Prima di essere una delle superstar di Andy Warhol, di cantare con i Velvet Underground e di pubblicare sei album da solista, Nico era conosciuta come “la ragazza della Dolce vita”. Nel 1959 Federico Fellini l’aveva notata sul set e le aveva dato la piccola parte di una modella. Nel film è vestita di nero come i beatnik e ha i capelli sciolti color platino. Passa con disinvoltura da una lingua all’altra e si muove con leggerezza teatrale, rubando costantemente la scena. Mentre spinge Marcello Mastroianni in macchina, irrompe in una conversazione o litiga con il fidanzato sulla pista da ballo, il suo obiettivo è sempre chiaro. Guardarla è un piacere, ma allo stesso tempo è un sollievo non essere nella stessa stanza con lei.

All’epoca Nico aveva 21 anni e aveva già consolidato il suo personaggio. Il suo vero nome era Christa Päffgen e, come conferma Jennifer Otter Bickerdike in una delle tante e scrupolose puntualizzazioni del suo You are beautiful and you are alone: the biography of Nico, era nata a Colonia nel 1938, un mese prima della notte dei cristalli. Suo padre veniva da una ricca famiglia cattolica che disapprovava sua madre, una protestante che stava per divorziare. Fu arruolato nella Wehrmacht e ucciso in servizio, almeno secondo la versione ufficiale: la storia di famiglia è che fu ferito al cervello e finito dai suoi commilitoni.

Pierluigi Longo

In tutte le ricostruzioni della vita di Nico, nelle interviste e negli aneddoti, si sente un’insolita tensione intorno alla verità. Nico era un’affabulatrice assai poco attenta ai dettagli e non faceva mistero di mentire per rendere le cose più interessanti. Il fatto che i suoi ricordi d’infanzia sembrano articoli di giornale complica ulteriormente le cose: era davvero stata lungo la ferrovia dove passavano i treni diretti verso i campi di concentramento mentre la gente offriva acqua e cibo? Quando aveva tredici anni, nella Berlino occupata, era stata davvero violentata da un soldato statunitense che poi era stato portato davanti alla corte marziale e impiccato? La sua famiglia non ricorda nessuno dei due episodi, il che non vuole necessariamente dire che non siano accaduti. Una bambina può non raccontare tutto e i ricordi collettivi di un trauma posso intrecciarsi con quelli individuali. Forse dovremmo solo ascoltarla: se non dice la verità, cos’altro sta cercando di comunicare?

La precarietà della sua infanzia è un elemento che Nico ha mantenuto per tutta la vita, come se l’instabilità fosse per lei una cosa comune, confortante. Non ha mai messo su casa o famiglia, privilegiando la libertà di amanti passeggeri, paesi diversi e stanze prese in prestito. Aveva il distacco delle persone che sono sopravvissute uscendo da se stesse e un bisogno di controllo che degenerava nell’inerzia. Voleva che gli altri la aiutassero e la maggior parte delle volte lo facevano. Il suo sorriso era quello di chi sta cercando di non ridere perché tutto è completamente assurdo. La sua risata sembrava un trucco per sviare l’attenzione. “Era una ragazzina che rideva sempre, ma non in modo rilassato”, ricorda suo cugino Ulrich.

Dopo la guerra sua madre Grete cercava di guadagnarsi da vivere facendo la sarta in una Berlino rasa al suolo e piena di pericoli. In un luogo dove era più sicuro passare inosservati, l’adolescente Christa fu costretta a farsi notare in ogni modo possibile per trovare un lavoro. Posare come modella era “quello che mi sembrava più facile. Dovevo dar da mangiare a me e a mia madre”. Cominciò a frequentare il KaDeWe, il grande magazzino più elegante della città, finché non le offrirono un lavoro da indossatrice. Per lei fu “una scuola alternativa. Capivo perché tutto doveva essere esattamente com’era; riuscivo a vedere l’effetto di una camminata, di un voltarsi, di una posizione”. Imparare a gestire il suo impatto sembrava sollevarla. A sedici anni si trasferì a Parigi, posando per Elle e per Dior, e cominciò a passare un po’ di tempo a Ibiza, dove scoprì la scena jazz.

Sfruttò la fama della “ragazza della Dolce vita” ottenendo una parte importante in Delitto in pieno sole di René Clément, ma sbagliò la data d’inizio delle riprese. Quando si presentò sul set scoprì di essere stata sostituita, ma rimase comunque nei paraggi ed ebbe una storia con la star del film, Alain Delon. Dalla relazione nacque un bambino, Ari, di cui Delon avrebbe sempre negato la paternità. Sua madre Grete dovette prendersi cura del bambino da sola a Ibiza, anche se soffriva di Parkin­son, allucinazioni e paranoia. Alla fine arrivarono in soccorso i familiari di Delon (contro la volontà dell’attore), che portarono Ari a casa con loro in Francia. Di tanto in tanto Nico arrivava e lo portava con sé, ma la madre di Delon voleva che andasse a scuola e che avesse un minimo di stabilità. Diceva che Nico lo vedeva una volta ogni tre anni, lei replicava che le impedivano di frequentarlo.

Le biografie ci convincono per la loro perentorietà, più che per la loro oggettività. Il musicista Richard Witts fu espressamente incaricato dall’artista di scriverne una su di lei e lui realizzò Nico, the lives and lies of an icon (Nico, le vite e le menzogne di un’icona), una biografia pubblicata nel 1993. Nico voleva che sembrasse un romanzo e Witts la fece così, drammatizzando la Berlino del dopoguerra, la Parigi degli anni cinquanta, la New York e la Londra degli anni sessanta e settanta, la Manchester degli anni ottanta.

Pierluigi Longo

Ora l’approccio di Otter Bickerdike è di liberare un po’ di spazio intorno alla protagonista, tornare alle fonti quando possibile ed esporre le varie versioni. È come se qualcuno avesse abbassato la musica e acceso le luci, facendoci vedere cosa dicono tutti. È un lavoro complemetare a quello di Witts. Gli ambienti che Nico frequentava erano dominati dagli uomini, e sono soprattutto gli uomini che parlano di lei nella nuova biografia. Erano loro a controllare l’accesso, erano loro a possedere i mezzi ed erano loro ad avere le competenze. E, aggiunge Nico, “non pensavano mai che tu potessi essere intelligente”. Un fotografo le suggerì il nome d’arte, che era quello di un suo ex amante. Un altro inventò il look che poi lei non avrebbe più cambiato, salvo scurirsi i capelli e vestire ancora più spesso di nero. Bob Dylan le fece abbandonare le canzoni d’amore, Jim Morrison le disse d’imparare a suonare uno strumento e scriversi i pezzi da sola, e Ornette Coleman la aiutò a trovare un suo modo di suonare l’armonium.

I suoi rapporti con una serie di rock star sono oggetto di pettegolezzi e leggende. Nico racconta i suoi amanti e quello che provava in modo aperto e distaccato. Brian Jones, reso impotente dalle droghe, cercava di penetrarla in altri modi: “Lo trovavo affascinante e spaventoso”. Di Morrison dice: “Ci picchiavamo a vicenda perché eravamo ubriachi e perché ci piaceva la sensazione”. Sia Morrison sia Jones sono descritti come fratelli minori, ragazzini bisognosi di cure. Iggy Pop racconta che lei “era più grande e veniva da un altro paese, è stata la prima straniera con cui mi ricordo di aver avuto contatti stretti. Era fortissima, era come frequentare un maschio, un maschio caparbio, egocentrico e artistico”. Nico passò dei mesi in una casa in campagna insieme alla band di Iggy, anche se gli altri “non volevano una ragazza in casa, soprattutto una con una voce così profonda”. Lei gli insegnò ad apprezzare il vino e gli consigliò di portare i capelli sul volto: “La tua faccia non si deve vedere”.

Sul suo aspetto era pragmatica, ma non si faceva problemi a mostrare il suo disprezzo per chi non era al suo livello. “Ero alta, ero bionda ed ero mae­stosa. Non c’è bisogno di altro per fare effetto. Sono le persone basse quelle che hanno bisogno di tecnica. Andy Warhol ha tecnica. Io non ne avevo nessuna”. Il riferimento a Warhol trasuda disprezzo. Nico era famosa per i suoi commenti razzisti, contestualizzati dai suoi biografi come il segno dei traumi, del momento storico, della sua ironia e del desiderio di scandalizzare, ma gli episodi si accumulavano con una virulenza che lei non represse mai.

Nico aveva una personalità che all’epoca era definita “eccessiva”. Il rapporto con la sua stessa presenza scenica è ciò che la rende così potente. C’è e non c’è. Non si riesce a toglierle gli occhi di dosso, ma non si ha mai l’impressione di averla vista completamente. Mary Woronov, che nel 1966 si esibì con lei nell’Exploding plastic inevitable di Andy Warhol, la dipinge come un vortice di sessualità: “Anche i mobili gemevano di piacere quando entrava nella stanza. Ho visto sedie strisciare sul tappeto nella speranza che lei ci si sedesse sopra”. La sua bellezza era alienante come quella della Criseide di Chaucer, talmente celestiale e perfetta che sembrava mandata sulla Terra come spregio alla natura. E Nico sapeva bene come essere sprezzante.

La vediamo in un filmato mentre parla con Albert Grossman, il manager di Bob Dylan, in una di quelle stanze dove l’entourage dell’artista va a passare il tempo. Grossman sta descrivendo una cantante che ha spiazzato i dirigenti della casa discografica presentandosi in riunione con un nastro giallo tra i capelli. Nico, allora all’inizio della sua carriera musicale, gli chiede se pensa che a lei starebbe bene. Sembra una richiesta ironica, ma Grossman la prende sul serio. No, dice, “devi trovare una strada tua”. Nico ci ripensa ma non riesce a togliersi dalla testa quel ridicolo nastro: “Non l’è mai venuto in mente che sarebbe sembrata una scema?”. Grossman è perplesso. “Credi che sembrare una scema sarebbe la cosa peggiore?”. “Certo che sì”.

Nel 1965 Andy Warhol e Paul Morrissey la invitarono a far parte della Factory, dove recitò in diversi film. Poi la fecero entrare nei Velvet Underground, la band della casa. La collaborazione sfociò in un album epocale, , dove Nico cantava alcuni dei pezzi più conosciuti del gruppo, che però non la accolse bene. John Cale ricorda che riascoltando le registrazioni delle prove “la sentivamo stonare o sbagliare tonalità all’inizio del brano e ridacchiavamo”. Lou Reed, comprensibilmente, voleva cantare le canzoni che aveva scritto, ma Warhol e Morrissey esigevano che ci fosse lei. Nico cantava, poi si metteva da una parte a suonare il tamburello con aria cool. I Velvet Underground non erano in grado di gestire il suo carisma o il fatto che aggiungeva una potente stranezza al sound del gruppo. Il suo senso dell’intonazione e del ritmo sono talmente particolari che a volte è difficile capire se sta suonando a tempo o se è intonata. La versione che dava del suo rapporto con la band è come al solito molto sfaccettata: “Io ero il contrasto, il lato più gentile. Ma li ammiravo, perché non avevano paura di essere cattivi. Mi sembravano molto onesti, e all’epoca non facevo niente”. Il resto della band ha sempre sminuito il suo contributo. Maureen Tucker: “È stata solo una cosa che abbiamo fatto per divertimento nel primo album”. Lou Reed: “Era divertente che ci fosse ed era divertente che non ci fosse”.

I Velvet Underground non erano in grado di gestire il carisma di Nico. Secondo Lou Reed “era divertente che ci fosse ed era divertente che non ci fosse”

Pochi mesi prima Nico era stata a Londra, dove Andrew Loog Oldham, il manager dei Rolling Stones, l’aveva presa sotto la sua ala e le aveva fatto incidere un singolo, una canzone che non aveva scelto lei e che non le piaceva. Mentre lavorava con i Velvet Underground registrò un album da solista intitolato Chelsea girl. Insieme a una serie di canzoni scritte da Reed, Cale, Sterling Morrison e Jack­son Browne, incise anche una versione di I’ll keep it with mine di Bob Dylan, che sosteneva fosse stata scritta per lei (anche se a Dylan non piaceva che la cantasse). Non fu una scelta particolarmente felice. La canzone non si adatta a lei e viceversa. Nico era molto scontenta della produzione dell’album, su cui non aveva potuto mettere bocca, e ne parlava in termini poco lusinghieri: “Per me quasi tutta la musica pop è rumore”.

Nonostante l’ostilità e le delusioni, non modificò il suo modo di essere. Diventò ancora più forte e più chiara. La sua voce era tanto potente quanto limitata, ma si confaceva alla sua natura e lei imparò a capirla e a usarla bene. I critici la definivano “piatta”, “sdolcinata” e “computerizzata”, forse perché non lasciava spazio ad abbellimenti o slanci emotivi. Il suo fraseggio è come una serie di linee dritte. A Los Angeles s’impegnò per trovare il suo sound e andò a vivere con un’altra delle superstar di Warhol, Viva, che dopo un po’ si stufò dell’armonium di Nico: “Si esercitava per ore, cose semplici, accordi, roba veramente irritante. Tirava le tende, accendeva le candele e cantava queste canzoni funeree per tutto il giorno”. Il manager musicale Danny Fields era presente al suo debutto dal vivo da solista: “Era come una bambina che scopre uno strumento musicale. Premeva un tasto e tendeva l’orecchio verso la tastiera per ascoltare la nota che aveva suonato, poi lo premeva di nuovo”. Tra il pubblico c’era anche Frank Zappa: dopo che Nico scese dal palco fece una parodia della sua esibizione, suonando accordi a caso e gridando frasi senza senso. Forse non riusciva a sopportare la sua serietà o il fatto che si prendesse il tempo di ascoltare se stessa. L’interesse per lei cominciò a scemare. La gente voleva la ragazza di Chelsea, la ragazza della Dolce vita. Perché non poteva essere più divertente?

Tra il 1968 e il 1974, Nico pubblicò i tre album che oggi sono considerati i suoi migliori: The marble index, Desertshore e The end. “Le canzoni erano già nella sua testa”, racconta Cale, che li produsse. “Sono stato fortunato e ho trovato una personalità fortissima, che mi ha sbattuto contro il muro. Ho dovuto rialzarmi e reagire”. Il titolo del primo album è tratto da Wordsworth: The marble index of a mind forever / Voyaging through strange seas of thought, alone (“l’indice di marmo di una mente in perpetuo viaggio attraverso gli strani mari del pensiero, da sola”). I pensieri di Nico in effetti somigliano a “strani mari”: non esprimono un singolo atteggiamento o sentimento, e a una prima lettura possono sembrare contraddittori. Nico è una linguista naturale, e gioca con l’inglese. Quando chiede a un amico di aiutarla a farsi mettere sotto contratto dalla stessa casa discografica di “alcuni amici (Lou Reed è ancora lì?)”, scrive: “Forse possiamo prendere la stessa esposizione, o come vuoi chiamarla, e renderla un parlamento!”. I suoi testi hanno la stessa qualità disarticolata dei suoi pensieri – “Have someone else’s will as your own / You are beautiful and you are alone” (“Fai tua la volontà di qualcun altro / Sei bellissima e sei sola”) – e la stessa fanciullesca precisione priva di costrizioni formali: The morning small, the evening tall; I cannot understand the way I feel / until I rest on lawns of dawns / Can you follow me? (“Il mattino basso, la sera alta; non riesco a capire come mi sento / finché non riposo su prati di albe / Puoi seguirmi?”).

Se le sue reazioni erano estremamente guardinghe, la sua musica fa paura per la mancanza di limiti emotivi. Come ha detto Cale, “The marble index non è un disco da ascoltare. È un buco in cui cadere”. In The end c’è la sua elegia per Jim Morrison, che le passò accanto in auto a Parigi il giorno della sua morte: “When I remember what to say… you forget to answer” (“Quando io mi ricordo cosa dire… tu ti dimentichi di rispondere”). La sua versione di The end dei Doors più che un tributo è uno stravolgimento. Nico e Cale rallentano la cadenza e rimuovono l’ossatura del brano. Lei è talmente imperiosa e cristallina che fa sembrare Jim Morrison uno che si è appena svegliato sotto il tappeto.

Nel 1969 Nico cominciò una relazione con l’attore e regista Philippe Garrel e si trasferì nel suo appartamento a Parigi, dove i due vissero in una condizione di deliberato squallore, prendendo eroina e girando una serie di film sperimentali. Le riprese del primo, La cicatrice intérieure, partirono nel 1970 e durarono due anni. Garrel cuciva da sé i vestiti dei personaggi – ruvidi indumenti medievali bianchi o neri – e Nico accettò consapevolmente il suo degrado: “I miei vecchi amici sono tutti un po’ ostili con me perché non mi vedo come una che corre in giro a mo’ di bambola. Ho più l’aspetto di una figura preistorica con degli stracci addosso e gli stivali consumati”. Chi l’aveva conosciuta prima diceva che era diventata “orribile” e “contaminata”. Nessuno diceva che era malata.

Ari si ricongiunse con la madre nel 1979, viaggiando spesso con lei e condividendo le sue dipendenze. “Mi ha dato tutto, anche le droghe”. Usavano le stesse siringhe. “Eravamo una coppia magica ed eccitante. Ora ero con lei e nessuno poteva separarci. Vivere con lei era diventata un’avventura assoluta, terribile e affascinante allo stesso tempo”.

La biografia di Jennifer Otter Bickerdike è organizzata meticolosamente. Ciò nonostante, a un certo punto ho perso il filo. Nico è a Parigi quando penso che sia ancora a New York. Ari è allo studio, al club, nella stanza d’albergo, quando penso che sia a Ibiza o in Francia. Le persone se ne vanno e ricompaiono. Non ci sono mai un inizio e una fine chiari. Quando Nico è più sicura di sé artisticamente, arriva l’eroina. Da quel momento in poi la sua vita non è più una sequenza di eventi, ma un cerchio che si stringe e gira sempre più piano finché quasi non si muove più.

Alla fine degli anni settanta, quando Nico viveva a Londra, esplose la new wave. Gruppi come Siouxsie and the Banshees, The Adverts e Cabaret Voltaire adoravano i Velvet Underground e la invitarono ad aprire i loro concerti. Il pubblico si divideva tra chi la ammirava per il suo posto nella storia della musica e chi vedeva soltanto una donna di mezza età che pestava accordi su uno strano organetto. I secondi le tiravano lattine di birra, la prendevano in giro e le sputavano addosso, forse perché, come Zappa, non riuscivano a sopportare la sua serietà. Una sera rispose: “Se avessi un mitra, vi sparerei a tutti”. Ovviamente, era seria anche su questo. Per le giovani donne che si affacciavano sulla scena musicale Nico era un incoraggiamento a tenere il punto e a non abbandonare il campo, a diventare più se stesse. Ma era anche la prova vivente di ciò che questo poteva costare.

Nel 1981 andò a Manchester per un concerto e ci rimase per i successivi sette anni. Alan Wise, uno dei fondatori della Factory Records, la mise sotto contratto. “Girava per il paese per conto suo con un tipo che si chiamava Robert. Non avevano né soldi né da mangiare. Lei mi sembrava uno spirito libero, aveva un’aria un po’ disperata. Questo mi attirò immediatamente”. Wise rispedì a Londra il tipo che si chiamava Robert e trovò a Nico un posto dove stare. Le servivano soldi per comprare l’eroina. Wise mise insieme dei musicisti e la mandò in tour. I racconti della gestione di Wise sono un misto un po’ nauseante di devozione, sfruttamento e imposizione.

Negli ultimi sei anni della sua vita Nico si esibì in più di milleduecento concerti in Europa e in America, passando da un minibus e da un motel all’altro. Witts andò a sentirla nel 1983 e rimase sorpreso dal suo “contralto profondo, chiaro, privo di vibrato e perfettamente intonato”. Oggi ricorda la sua precisione e la sua disciplina. Ci sono anche filmati dell’epoca in cui Nico strascica le parole, livida e madida di sudore, le pupille come punte di spilli. I suoi manager si assicuravano che avesse sempre eroina per evitare che si ubriacasse. “Nico finiva sempre i soldi”, racconta Una Baines dei Blue Orchids, che l’accompagnavano in tour, “ed eravamo tutti talmente innamorati di lei che eravamo disposti a mettere insieme i nostri per comprarle l’eroina”. Dopo essere stata ricoverata per setticemia entrò in un programma di disintossicazione con il metadone.

A luglio del 1988 era con Ari a Ibiza e uscì in bicicletta. Fu ritrovata al lato della strada, incapace di comunicare. Esistono diverse versioni: non si sa bene se sia caduta in un terrapieno o se sia stata investita da un’auto, se sia stata salvata da una coppia, da un tassista o da qualche altro passante. Un ospedale la mandò via scambiandola per una tossica vagabonda. Un altro ospedale si rifiutò di assisterla perché non aveva l’assicurazione sanitaria. Un terzo la respinse perché era “una vecchia hippy”. Alla fine un ospedale accettò di ricoverarla e la parcheggiò in corridoio per la notte. A un certo punto qualcuno si accorse che aveva un’emorragia cerebrale. Provarono a intervenire, ma aveva le vene talmente rovinate che era impossibile infilarle un ago. Morì quel giorno stesso. Ari disse che prima di uscire aveva messo in tasca un volume di Mark Twain. Nella versione della storia in cui è salvata da una coppia, teneva in mano un libro di Oscar Wilde. ◆ fas

Lavinia Greenlaw

è una poeta e scrittrice britannica. Questo articolo è una recensione di You are beautiful and you are alone: the biography of Nico di Jennifer Otter Bickerdike (Faber 2021). È uscita sulla London Review of Books con il titolo Why couldn’t she be fun?

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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati