Oggi vi parlerò delle vittime perfette e della politica per renderle attraenti. Il popolo palestinese, sugli schermi televisivi o più in generale nella sfera pubblica, esiste in una falsa dicotomia. O siamo vittime o terroristi.

Quelli che tra noi sono terroristi – o rappresentati come tali – non hanno mai l’opportunità di essere commentatori su quegli schemi. Sono creature quasi mitiche, da racconto dell’orrore: grandi lupi cattivi con le sopracciglia aggrottate, le zanne aguzze e una terrificante scorrettezza politica. Girano per le strade borbottando aggressivamente in arabo, a volte leggendo il Corano, pronti a saccheggiare e a sparare a tutto quello che li circonda. Stanno venendo a prendervi. Nascondete le vostre mogli, i vostri aerei, i vostri scudi umani. Molti, tra il pubblico, potranno figurarsi quello che sto descrivendo.

Sono in una posizione unica. Da un lato sono una vittima che ha perso la casa o che se l’è vista rubare dai coloni a Sheikh Jarrah. Dall’altro sono un giornalista, sono uno scrittore

Dall’altra parte quelli che tra noi sono vittime, che sono descritti sui giornali e nei documentari come feriti, gementi e deboli, a volte ricevono il microfono. Ma a caro prezzo. Ci sono delle condizioni che le vittime devono rispettare. Spesso sono donne, bambini, anziani. Hanno passaporti statunitensi o europei, svolgono professioni umanitarie o hanno delle disabilità. Chiunque dirà: “Non farebbero del male a una mosca”. E anche se un tempo erano lupi, ora sono docili e addomesticati, e ululano alla luna solo in agonia. Non caricano, non attaccano e non cacciano mai in branco. La loro è una campagna individualistica, incentrata unicamente sulle loro tragedie personali, incentivata dal bisogno umanitario più che dall’ideologia politica.

Voglio raccontarvi una storia. L’11 maggio 2022, come molte persone in tutto il mondo, mi sono svegliato con la notizia che l’amata giornalista televisiva palestinese Shireen Abu Akleh era stata colpita e uccisa dalle forze di occupazione israeliane durante un raid nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata. Pochi minuti dopo aver saputo la notizia, ho trovato un’email anonima nella mia casella di posta, con un’indicazione. C’era scritto: “Estremamente urgente e necessario, si prega di annunciare su Twitter e Facebook che Shireen Abu Akleh è una cittadina statunitense. È un fatto, non una voce. Gli israeliani hanno ucciso una giornalista statunitense”. Io, naturalmente, non l’ho fatto. E quando ho scritto dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, ho cercato di descriverla non come una giornalista statunitense, ma come una persona con un passaporto statunitense. Ma non è servito. La notizia che Abu Akleh era statunitense si è diffusa nelle ore seguenti, e la sua presunta americanità improvvisamente l’ha resa umana.

Questo aneddoto ci dà l’opportunità di farci tre domande: nella mente occidentale convenzionale, chi è considerato degno di essere compianto? Chi è umanizzato? E chi riceve il microfono?

Shireen Abu Akleh era una persona perché era una persona. Per l’americano medio, però, era una persona perché era una donna, una cristiana, una statunitense, una giornalista con il giubbotto da reporter ben visibile. Aveva perfino un cane. Quando moriamo, se vogliamo andare sui giornali o vogliamo che la nostra morte conti, dobbiamo aver avuto una vita spettacolare o fare una morte spettacolarmente violenta. Quando dico “spettacolarmente violenta”, penso a uno come Mohammed Abu Khdeir, un ragazzo di sedici anni che viveva di fronte alla mia scuola superiore a Shufat, nella Gerusalemme occupata, ed è stato rapito davanti a casa sua e bruciato vivo dai coloni israeliani.

Cosa significa praticare una politica che renda attraenti le vittime? Per decenni giornalisti e operatori culturali animati da buone intenzioni hanno usato una cornice umanizzante nel rappresentare gli oppressi, sperando di contrastare il ritratto tradizionale del palestinese come terrorista. Non solo questo ha prodotto una dicotomia falsa e banalizzante tra terroristi e vittime, ma il vittimismo che emerge all’interno di questa cornice è un vittimismo perfetto, un requisito etnocentrico per la compassione e la solidarietà.

Spesso sottolineiamo la non violenza, la nobiltà della professione e le disabilità di una persona oppressa; la ricopriamo di elogi. Lo facciamo non solo nel contesto palestinese, ma anche quando parliamo delle vittime afroamericane della brutalità della polizia. “Erano artisti” o “erano malati di mente” o “erano disarmati”. Quasi che condannare lo stato per la morte di un nero possa essere ammissibile solo quando la persona uccisa corrisponde a uno sterile modello di cittadinanza statunitense. Lo stesso vale per chi subisce un’aggressione sessuale: dobbiamo ricordare all’ascoltatore che la vittima era sobria e vestita in modo appropriato.

Ovviamente non sto dicendo che chi cerca di rendere attraenti le vittime debba essere mandato al rogo. Molte persone lo fanno in buona fede. Il più delle volte dicono che è una strategia. Quando diciamo che Shireen Abu Akleh era statunitense o che Alaa Abdel Fattah, il prigioniero politico egiziano, è britannico, diciamo che dietro c’è una strategia. Così è più facile che l’opinione pubblica statunitense s’identifichi e si contribuisce a fare giustizia. Ma in realtà in questo modo non si fa che restringere lo spazio dell’umanità agli occhi degli altri, consolidando una gerarchia della sofferenza. Si rende il requisito di diventare “umani” molto più stretto e difficile da raggiungere. E tali pratiche di quello che io definisco “addomesticamento” riproducono l’ordine culturale convenzionale in cui i palestinesi sono derubati della loro capacità di azione, del loro diritto all’autodeterminazione, e in definitiva del permesso di narrare, come ha detto una volta l’intellettuale palestinese Edward Said.

Ecco un’altra situazione legata alla vittima perfetta: c’erano due ragazzi, due fratelli di Beit Rima, un villaggio vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata. Uno di loro aveva un lavoro ben retribuito all’Arab islamic bank, l’altro studiava ingegneria informatica all’università di Bir Zeit. Venivano da una famiglia agiata. Quando l’esercito israeliano ha fatto un raid nel loro villaggio, occupato illegalmente dai militari, i fratelli hanno difeso la loro comunità tirando sassi e tutto quello che trovavano. Gli hanno sparato. Sono stati uccisi entrambi nel giro di pochi minuti. Si chiamavano Jawad e Thafer Rimawi.

Da allora la sorella, Ru’a Rimawi, che studiava medicina per diventare pediatra, si è messa a lavorare in un campo in cui praticamente non aveva esperienza: organizzare campagne d’informazione. Ha condiviso gli elogi funebri dei fratelli e altri aneddoti con i suoi follower sui social network. “Dopo ogni post sono a pezzi”, mi ha detto. Vuole tenere vivo il ricordo dei fratelli in un contesto in cui i palestinesi che sono uccisi ogni giorno ricevono poca o nessuna attenzione dai mezzi d’informazione. “Ma è difficile”, mi ha detto, “convincere il mondo che le vite dei tuoi fratelli contavano”. Non basta che siano stati uccisi: deve ricordare a tutti che avevano una carriera e che non erano ansiosi di gettarsi tra le braccia della morte. “Avevano ambizioni e sogni, come tutte le persone del mondo”.

Ho cercato di aiutare Ru’a Rimawi a pubblicare un articolo sui suoi fratelli. L’abbiamo proposto al Guardian, al Washington Post e al Los Angeles Times. Con il New York Times non ci abbiamo provato. Tutti hanno rifiutato o ignorato l’articolo. Ne abbiamo parlato con un esperto di mezzi d’informazione e ci ha detto che l’articolo è stato rifiutato perché i suoi fratelli avevano lanciato sassi contro l’esercito. Erano vittime, ma non le vittime perfette, perciò non potevano trovare spazio sul Los Angeles Times. Di solito preferisco concentrarmi sul raccontare la brutalità sionista piuttosto che occuparmi delle sfide della rappresentazione, perché queste inevitabilmente impallidiscono di fronte alla repressione e alla violenza che i palestinesi subiscono sul terreno. Ma quella violenza è esattamente il motivo per cui, a volte, dovremmo occuparci dei problemi della rappresentazione che intrappolano i sostenitori della liberazione palestinese nel mondo occidentale.

Nel 1984, in reazione alla guerra israelo-libanese, Edward Said pubblicò il suo saggio Permission to narrate (Il permesso di narrare), in cui criticava la rappresentazione faziosa della guerra fatta dai mezzi d’informazione occidentali, che favorivano la narrazione israeliana e sopprimevano il punto di vista palestinese. Oggi ci troviamo in una situazione molto simile. Politici e analisti israeliani vanno in tv a dare la loro lettura del cosiddetto conflitto, mentre solo le vittime palestinesi hanno questa opportunità, e non sono intervistate ma interrogate.

Io mi trovo in una posizione unica. Da un lato sono una vittima che ha perso la casa o che se l’è vista rubare dai coloni a Sheikh Jarrah. Dall’altro sono un giornalista, sono uno scrittore. Di tanto in tanto mi invita la Cnn, una volta sola a dire il vero. A quanto pare non sono mai invitato due volte dalla stessa rete.

Vorrei capire perché a volte mi danno il microfono. Forse perché mi presento bene? Perché parlo inglese con l’accento americano? Forse. Difendo cause pubbliche da anni, e a volte ho paura che non sia per il mio cervello ma per riempire una casella. Quando avevo undici anni ho partecipato a un documentario e sono stato invitato al parlamento europeo e al congresso degli Stati Uniti. Mi ricordo che andai in un negozio a Gerusalemme a comprare degli occhiali finti per avere l’aria intelligente. Sedevo sul podio al parlamento europeo e al congresso e non sapevo di cosa diavolo stessi parlando. Pensavo: “Wow, credono che sono tanto maturo e saggio”. Anni dopo, mi sono reso conto che non era vero.

Ale&Ale

All’apice dell’intifada dell’unità del 2021 sono stato contattato dagli uffici di vari senatori e deputati statunitensi, tra cui Chuck Schumer, che mi chiedevano – cito testualmente – se potevo “procurargli un bambino palestinese che racconti il suo sogno di cosa significa la pace”. Per tradurre la richiesta: l’unico palestinese abbastanza innocuo per sedere al loro tavolo era un bambino.

Il pubblico occidentale, come i suoi politici, non vuole avere a che fare con i palestinesi adulti, che con le loro critiche affilate potrebbero offenderli. E così carichiamo sui nostri bambini la responsabilità di dare occhi umani all’umanità. Inviamo delegazioni di bambini palestinesi al congresso degli Stati Uniti. Gli facciamo imparare a memoria presentazioni in PowerPoint sulla pace e la coesistenza, gli diciamo di mostrare immagini del loro sangue e dei loro arti amputati nella speranza che questo faccia cambiare idea agli statunitensi, che subiscono una forte propaganda quando non sono loro stessi grandi propagandisti.

Ancora una volta, lo so per esperienza diretta, perché l’ho fatto anch’io quando ero piccolo. Ma nemmeno io, evidentemente, sono una persona facile da digerire. Guardatevi intorno, ci saranno settemila poliziotti nei paraggi. Ci sono stati molti articoli, dichiarazioni e volantini di protesta contro questo discorso prima ancora che cominciasse. Sono pericoloso, a quanto pare.

Quindi, se a me non sempre danno il microfono, a chi lo danno? Sicuramente alla persona che stiamo omaggiando oggi, Edward Said, uno dei più illustri intellettuali pubblici del nostro tempo. Ebbene, perfino a Edward Said – a una persona della sua statura e della sua fama – a un certo punto il microfono è stato negato. Nel 2000 Said andò in Libano. Tirò, per usare le sue parole, “un ciottolo” in direzione di un posto di guardia israeliano alla frontiera. Scoppiò il finimondo. Edward Said non era più umano. Non parlava più la loro lingua. Il titolo di un articolo sul Columbia Daily Spectator diceva: “Edward Said accusato di lanciare pietre nel sud del Libano”. La Società freudiana di Vienna cancellò un suo intervento. Il Wash­ington Post pubblicò un articolo che si apriva dicendo che Said era “un po’ troppo corpulento, un po’ troppo distinto per tirare sassi ai soldati israeliani… È possibile che Edward Said… si sia unito alle file dei lanciatori di pietre palestinesi?”. Era già un articolo di forte condanna, ma per qualcuno non lo era abbastanza. Due autori risposero sul Daily Spectator: “Quell’incipit ci disturba, perché sembra sottintendere che l’atto di lanciare pietre a una frontiera internazionale verso civili e militari sconosciuti di un paese confinante sarebbe accettabile o almeno comprensibile se commesso da una persona qualunque più giovane, meno corpulenta o distinta”. Definivano il gesto “un atto gratuito di ordinaria violenza”.

Quindi, se perfino uno come Edward Said non sempre può ricevere il microfono, quali palestinesi hanno il diritto di parlare? Gli israeliani! Ogni tanto un politico israeliano se ne esce dicendo: “Vi daremo un’altra nakba, vi daremo un genocidio. Vi manderemo armi e bagagli in Giordania”. Oppure un soldato israeliano, che di notte non riesce a dormire perché si ricorda dei bambini che ha ucciso, fa un giro di conferenze negli Stati Uniti. O qualcuno cita Theodor Herzl, uno dei pionieri del sionismo, che nel 1895 scrisse: “Dobbiamo espropriare con gentilezza la proprietà privata sulle terre a noi assegnate. Proveremo a sospingere la squattrinata popolazione palestinese oltre le frontiere. Sia il processo di espropriazione sia il trasferimento dei poveri andranno messi in atto discretamente e con circospezione”. Scrisse anche: “Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, i paesi antisemiti i nostri alleati”.

Il mio esempio preferito è quello di Ze’ev Jabotinsky, uno dei fondatori dell’Irgun, il gruppo paramilitare sionista responsabile dell’attentato all’hotel King David di Gerusalemme nel 1946 e del massacro di Deir Yassin nell’aprile del 1948. Jabotinsky ha scritto che non c’è “un solo esempio di colonizzazione che sia stato portato avanti con il consenso della popolazione nativa. Le popolazioni native hanno sempre resistito testardamente ai coloni, che fossero civilizzate o selvagge”.

Noi – palestinesi, attivisti e giornalisti animati da buone intenzioni – siamo ossessionati da tutto ciò. Non vediamo l’ora di citare queste persone. I miei nonni hanno raccontato in modo viscerale i massacri atroci su cui è stato costruito lo stato sionista, ma le loro testimonianze non bastano. Servono le confessioni di un ex soldato o la tardiva, miracolosa epifania delle organizzazioni per i diritti umani perché il mondo ascolti. Per decenni i palestinesi hanno parlato di apartheid – ora neanche lo facciamo più – ma ci sono voluti decenni perché Human rights watch, Amnesty international e B’Tselem finalmente lo confermassero.

Quando ero piccolo, operatori e ricercatori dei diritti umani erano sempre ospiti in casa nostra. Gli mostravo le foto di mia nonna picchiata dai coloni per perorare la causa mentre loro, ogni venerdì, mangiavano maqluba al nostro tavolo. Io proponevo la mia analisi – “Secondo me sta succedendo questo” – ma loro non se ne facevano niente, quasi a dire: “Voglio le foto dei tuoi lividi, un campione del tuo sangue e annuncerò più tardi cosa sta succedendo”.

Di tanto in tanto i politici israeliani si fanno prendere la mano, vantandosi di uccidere gli arabi o promettendo ai palestinesi un’altra nakba. A volte un giornale sionista titola che “Israele è una colonia” e noi citiamo le loro parole all’infinito. Ma perché le loro parole hanno tanto peso? Perché concediamo l’autorità della narrazione a quelli che ci hanno ucciso e cacciato, quando la loro mancanza totale di senso di colpa fa sì che l’onestà non sarà mai garantita? Perché aspettiamo che a parlare siano quelli con i manganelli quando i nostri corpi pieni di lividi raccontano tutta la verità?

Io so che sono un nativo di Gerusalemme, non perché l’ha detto Jabotinsky, ma perché lo sono. So che i sionisti hanno colonizzato la Palestina, senza bisogno di citare Herzl. Lo so perché lo vivo, perché le rovine di innumerevoli villaggi spopolati forniscono la prova materiale di una pulizia etnica calcolata. Quando noi palestinesi parliamo di questa pulizia etnica continua e ignorata – che è insita nell’ideologia sionista – nel migliore dei casi ci appassioniamo, nel peggiore ci arrabbiamo e siamo pieni d’odio. Ma, in realtà, siamo solo narratori affidabili. Dico che siamo narratori affidabili non perché siamo palestinesi. Non è su una base identitaria che ci deve essere data, o dobbiamo prenderci, l’autorità di parlare. La storia ci dice che quelli che hanno oppresso, che hanno monopolizzato e istituzionalizzato la violenza, non diranno la verità, e tanto meno riterranno di dover rispondere delle loro azioni.

Gli ultimi anni sono stati interessanti per i palestinesi. Ci siamo seduti al tavolo, e a volte siamo perfino riusciti a guidare in qualche modo la conversazione. Abbiamo l’opportunità di cambiare la retorica, di cambiare il dibattito, di imprimere una svolta radicale al modo in cui l’opinione pubblica guarda alla Palestina e ai palestinesi. Sta a noi operatori culturali, produttori di conoscenza, accademici, giornalisti, attivisti, commentatori sui social network essere coraggiosi. Non è il momento di nasconderci dietro un dito o alle qualifiche. E per quelli che, come me, fanno i giornalisti, non si tratta nemmeno di essere coraggiosi. Si tratta di fare il nostro lavoro. Se il nostro lavoro è riportare la verità, dobbiamo riportare la verità.

Voglio dire un’altra cosa. Quando salgo sul palco, di solito scherzo molto. Scherzo di proposito, prima di tutto perché voglio credere di essere divertente. Ma c’è un altro motivo: da ogni palestinese che agisce in pubblico, specialmente da chi ha subìto la violenza israeliana, ci si aspetta che si comporti in un certo modo. Deve essere triste, con la testa china, piagnucoloso, debole e chiedere pietà. Deve esprimere con educazione la sua sofferenza. E questa è una cosa che io rifiuto totalmente. Io rifiuto la politica della vittima attraente. Non voglio compiacere nessuno. Posso sperimentare sulla mia pelle la farsa e la tragedia, subire una perdita profonda e comunque scherzarci sopra. Questo è lo spettro completo dell’umanità palestinese o dell’umanità in generale. Siamo umani non solo perché piangiamo quando perdiamo le nostre madri o quando perdiamo le nostre case o perché abbiamo animali domestici e hobby. Siamo umani perché proviamo rabbia e proviamo sdegno: perché resistiamo.

E io sono sinceramente grato del mio sdegno, perché mi ricorda che sono umano. Sono grato per la mia rabbia, perché mi ricorda la mia capacità di reagire naturalmente all’ingiustizia. Sono grato per l’opportunità di essere irriverente, di dileggiare e di mettere in ridicolo il mio impenetrabile, indelebile occupante. Perciò, mentre lasciate la sala, vi invito tutti a interrogarvi sui vostri pregiudizi, a chiedervi cosa vi spinge a voler qualificare l’umanità di un palestinese. E vi invito, ancora una volta, a essere coraggiosi. Grazie. ◆ fas

Mohammed el Kurd è uno scrittore e poeta nato a Gerusalemme. È il primo corrispondente dalla Palestina della rivista statunitense The Nation. Ha pubblicato la raccolta di poesie Rifqa (Fandango Libri 2022). Questo articolo è un adattamento del discorso tenuto a un evento in memoria dell’intellettuale palestinese statunitense Edward Said all’università di Princeton, negli Stati Uniti, nel febbraio 2023 e che diventerà un libro.

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati