“Oltre a protestare devo mangiare, mantenere la famiglia e seguire le mie aspirazioni”, racconta Tenzin, un tibetano in esilio che ho incontrato nel settembre 2022 e che preferisce non svelare il suo nome per intero. Ha quasi sempre partecipato alla manifestazione che si tiene ogni anno il 10 marzo davanti all’ambasciata cinese a New Delhi per commemorare la giornata della rivolta tibetana, scoppiata nel 1959 contro la presenza cinese in Tibet.

Tenzin lavora per una multinazionale cinese e ha una competenza estremamente ricercata in India: conosce molto bene il mandarino. Ma è solo uno dei tanti tibetani che nel paese vivono la contraddizione di aver ceduto al richiamo di un posto di lavoro in aziende cinesi o che fanno affari con la Cina.

Un manifestante tibetano di fronte all’ambasciata cinese di New Delhi. India, marzo 2023 (Amit Dave, Reuters/Contrasto)

È difficile, infatti, non cogliere il paradosso dei tibetani in esilio che si guadagnano da vivere grazie a una lingua che, con l’occupazione del Tibet da parte delle truppe di Pechino, ha soppiantato con violenza la loro. Nel 1959, dopo la repressione della rivolta da parte della Cina, Tenzin Gyatso, il 14° dalai lama, e migliaia di tibetani chiesero asilo all’India. All’epoca il governo di New Delhi diede a questi il permesso di istituire varie organizzazioni per preservare la loro cultura e il loro stile di vita. A quel punto molte famiglie del Tibet occupato portarono clandestinamente i loro figli in India attraverso l’Himalaya, nella speranza di garantirgli una vita migliore sotto la guida del dalai lama.

Oggi, mentre le relazioni tra India e Cina continuano a peggiorare, soprattutto sul fronte geopolitico, sul piano degli scambi commerciali sembrano non esserci conseguenze. Nel luglio 2022 Anupriya Patel, ministra di stato indiana del commercio e dell’industria, ha informato la camera bassa del parlamento che nei cinque anni precedenti le importazioni dalla Cina erano aumentate di circa il 30 per cento. Questi scambi hanno bisogno di intermediari che padroneggino sia l’hindi sia il mandarino e che conoscano alla perfezione le abitudini e i modi di fare di entrambi i paesi. Un ruolo per cui i tibetani sono considerati candidati ideali.

Ma analizzare solo i fattori di attrazione senza includere quelli che spingono i tibetani a lavorare per le aziende cinesi, dà un quadro incompleto del fenomeno, e genera l’illusione che queste persone abbiano una possibilità di scelta, guidata unicamente da considerazioni di carattere economico.

“A causa di cambiamenti strutturali nel mondo del lavoro in India, i tibetani hanno molti limiti in campo professionale”, spiega Tashi Phuntsok, docente di economia al Vidyasagar college dell’Università di Calcutta. “Lo status di cittadini stranieri è una delle ragioni principali che li ha costretti a lasciare i loro insediamenti e ad accettare occupazioni saltuarie. E molti di quelli che conoscono il mandarino affidano la loro sopravvivenza alle multinazionali cinesi”. Di fatto, non avendo la cittadinanza indiana, i rifugiati tibetani non possono lavorare nel settore pubblico, e sono costretti a cercare impieghi nelle aziende private.

La lingua come arma

Un rapporto del 2021 del Tibetan action institute, un’organizzazione che fornisce strumenti digitali al movimento tibetano, fa luce sulle condizioni di vita degli abitanti del Tibet occupato. I bambini, separati con la forza dalle loro famiglie, sono portati in collegi cinesi e sottoposti a un’educazione molto politicizzata, principalmente in mandarino. Finita la scuola, sono costretti ad accettare lavori di basso livello a causa di un sistema che non gli offre altre possibilità. ll rapporto denuncia l’impatto dei collegi sui bambini tibetani e sulle loro famiglie, anche in termini di traumi psicologici ed emotivi, con “implicazioni che riguardano intere generazioni e la sopravvivenza dell’identità tibetana”.

In India le scuole tibetane hanno scelto il mandarino per combattere ad armi pari la colonizzazione linguistica. Ricordo i miei giorni al Tibetan children’s village, una comunità per la cura e l’educazione degli orfani e dei minori rifugiati dal Tibet che si trova a Bylakuppe, nel Karnataka, e più tardi al centro di Suja, nell’Himachal Pradesh, dove vivevano anche rifugiati di appena dieci anni. Per poterli ospitare fino a quando non avessero imparato il tibetano, le biblioteche della scuola offrivano in prestito libri e riviste in mandarino. Una volta cresciuti, quei ragazzi insegnavano il cinese ad altri alunni, con l’idea di usarlo come strumento di risoluzione del conflitto tra Tibet e Cina, soprattutto in vista del dialogo sinotibetano dei primi anni duemila. Ma quel dialogo si è interrotto nel 2012 e da allora non ci sono stati sviluppi significativi.

In generale i tibetani hanno avuto poche opportunità di mettere a frutto le loro competenze linguistiche. Non tutti, per esempio, possono essere assorbiti dall’Amministrazione centrale tibetana, il governo in esilio con sede a Dharamsala. Inoltre, nel 2020 la riforma dell’istruzione ha eliminato l’insegnamento del mandarino dall’offerta didattica delle scuole secondarie indiane. Si tratta di una mossa del tutto illogica in un paese in cui non ci sono strutture destinate all’insegnamento di quella lingua e che ha cominciato a proporre corsi di mandarino al personale dell’esercito solo negli ultimi sei anni.

I tibetani come Tenzin, che lavorano come mediatori in aziende cinesi o legate alla Cina, sono ancora una piccola minoranza rispetto alla forza lavoro indiana, che occupa posizioni di alto livello. Tenzin dice che non c’è una vera discriminazione, nemmeno da parte dei colleghi cinesi, ma, interrogato più a fondo, ammette che “tra noi rimane un certo risentimento”. Lo preoccupa soprattutto il modo in cui chi è esterno al settore considera il suo lavoro. Di recente poi alcuni tibetani sono stati messi in cattiva luce dai mezzi d’informazione per il loro coinvolgimento in truffe legate all’uso di app cinesi.

“Riconosco il potere attrattivo del denaro”, dice Tenzin Thinley, uno studente di scienze politiche alla Methodist university, negli Stati Uniti. “Ma è difficile capire come mai i tibetani siano disposti a lavorare in aziende cinesi con il pretesto delle loro conoscenze linguistiche. Credo che derivi dall’errata convinzione che qualcun altro si occuperà della questione tibetana mentre noi pensiamo ai nostri interessi. Un atteggiamento simile distrugge la natura della nostra lotta”. Questo è il punto di vista dei tibetani più giovani, che difendono la resistenza alle aperture cinesi nei confronti della loro comunità e desiderano tornare in patria.

“La sera fatico ad addormentarmi chiedendomi se il mio lavoro stia facendo più male che bene al Tibet”, confida Tenzin. “Di certo sostiene economicamente la mia famiglia. Sono combattuto. A ogni modo, faccio del mio meglio per seguire la situazione in Tibet”.

Per impegni di lavoro, quest’anno Tenzin non ha potuto partecipare alla protesta del 10 marzo. Lui, comunque, continua a discutere della questione tibetana con i cinesi su internet. “Il Tibet è la mia vita”, ribadisce. “Parlo il mandarino, ma non sono cinese. Continuo a pregare per un Tibet libero, Bhod gyalo!”. ◆ mf

Tenzing Dhamdul è un rifugiato tibetano e ricercatore alla Foundation for non-violent alternatives, un’organizzazione non profit con sede in India.

Da sapere
L’origine della diaspora

◆ Nel 1951 il dalai lama fu costretto a firmare un accordo in 17 punti che stabiliva l’annessione del Tibet alla Repubblica popolare cinese, nata due anni prima.
Fino ad allora il Tibet, in seguito alla caduta della dinastia Qing nel 1912, era rimasto di fatto indipendente per 39 anni. In teoria l’accordo garantiva l’autonomia della regione e il rispetto della religione buddista. Le autorità cinesi, però, non lo hanno mai rispettato pienamente.

◆ Il 10 marzo 1959 a Lhasa, la capitale del Tibet, scoppiò una rivolta contro il dominio cinese, repressa nel sangue. Il dalai lama e circa 80mila tibetani scapparono in India, stabilendosi a Dharamsala. Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati