Nei due anni in cui ha organizzato la 59a Biennale di Venezia – e in cui la pandemia ha fatto rinviare di un anno l’evento e centinaia di visite agli atelier si sono spostate su Zoom – la curatrice Cecilia Alemani, che vive a New York, ha visto cambiare il mondo intorno a sé. In questo periodo le persone sono state costrette ad affrontare problemi esistenziali legati al senso della vita, alle disuguaglianze e alla salute del pianeta. Ci sono stati momenti di paura distopica e momenti di reinvenzione carichi di speranza.

Alemani ha trasportato tutto questo nella sua Biennale (il più antico studio sull’arte contemporanea al mondo). La mostra sarà caratterizzata da una maggioranza di artisti di genere femminile e non binario, una scelta che riflette “un deliberato ridimensionamento della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali”.

Cecilia Vicuña, Leoparda de Ojitos (per gentile concessione dell’artista)

Il latte dei sogni

Gli artisti coinvolti affrontano temi legati all’ambiente, alla comunione con la natura, alla politica identitaria e all’attivismo ecologico. Saranno presenti artisti neri provenienti da Haiti, Senegal, Zimbabwe e dalla Repubblica Democratica del Congo. Più di 180 (su 213) non avevano mai partecipato alla Biennale, che aprirà al pubblico il prossimo 23 aprile per chiudere il 27 novembre con ottanta mostre nazionali nei Giardini (attorno al padiglione centrale), all’Arsenale e in altri luoghi della città. Camerun, Namibia, Nepal, Oman e Uganda parteciperanno per la prima volta.

Come a voler prendere le distanze dal mercato statunitense, perennemente alla ricerca del nome di tendenza, sono pochi gli artisti americani riconoscibili, e le rare stelle sono donne. Tra di loro Barbara Kruger, Nan Goldin, Louise Nevelson, Ruth Asawa e Simone Leigh, la prima nera a rappresentare gli Stati Uniti nel padiglione nazionale.

Claude Cahun, Self-portrait (the Jersey Heritage Collections)

Alemani, che dirige e cura l’High line art, il parco newyorchese interamente dedicato all’arte contemporanea, ha scelto come punto di partenza il libro per bambini _Il latte dei sogni _(Adelphi 2018) della pittrice surrealista Leonora Carrington. Storie di trasformazione, nate da figure dipinte sulle pareti della casa dell’artista a Città del Messico. “Carrington parlava del modo in cui definiamo la vita, di ciò che ci distingue dalle altre crea­ture. Possiamo immaginare un mondo in cui il corpo possa trasformarsi e diventare qualcos’altro?”, ha dichiarato Alemani in un’intervista.

La curatrice ha strutturato la Biennale intorno a tre temi. Il primo è la rappresentazione di come i corpi possano trasformarsi. Con una grande varietà di mezzi e tecniche, gli artisti “cercano di andare oltre le tele”, in alcuni casi con strumenti meccanici che interagiscono con varie forme di vita. Un video di Eglė Budvytytė mostra un gruppo di giovani persi nei boschi della Lituania; la svedese Britta Marakatt-Labba, artista e attivista sami, usa il ricamo per mostrare la natura innevata; la surrealista britannica Bridget Tichenor (1917-1990) crea immagini di realismo magico attraverso tecniche rinascimentali di pittura a tempera.

Il secondo tema è il rapporto tra gli individui e la tecnologia: “Il modo in cui la cultura affronta la tensione tra l’idea che la tecnologia possa rendere l’essere umano eterno e invincibile, e la paura che l’intelligenza artificiale e le macchine possano assumere il controllo della nostra vita”, spiega Alemani.

Merikokeb Berhanu, Untitled LVII (per Gentile concessione dell’artista)

Una paura rafforzata dalla pandemia, che ha evidenziato “quanto siamo mortali. In un’epoca in cui ci piacerebbe essere con gli altri e condividere con loro delle esperienze, tutti i nostri rapporti passano per uno schermo”. Un video realizzato dall’artista e regista Lynn Hershman Lee­son esplora la nascita degli organismi artificiali, mentre l’artista coreano Geumhyung Jeong evoca corpi robotici che possono essere riassemblati.

Il terzo tema è il legame tra i corpi e la Terra. In particolare Alemani spiega di essersi ispirata alla studiosa e teorica del femminismo Silvia Federici, che aveva immaginato un mondo senza gerarchia o dominio, un mondo in cui l’uomo non è in cima alla piramide, un pianeta caratterizzato da “simbiosi e incanto”. “L’idea dell’incanto è qualcosa che ritorna spesso”, prosegue Alemani. “Specialmente all’Arsenale, che in sé è una fabbrica del meraviglioso”.

Capsule del tempo

Molto importanti per Alemani sono cinque sezioni storiche che chiama “capsule del tempo”. “Mostre dentro la mostra”, il cui scopo è creare collegamenti e dare contesto. “Ero interessata a favorire un dialogo tra generazioni diverse”, sottolinea Alemani.

Queste capsule riuniranno le opere di novanta artisti che hanno lavorato soprattutto al novecento. Situata in una galleria all’interno del padiglione centrale, la prima delle cinque capsule comprende lavori di artiste d’avanguardia come Eileen Agar, Leonor Fini, Carol Rama, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Un’altra capsula s’ispira a Materializzazione del linguaggio, la prima retrospettiva storica di arte femminile presentata alla Biennale nel 1978, e comprende opere di poete visive capaci di esplorare il rapporto tra immagini e parole, come Mirella Bentivoglio, Mary Ellen Solt e Ilse Garnier (che ha 95 anni). Ci sono esperimenti come gli arazzi cuciti a mano dalla scrittrice surrealista francese Giséle Prassinos e le poesie in anagrammi di Unica Zürn.

Tra gli omaggi alle artiste che non sono più in vita ci sono quelli alla tedesca Hannah Höch, all’olandese Aletta Jacobs e all’egiziana Amy Nimr. “Non è solo un’esposizione di giovani artisti” spiega Alemani. “Una mostra come la Biennale di Venezia non può limitarsi agli ultimi due anni e all’ossessione per il nuovo”.

La curatrice sottolinea di essere interessata al “reinserimento” di tutti quelli che sono stati esclusi dal canone dell’arte contemporanea – le cui storie “non sono state raccontate” – come l’artista inuit Shuvinai Ashoona, il pittore sudanese Ibrahim El-Salahi e l’artista nativo venezuelano Sheroanawe Hakihiiwe.

Alemani è la prima donna italiana a organizzare la Biennale, e ha voluto includere molte artiste italiane come  Ambra Castagnetti, Giulia Cenci e Chiara Enzo per concedergli un riconoscimento atteso da tempo. “Questa mostra si trova in Italia, non a New York, e la discussione sull’identità di genere qui è diversa”, spiega Alemani. “Capisco che una mostra non può cambiare le cose, ma spero che abbia un valore simbolico. Se consideriamo la storia dei 127 anni della Biennale di Venezia, la percentuale di donne è drammaticamente bassa. Voglio dare spazio alle voci che in passato sono state messe a tacere”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1450 di Internazionale, a pagina 79. Compra questo numero | Abbonati