È primavera a Houston, in Texas, e questo significa che ogni giorno la temperatura aumenta, e anche l’umidità. I mattoni di casa mia trasudano. Nel cortile l’aria bagnata si condensa sulle foglie del mirto crespo e alla minima brezza dai rami viene giù l’acqua. L’umidità ha annerito l’aiuola, e dal pacciame scuro è emerso quello che sembra un mucchietto di vischiose uova strapazzate in un’inquietante tonalità giallo-bile.

Riconosco in questo curioso esemplare l’etalio della Fuligo septica, un fungo mucillaginoso. Nonostante il nome non si tratta di un vero fungo ma di un mixomicete, una piccola categoria di creature poco studiate che a volte appaiono nei giardini e nei cortili. Come i funghi, i mixomiceti cominciano la loro vita da spore, ma quando una spora germina e si spacca, ne viene fuori una microscopica ameba. L’ameba piega ed estende un’estremità della sua cellula per trascinarsi, a volte consumando batteri, lieviti e microalghe, e a volte dividendosi per clonarsi e moltiplicarsi. In ambienti saturi d’acqua può sviluppare una specie di coda che agita qua e là per spostarsi, mentre sulla terra asciutta la coda si ritrae e scompare. Quando un’ameba ne incontra un’altra con cui è geneticamente compatibile, i due esemplari si fondono, unendo cromosomi e nuclei. Il nuovo nucleo comincia a dividersi e ridividersi mentre scivola sul suolo della foresta, sotto i tronchi in decomposizione o tra le foglie umide, cacciando le sue prede microscopiche, risucchiando ogni boccone nel suo plasmodio appiccicoso, diventando sempre più grande. Al termine della sua vita si trasforma in un etalio, un “corpo fruttifero” che in alcune specie può essere spongiforme e in altre simile a un deposito di calcio indurito, oppure, come la Stemonitis axifera, cresce in centinaia di sottili gambi color ruggine. Quando si trasforma in questo stato irreversibile il mixomicete si divide in innumerevoli spore e le rilascia perché siano trasportate altrove dal vento. Se le condizioni sono favorevoli, alcune di loro germineranno e il ciclo comincerà di nuovo.

Per tutta la loro vita, i mixomiceti sono costituiti da un’unica cellula

Dal punto di vista tassonomico, la Fuligo septica nel cortile davanti a casa mia appartiene alla famiglia delle Physara­ceae, ordine delle Physarales, classe Myxogastria, un gruppo che contiene meno di mille specie. Queste creature esistono in tutti i continenti e quasi ovunque siano state cercate: dall’Antartide, dove la Calomyxa metallica forma globi iridescenti, al deserto di Sonora, dove il Didymium eremophilum si abbarbica agli scheletri di cactus saguaro in decomposizione; dalle cime dei Pirenei, dove la Collaria chionophila fruttifica ai bordi della neve, alle foreste di Singapore, dove l’etalio dell’Arcyria denudata si raccoglie sulla corteccia degli alberi in decomposizione, come un ciuffo di zucchero filato. Anche se molte specie hanno colori intensi – arancione, rosa corallo o rosso – altre sono bianche o trasparenti. Alcune assumono il colore di quello che mangiano: l’ingestione di microalghe tinge alcuni mixomiceti di un verde acido. Il Physarum polycephalum è di un giallo brillante come un tuorlo d’uovo, ha 720 configurazioni sessuali, profuma vagamente di frutta e sembra avere un’autentica passione per la zuppa d’avena.

Per tutta la loro vita, i mixomiceti sono costituiti da un’unica cellula al cui interno il citoplasma scorre continuamente dal centro alle estremità e viceversa. Quando incontra qualcosa che gli piace, come la zuppa d’avena, il citoplasma pulsa più rapidamente. Se trova qualcosa che non gli piace, come il sale, il chinino, una luce intensa, il freddo o la caffeina, pulsa più lentamente e allontana il suo citoplasma (anche se può scegliere di superare queste avversioni quando è in gioco la sopravvivenza). In un famoso studio pubblicato su Science, dei ricercatori giapponesi hanno creato un modello dell’area metropolitana di Tokyo usando fiocchi d’avena per rappresentare i centri abitati, e hanno scoperto che il Physarum polycephalum sviluppava una struttura quasi identica a quella del sistema ferroviario della capitale. In un altro esperimento, gli studiosi hanno colpito un esemplare con un getto di aria fredda a intervalli regolari, e hanno scoperto che imparava a prevederlo e a ritrarsi per evitarlo. È capace di attraversare un labirinto per raggiungere un singolo fiocco d’avena e in seguito riesce a ricordare il percorso che ha seguito. Cosa ancora più straordinaria, un mixomicete nella fase di plasmodio può crescere senza limiti. Finché dispone di cibo sufficiente e di un ambiente adeguato, non invecchia e non muore.

La classificazione tassonomica ha sempre cercato di stabilire una gerarchia

Sterco del demonio

Nella piccola chiazza di pacciame nel mio cortile c’è una creatura che comincia la vita come un’ameba microscopica e la conclude come una poltiglia vibrante che produce spore, e per tutto il tempo rimane un’unica cellula in grado di diventare grande come un tappetino da bagno, senza cervello, vista o olfatto, ma capace di attraversare labirinti, imparare schemi, tenere il tempo e tramandare la conoscenza attraverso le generazioni.

Come si può classificare una creatura simile? Nel nono secolo l’erudito cinese Twang Ching-Shih chiamò una sostanza giallo pallido che cresceva in ambienti umidi e ombrosi kwei hi, “sterco del demonio”. Nelle tradizioni popolari europee, i mixomiceti sono considerati opera di streghe, troll e demoni, una maledizione mandata da un vicino per rovinare il burro o il latte. Nel suo Species plantarum – un libro che aspirava a elencare tutte le specie di piante conosciute all’epoca (quasi settemila nell’edizione del 1753) – Carlo Linneo nomina solo sette specie di mixomiceti. Tra loro riconosciamo la Fuligo nella specie che chiama Mucor septicus e che classifica erroneamente come un tipo di fungo.

A quel tempo la vita non era stata studiata al livello microscopico e le classificazioni tassonomiche di Linneo, che solo in pochi casi hanno retto all’analisi della scienza moderna, si basavano quasi interamente sul fenotipo osservabile – sostanzialmente, su come apparivano a occhio nudo. Linneo collocò il Mucor septicus nello stesso genere del Mucor mucedo perché somigliavano entrambi al muco. I corpi fruttiferi di queste specie sembravano un tipo di fungo e il fungo sembrava un tipo di pianta.

A sinistra Badhamia utricularis. A destra Didymium squamulosum (Alison Pollack)

Oggi Linneo è considerato il padre della tassonomia. Anche se naturalisti, filosofi e artisti avevano già cercato di imporre un ordine alla natura, fu il primo a classificare la nostra specie nel suo sistema, chiamandoci Homo sapiens e collocandoci, scandalosamente, all’interno del regno animale. L’idea che gli umani fossero esseri naturali, Anthropomorpha nello stesso ordine degli scimpanzé, dei gorilla e dei bradipi, suscitò le ire degli altri naturalisti, eredi di una tradizione intellettuale risalente ad Aristotele. Il filosofo greco aveva ordinato il mondo fisico in un continuum che andava dagli oggetti inanimati alle piante per arrivare fino agli animali. Quest’idea aveva ispirato la scala naturae, la visione cristiana del mondo, centrale nel pensiero europeo dalla fine dell’impero romano al rinascimento, che sistematizzava tutta la creazione dal basso verso l’alto, partendo dal mondo inanimato, salendo verso le piante e gli animali, e collocando gli umani sotto gli angeli e gli angeli sotto dio. Se ci fosse stato posto per qualcosa di simile a un mixomicete, sarebbe stato sicuramente vicino al fondo, poco sopra la polvere.

In seguito Linneo avrebbe rivisto le sue classificazioni dell’Homo sapiens, inserendo “varietà” che in un primo momento corrispondevano ai quattro angoli geografici del pianeta, ma che divennero gerarchiche, perché assegnavano un diverso valore intellettuale e morale basato sui fenotipi e gli attributi fisici. L’idea che gli umani potessero e dovessero essere ordinati – che alcuni fossero superiori ad altri e questa superiorità avesse una componente fisica oltre che sociale – era profondamente radicata in molti sistemi precedenti. Ma la tassonomia di Linneo dava a questi pregiudizi l’apparenza dell’oggettività. Quando Charles Darwin pubblicò L’origine della specie, nel 1859, la sua opera si fondava su questa “scienza”, che aveva insegnato agli europei bianchi a respingere l’idea dell’evoluzione se non li coronava di gloria.

A sinistra Craterium leucocephalum. A destra Stemonitis (Alison Pollack)

Ma la classificazione tassonomica ha sempre cercato di stabilire una gerarchia, a partire da Linneo, che offrì al mondo il suo sistema di nomenclatura binomiale e i suoi primi tre regni: piante (Regnum vegetabile), animali (Regnum animale) e minerali (Regnum lapideum, che Linneo stesso poi abbandonò). Ernst Haeckel – biologo, artista, filosofo e fervente discepolo di Darwin – nel 1866 ampliò il modello di Linneo aggiungendo un terzo regno: quello dei protisti, che comprendeva gli organismi microscopici conosciuti ma all’epoca non ancora compresi. Tra questi organismi c’erano le spugne, i radiolari e i mixomiceti, il termine che Heinrich Friedrich Link aveva proposto per i funghi mucillaginosi nel 1833.

Nell’ottocento lo sviluppo della tecnologia del microscopio aveva offerto a Haeckel e agli altri biologi la possibilità di gettare uno sguardo sul mondo degli organismi invisibili a occhio nudo, suscitando l’interesse a spiegare in modo sempre più dettagliato i rapporti evolutivi di tutte le specie terrestri. Haeckel chiamò questa nuova scienza “filogenesi”, e riempì pagine e pagine delle sue opere con alberi dai disegni intricati, magnifici nell’esecuzione ma diabolici nelle implicazioni. Nella sua illustrazione forse più celebre, L’albero della vita, collocò l’essere umano in cima a una grande quercia, mentre le scimmie antropomorfe, gli ungulati, gli “animali senza cranio”, i vermi e le amebe sono più in basso, perché li considerava meno evoluti e quindi più vicini alla radice della creazione. In altre opere classificò l’umanità in ben dodici specie diverse con differenti storie evolutive. E gli europei bianchi, a suo giudizio, erano i più evoluti, importanti e civili.

L’invenzione della superiorità

Dopo Haeckel e Linneo la tassonomia si è evoluta, ma gran parte del loro pensiero sopravvive. Anche se la scienza non considera più gli esseri umani divisi in specie diverse e disuguali, continuiamo a parlare di razza come se fosse una categoria naturale, biologica, invece che una categoria sociale creata al servizio della supremazia bianca. Anche il mito che gli esseri umani sono superiori a tutte le altre specie – che la nostra complessità e intelligenza contano e quelle di altre specie no – esiste al servizio della supremazia bianca, conferendo a troppa gente un immaginario diritto al dominio totale sugli altri e sul mondo naturale.

A sinistra Willkommlangea reticulata. A destra il plasmodio di un mixomicete (Alison Pollack)

Al liceo avevo imparato che gli esseri umani regnavano su cinque regni: animali, piante, funghi, protisti e batteri. Noi discendevamo solo da noi stessi, e non dovevamo niente a nessuno. Nella chiesa dei miei genitori avevo imparato anche che il mondo è stato creato per gli uomini, che ogni vita (compresa la mia) era sotto il loro dominio. Solo all’università ho scoperto l’esistenza di una categoria tassonomica – proposta negli anni settanta del novecento dai biologi Carl Woese e George Fox e basata sul sequenziamento genetico – che eliminava i regni e divideva la vita in tre domini: batteri, eucarioti e archei, organismi unicellulari scoperti poco tempo prima, che sopravvivono nei geyser, negli acquitrini, nelle sorgenti termali e sul fondo degli oceani da miliardi di anni.

Forse un limite della nostra cosiddetta intelligenza è che non riusciamo a collocarci in una scala temporale così ampia, e che molti di noi non riescono ad ammirare una vita che non sia la nostra. Ricordo una recente visita alla Morian hall of paleontology del museo di scienze naturali di Houston. Ho seguito il percorso dell’esposizione attraverso il tempo geologico, partendo dai fossili di trilobiti di cinquecento milioni di anni fa e procedendo verso creature sempre più grandi e terrificanti prima di ciascuna delle cinque estinzioni di massa, in ognuna delle quali ha avuto un ruolo il cambiamento climatico. Ogni volta dal pianeta sono scomparse milioni di specie, ma grazie a piccoli e semplici organismi la vita in qualche modo è andata avanti.

L’idea stessa di separatezza sembra antitetica all’esistenza dei mixomiceti

Gli alti soffitti e la sapiente illuminazione della sala la fanno sembrare più una mostra d’arte contemporanea che un’esposizione scientifica. Proprio alla fine del tortuoso labirinto geologico ho trovato i mammiferi e la megafauna, per poi arrivare all’esposizione più piccola di tutte, dove una vetrina conteneva i crani fossili delle varie genealogie umane, mappando la rete dei loro collegamenti e delle loro relazioni. Tanti danni sono stati fatti dalla menzogna secondo cui questo mondo appartiene solo a pochi e alcune vite contano più di altre. In pochi decenni le conseguenze di questa menzogna hanno cambiato la Terra più che nei molti milioni di anni precedenti. Fuori, la prossima estinzione incombe.

Ma è anche possibile seguire l’esposizione al contrario, a partire dall’urgenza del presente e viaggiando a ritroso nel tempo: varcare soglie di una storia che ci mostra collegamenti inattesi, vedere la rete della vita dispiegarsi davanti a noi in tutta la sua stupefacente varietà. Qualunque sistema che impone una gerarchia di valore a questa rete è, come la piastra di Petri o il tostapane, e perfino l’idea stessa di natura, un’invenzione umana. La superiorità non è una realtà intrinseca nel mondo naturale.

L’albero intricato

Gli umani calpestano il pianeta da appena mezzo milione di anni, l’unica specie tanto giovane e arrogante del genere Homo da definirsi sapiens. Abbiamo antenati in comune con i gorilla, le balene e le ascidie, invertebrati marini che nuotano liberi nella loro fase larvale prima di attaccarsi a rocce o conchiglie, e che in seguito mangiano il proprio cervello. Il regno animale, a cui apparteniamo, è un ramo del dominio degli eucarioti, che abbraccia ogni forma di vita sulla Terra dotata di un nucleo – umani e ascidie, funghi, piante e mixomiceti – e queste relazioni occupano il filo più sottile di una rete vasta e sbalorditiva che pulsa intorno a noi e al di là della nostra comprensione.

Le tassonomie più recenti – fondate sull’evidenza genetica che l’evoluzione non è un ramo culminante in una specie, ma una rete di convergenze – hanno abbandonato i vecchi modelli di alberi, scale e catene. Ora somigliano invece a vaste reti intrecciate che fanno risalire i tanti punti d’interconnessione a origini sempre più antiche, al di là della nostra conoscenza o capacità di conoscere, alla ricerca degli “antenati universali”, forme di vita che precedettero il metabolismo e la capacità di riprodursi – le poltiglie plasmodiali di molti miliardi di anni fa da cui si è evoluta tutta la vita sulla Terra. Non abbiamo ancora trovato le prove, ma sappiamo cosa stiamo cercando: questi antenati dovrebbero essere semplici, piccoli e strani.

Dormire per millenni

Qualche anno fa, vicino a un villaggio nelle campagne della Birmania, alcuni minatori trovarono un pezzo di ambra che conteneva un mixomicete fossile del genere Stemonitis che risaliva alla metà del cretaceo. Gli scienziati furono elettrizzati dalla scoperta, perché esistono pochi fossili di mixomiceti, e osservarono che la Stemonitis di cento milioni di anni fa è indistinguibile da quella che si può trovare nelle foreste di oggi. Forse i mixomiceti non si sono evoluti molto in tutto questo tempo, ipotizzarono. Analisi genetiche recenti hanno suggerito che risalgono forse a uno o due miliardi di anni fa, il che li renderebbe centinaia di milioni di anni più antichi delle piante e significherebbe che si sono trascinati fuori dall’oceano in un’era in cui le uniche specie terrestri erano giganteschi tappeti di batteri.

Una caratteristica dei mixomiceti che confermerebbe questa possibilità è la loro capacità di criptobiosi: un processo in cui tutta l’acqua del corpo è sostituita da zuccheri, consentendo a una creatura di entrare in una sorta di stasi per settimane, mesi, anni, secoli, forse perfino millenni. I mixomiceti possono entrare in stasi in qualunque fase del loro ciclo vitale – come ameba, plasmodio, spora – ogni volta che il loro ambiente o il clima non si adatta alle loro preferenze o ai loro bisogni. Le uniche altre specie che hanno questa abilità sono fossili viventi come i tardigradi e i notostraci. La capacità di sospendere il metabolismo finché le condizioni sono più favorevoli alla vita potrebbe essere uno dei motivi per cui i mixomiceti sono sopravvissuti così a lungo, superando decine di periodi geologici, innumerevoli ere glaciali e le estinzioni di massa che hanno ripetutamente spazzato via quasi tutta la vita sulla Terra.

I mixomiceti non si saranno evoluti molto negli ultimi due miliardi di anni, ma in questo arco di tempo hanno imparato diverse cose. In laboratorio i ricercatori hanno tagliato a pezzi il Physarum polycephalum e scoperto che nel giro di due minuti le parti possono tornare a fondersi. Oppure ognuna può vivere un’esistenza separata, imparare nuove cose e in seguito riunirsi alle altre, e nella fusione ciascun individuo può insegnare all’altro ciò che sa e imparare a sua volta.

In realtà “individuo” non è il termine giusto da usare, perché l’individualità – un concetto così centrale per l’identità di tanti esseri umani – non rientra nella visione del mondo dei mixomiceti. Un’unica cellula può sembrarci un essere coeso, ma quella cellula può dividersi in innumerevoli spore, creando innumerevoli cicli possibili di ameba, plasmodio e poi etalio, che a sua volta tornerà a dividersi ricominciando il ciclo da capo. Può scegliere di fruttificare o no, di riprodursi sessualmente, asessualmente o non riprodursi affatto, sfidando ogni concetto tradizionale di specie, l’unità più basilare e fondamentale della nostra difettosa e imprecisa comprensione del mondo biologico. Di conseguenza, non abbiamo modo di sapere se i mixomiceti siano una categoria stabile o se il cambiamento climatico minacci la loro sopravvivenza come la nostra. Senza un sistema per contare la loro popolazione non possiamo valutare se sono a rischio o se al contrario stanno prosperando. Gli individui che producono corpi fruttiferi simili dovrebbero essere considerati una specie? E che dire di due mixomiceti che non si accoppiano ma condividono materiale genetico? L’idea stessa di separatezza sembra antitetica all’esistenza dei mixomiceti. E questo dovrebbe insegnarci molto.

Da sinistra in alto in senso orario: Trichia, Didymium, Physarum cinereum, Physarum viride, Stemonitis, Physarum citrinum. (Alison Pollack)

Invasione aliena

Nel 1973 vicino a Dallas, negli Stati Uniti, un’apparizione improvvisa e particolarmente spettacolare di Fuligo septica nei prati scatenò un’ondata di panico. I pompieri colpirono il plasmodio con getti d’acqua facendolo a pezzi, ma quei pezzi continuarono ad andare in giro e a ingrandirsi. Gli abitanti della zona immaginarono che una specie aliena indistruttibile avesse invaso la Terra, ricordando forse la trama di un film del 1958, Blob – Fluido mortale. Gli scienziati arrivarono nel sobborgo per prelevare dei campioni, rassicurando la comunità e spiegando che quello a cui avevano assistito era solo una fase del ciclo vitale di un organismo poco compreso: “Un fenomeno comune in tutto il mondo”, dissero. “Gli scienziati del Texas pensano che la poltiglia del cortile sia morta”, diceva un titolo del New York Times.

Anche il mixomicete nel mio cortile è morto, credo. L’etalio è pallido, indurito e calcificato, ha la consistenza e il colore del gesso sul braccio rotto di un bambino, scurito dopo una stagione senza essere lavato. Arriva un alito di vento e dalla superficie del mixomicete si solleva una polvere nera, sospinta verso il limite del mio cortile e di quello vicino. E poi del successivo.

A Houston la primavera è la stagione dei lavori in giardino. Piantiamo di nuovo le nostre alte erbe ornamentali, uccise dal recente gelo fuori stagione. Le nostre sono una specie ibrida di Pennisetum, della famiglia delle graminacee, un ampio gruppo a cui appartengono il granturco, il riso, la canna da zucchero e il frumento. I funghi vivono sopra e tra queste piante, procurando loro acqua e nutrimento attraverso il micelio filiforme per tenerle in vita e favorendone la decomposizione quando muoiono. Quando si decompongono, le piante forniscono cibo ai batteri, e le amebe dei mixomiceti predano questi batteri quando escono dalle spore. Noi affondiamo la vanga e le mani nella terra, il substrato vivente, vivo in modi che sto appena cominciando a capire. Interriamo le nostre piantine, riempiamo le buche e stendiamo del pacciame fresco. Raccogliamo i nostri utensili e torniamo al chiuso, tra le comodità della nostra casa: il cibo in frigo, la zuppa d’avena istantanea, la nostra amatissima aria condizionata.

Pochi giorni dopo, mentre mi allontano da casa per portare a spasso i cani e l’aria intorno a me gronda di umidità, con la coda dell’occhio vedo decine di gocce di un vivido rosa corallo disseminate sulla superficie del pacciame fresco, una nuova specie che scopro essere Lycogala epidendrum, o “latte di lupo”. Ne so molto poco, ma accolgo questa straordinaria apparizione nell’unico modo che conosco: siamo fatte l’una da, e per, l’altra. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1432 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati