Aprima vista non fa molta impressione. Arrivati sul posto, all’uscita del villaggio, bisogna inoltrarsi nella densa vegetazione per distinguere un fossato coperto qua e là da detriti. Subito sopra si trova un grande rilievo in laterite. La sua terra rossa è coperta da alberi, piante e liane. Eppure siamo davanti a una parte del più grande monumento finora individuato in Africa subsahariana, nel sudovest dell’attuale Nigeria: una fortificazione ad anello lunga più di 160 chilometri, formata da un fossato e da un terrapieno che in alcuni casi raggiunge i venti metri di altezza. Questa struttura proteggeva la città-stato di Ijebu, un regno contemporaneo al celebre regno del Benin, che prosperò tra il quattrocento e l’ottocento.

Un’oasi nel “deserto”

“Ci si può passare davanti senza neanche farci caso”, osserva l’archeologo nigeriano Joseph Ayodukun. L’eredo di Sungbo è quasi invisibile sotto la vegetazione. Inoltre, come molti altri resti della storia medievale africana è stato a lungo trascurato. Da un lato la Nigeria manca di mezzi, dall’altro per decenni i ricercatori occidentali si sono disinteressati a questa striscia di foresta, tra la costa e la savana, considerata una sorta di “deserto” dal punto di vista storico, come osserva lo storico François-Xavier Fauvelle nel suo libro L’Africa antica (Einaudi 2020).

Al contrario Ijebu – oggi Ijebu-Ode – era un influente centro urbano, che approfittava della sua posizione strategica in un paesaggio politico multipolare. “Era una tappa forzata per i mercanti che venivano dall’interno per commerciare con la costa e viceversa”, continua Ayodokun. Molto prima dell’arrivo dei portoghesi a Lagos nel 1472, qui si scambiavano spezie, noci di cola e olio di palma, con tessuti o sale, trasportati sul fiume Niger, l’autostrada di quell’epoca.

Riflesso della sua potenza, la costruzione dell’eredo, all’inizio del quattrocento, ha richiesto enormi “quantità di energia e di ore di lavoro”, sottolinea l’archeologo nigeriano dell’università di Ibadan, nel sudovest della Nigeria. “Per portare a termine un progetto del genere serviva quindi un potere politico molto forte e determinato”, precisa lo studioso. La muraglia di terra probabilmente delimitava il territorio di Ijebu e aveva lo scopo di controllarne l’accesso e di difenderlo. Ma si tratta di ipotesi, perché la struttura è ancora in gran parte sconosciuta.

Ilara, Nigeria (Gérard Chouin)

Il 2024 ha rappresentato una svolta per il progetto archeologico internazionale Ife-Sungbo – cominciato nel 2015 e del quale fa parte Ayodokun – grazie alla tecnologia di telerilevamento Lidar, che permette di visualizzare il rilievo e la struttura dell’eredo. “Il Lidar è particolarmente utile ai tropici, perché permette di vedere sotto il manto vegetale”, spiega l’archeologo francese Gérard Chouin, condirettore del progetto. Il suo impiego è una novità “su questa scala – più di mille chilometri quadrati”, dice soddisfatto Chouin aggiungendo che è stato usato ad Angkor, in Cambogia, o ancora più di recente in Ecuador, dove ha “rivelato intere parti di città del tutto insospettate”, sotto la giungla.

Questa costosa campagna di scavi (400mila dollari finanziati dal dipartimento di stato statunitense) “rivelerà qualcosa di unico”, sottolinea Chouin, insistendo sul grande interesse dell’opera, “il più grande monumento dell’Africa subsahariana”, ma anche “la più estesa struttura territoriale chiusa di questo tipo finora conosciuta al mondo”. Le migliaia di dati raccolti grazie al Lidar, presentati ad agosto a Lagos, hanno già permesso ai ricercatori di localizzare tutti i frammenti del monumento. Ma ci vorranno anni per analizzarli e per raccogliere, forse, dei preziosi indizi sul regno di Ijebu. Cosa che permetterebbe di conoscere meglio una storia molto più grande.

Inizialmente Ijebu era una città satellite del più potente impero di Ife, un po’ più a nord, che si è rapidamente e misteriosamente dissolto alla fine del trecento. Si è parlato di una possibile epidemia di peste, malattia che in quello stesso periodo imperversava in Europa. All’epoca le sue relazioni commerciali si estendevano fino al Mali e all’Egitto. Lo storico Fauvelle la definisce la “capitale medievale delle arti”, famosa per la fabbricazione di perle di vetro, vasellame e oggetti in bronzo (prima del Benin).

Yemoo, Nigeria (Mission Archéologique d’Ife-Sungbo)

“Gli occidentali dubitavano che gli africani potessero produrre oggetti di quel genere”, si rammarica Adisa Ogunfolakan, l’altro direttore del progetto Ife-Sungbo, “e non hanno neanche cercato di capire chi li aveva fabbricati”. Parte del suo lavoro sarà proprio questa: “Delinearne lo stile di vita e le strutture sociali”. Uno studio che riveste una grande importanza anche perché per la popolazione yoruba (circa il 30 per cento della popolazione nigeriana), Ife è un luogo sacro: origine del mondo, cuore della loro cultura e ancora oggi sede del loro sovrano.

La minaccia di Lagos

Molte indicazioni sono arrivate dalla pavimentazione. In uno dei siti studiati, sotto una tettoia in lamiera, si possono osservare dei pavimenti realizzati con frammenti di vasi. Le ricerche hanno messo in evidenza i loro usi diversi: decorativi nei luoghi di culto o nelle residenze delle classi più ricche, fino alla creazione di strade che rendevano più facili gli spostamenti in un città caratterizzata da forti piogge. “Si tratta di elementi di ingegneria civile, ma dimostrano anche che gli abitanti dell’epoca sapevano riutilizzare i materiali”, osserva Ayodokun.La diffusione di questi pavimenti infine mostra che l’antica città si estendeva su una superfice simile all’attuale, insomma una grande capitale: “Ife doveva somigliare alla Lagos di oggi”.

Ma proprio la tentacolare megalopoli nigeriana è una delle minacce più temute. Infatti in alcuni punti l’eredo di Sung­bo si trova ad appena una trentina di chilometri da Lagos, e l’urbanizzazione galoppante coinvolge ormai i villaggi vicini al monumento. Il sito archeologico del resto non è protetto. “Abbiamo visto persone prendere questa terra per le loro costruzioni. Questo monumento corre seri pericoli”, continua Ayodokun.

Nel piccolo villaggio si cerca di sensibilizzare soprattutto l’associazione dei giovani sull’esistenza del monumento e sulla sua protezione. Talvolta i suoi componenti riescono a guadagnare qualche soldo mostrando le rovine ai rari visitatori. Ma i giovani dicono di essere stanchi di aspettare. “Da molto tempo ci fanno grandi promesse, ma finora non è stato fatto nulla”, osserva Sodiq Sani, 32 anni, citando le infrastrutture turistiche o l’inserimento del sito nel patrimonio mondiale dell’Unesco. A forza di attendere, dice Sodiq, qui le autorità e gli archeologi finiranno per trovare ovunque costruzioni moderne. ◆ adr

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati