezzato tanto dai contadini nei campi quanto dai cittadini nelle sale da tè. In realtà, “sala da tè” è un termine sbagliato. Gli egiziani consumano ancora il tè nelle qahwa (sala da caffè); alla fine del seicento in tutto il paese c’erano più di seicento bayt qahwa.

Questa illusione di longevità non vale solo per il tè, ma è un tratto comune delle cucine nazionali: si tende a dare per scontato che siccome un alimento o una bevanda sono molto diffusi in un certo luogo, devono per forza avere una tradizione antichissima.

Pensiamo per esempio alla tipica scena degli egiziani che passeggiano lungo le sponde del Nilo sgranocchiando patate dolci al cartoccio o pannocchie di mais alla griglia: può sembrare una tradizione senza tempo. Magari è così, ma non con questi due ingredienti, perché sia il mais sia le patate dolci erano sconosciuti in Egitto prima del cosiddetto scambio colombiano, che cominciò nel cinquecento. Uno dei piatti egiziani più famosi, il koshari – uno stravagante miscuglio di paste, riso, aglio, ceci, cipolle fritte, salsa al peperoncino e aceto all’aglio – è un’innovazione molto recente. Nessuno sa con certezza come e quando sia nato. Sembra che sia il prodotto del melting pot culturale dell’Egitto della metà del novecento, anche se per qualcuno risale addirittura alla metà del secolo precedente.

Nella mia testa, il misterioso nome di koshari evocava immagini di piatti kosher, ma poi un mio amico indiano mi ha fatto notare le analogie, fonetiche e gastronomiche, con il famoso khichri indiano. Una delle teorie è che i soldati indiani abbiano importato il khichri quando erano di stanza in Egitto sotto il comando dell’impero britannico. Il piatto si sarebbe poi fuso con il mujaddara arabo e con la pasta italiana per dare vita al caratteristico miscuglio che conosciamo oggi.

Quello che c’insegna il caso del koshari è che le influenze gastronomiche e le culture culinarie spesso attraversano le frontiere grazie ai migranti poveri. Alcune delle cucine più famose del mondo sono diventate tali non solo per la qualità intrinseca dei piatti ma anche grazie a ondate di emigrati pronti, capaci e disposti ad aprire ristoranti e trattorie nei posti più disparati. Ne sono un esempio le cucine italiana, indiana (in gran parte punjabi), irlandese e libanese.

La diffusione in tutto il mondo di pub irlandesi e ristoranti libanesi non sarebbe stata possibile senza la miseria economica e i disordini politici che spinsero varie generazioni dei due piccoli paesi a lasciare la loro terra fino a creare una diaspora immensa.

È questa migrazione, non la qualità del cibo, a spiegare il predominio globale dei ristoranti libanesi su quelli siriani. Infatti, c’è chi dice che la cucina siriana sia superiore, e non la pensano così solo i siriani. Quando vivevo a Gerusalemme ed elogiavo la cucina palestinese, alcuni palestinesi erano i primi a dire che la cucina siriana era la migliore della regione.

Gli ultimi dieci anni di guerra e tormenti politici in Siria hanno innescato un processo analogo a quello libanese. Se quando ero bambino era quasi impossibile trovare un ristorante siriano fuori della Siria, oggi stanno aprendo ristoranti siriani dappertutto. Nella cittadina belga di Gent qualche anno fa ha aperto un sontuoso ristorante siriano a pochi metri da casa mia. Purtroppo, tutto questo ben di dio è andato a scapito della Siria stessa, che ha visto la sua diversità gastronomica spazzata via dal conflitto.

Naturalmente, se la cucina siriana sia meglio di quella libanese o viceversa è un fatto di gusti personali, visto anche quanto si somigliano. I nazionalisti del cibo, però, ne fanno una questione d’identità collettiva, orgoglio e politica, dietro cui spesso si nasconde un conflitto. Questa rivalità gastronomica, con le sue guerre dell’hummus, è molto presente nel Levante contemporaneo, attraversato da molteplici linee di faglia identitarie, soprattutto quando si tira in ballo Israele.

Ma i conflitti culinari non si limitano al Medio Oriente. Tra gli esempi più famosi ci sono l’India e il Pakistan, o la Turchia e la Grecia. Da antinazionalista e curioso per natura, quando ero in vacanza a Creta l’anno scorso mi sono chiesto cosa sarebbe successo se qualcuno avesse ordinato un caffè turco in Grecia o un caffè greco in Turchia, visto che sono due miscele praticamente identiche. Per una volta, però, ho deciso di non essere impertinente e di tenermi la curiosità.

Le somiglianze tra tanti piatti nazionali nel Mediterraneo fanno sembrare un po’ discutibili etichette come Dop, la denominazione di origine protetta dell’Unione europea.

Prendiamo il caso dell’halloumi. Qualche mese fa, l’Unione ha riconosciuto a Cipro il diritto esclusivo di usare il nome di questo formaggio gommoso e quasi impossibile da sciogliere. In altre parole, l’halloumi prodotto fuori da Cipro deve avere un altro nome. Nel frattempo, però, siccome i paesi produttori di hummus non fanno parte dell’Unione europea, una pletora sconcertante (e spesso stomachevole) di salse e paste possono chiamarsi hummus anche quando non contengono ceci (che in arabo si chiamano hummus), cioè l’ingrediente base di questa crema.

Ecco il nodo centrale di concedere a Cipro quello che di fatto è un marchio commerciale registrato sul nome. L’halloumi ha secoli di storia ed è amato in molte parti del Mediterraneo, compreso il Levante. Perfino il nome deriva dall’arabo, che a sua volta deriva dal copto, e una ricetta di quel formaggio appare in un libro di cucina egiziano di epoca medievale.

Nonostante tutto, è possibilissimo che Cipro sia effettivamente il luogo in cui è nato quello che oggi chiamiamo halloumi. Ma il punto non è questo. Il problema è che l’halloumi è considerato un prodotto locale anche fuori da Cipro, e non è giusto che altri non possano venderlo in Europa usandone il nome. E poi, visto che il cibo fa parte del nostro patrimonio culturale comune, è corretto che un paese o una regione possa di fatto rivendicare brevetti e lucrare sul nazionalismo gastronomico?

La forma più sgradevole è senza dubbio il suprematismo gastronomico. Capisco che sia facile avere un debole per i piatti con cui siamo cresciuti, che non tutte le cucine siano buone allo stesso modo e che il gusto, come l’amore, sia una questione soggettiva. Ma non riesco a immaginare come si possa essere talmente innamorati della propria cucina da considerare inferiori le altre. In fin dei conti, quasi tutte le cucine sono un guazzabuglio d’ingredienti e influenze che arrivano dall’estero.

La stessa cosa vale per la cultura in generale. Mentre il particolare sapore di una cultura appartiene a un luogo e a un periodo specifico, gli ingredienti che la costituiscono provengono da tutto il mondo. Anche se i nazionalisti e gli sciovinisti sono convinti di vivere in uno scontro di civiltà, la realtà è che a scontrarsi sono soprattutto gli interessi, mentre le civiltà quasi sempre si mescolano tra loro. ◆ fas

Khaled Diab
è un giornalista e scrittore di origini egiziane. Vive in Belgio. Questo racconto è uscito su New Lines con il titolo Food plays its role in a borderless world.

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati