Da qui alle elezioni vedrete molte mappe colorate degli Stati Uniti (come questa), quindi conviene fare un ripasso cromatico. C’è il rosso, che indica la vittoria sicura di Donald Trump in un certo stato, e il blu, a dirci che senza dubbio quello stato andrà a Kamala Harris. Poi ci sono tutte le sfumature nel mezzo: il rosso chiaro (la vittoria dei repubblicani non può essere data per scontata a livello statistico ma non è in discussione), il rosa (hanno un vantaggio insormontabile), il rosa pallido (sono avanti ma la partita è aperta); stesso discorso per i democratici, con sfumature che vanno dal blu al celeste chiaro.

Poi ci sono gli stati in cui il vantaggio di uno dei due candidati nei sondaggi è troppo piccolo per fare una previsione. Quegli stati vengono colorati di grigio e in alcuni casi vengono definiti viola (rosso + blu), posti dove repubblicani e democratici hanno un livello molto simile di consenso e quindi l’esito del voto è incerto.

Gli stati che si trovano in questa condizione non sono molti. Un tempo erano di più, ma di recente le dinamiche demografiche e la polarizzazione politica hanno fatto in modo che il grosso del paese si schierasse solidamente da una parte o dall’altra. Questo spiega perché i candidati e i commentatori si concentrano su pochi posti e su una porzione abbastanza ristretta dell’elettorato (gli Stati Uniti hanno 340 milioni di abitanti, mentre negli stati che probabilmente decideranno le presidenziali vivono circa cinquanta milioni di persone). E si possono capire molte cose sulla campagna elettorale e sulle scelte dei candidati vedendo cosa succede in quegli stati.

In settimana negli Stati Uniti si è festeggiato il labor day, la festa dei lavoratori, e Kamala Harris ha tenuto una serie di eventi elettorali in Pennsylvania, in Michigan e in Wisconsin. Ha rivendicato i risultati dell’amministrazione Biden a sostegno dei sindacati e per proteggere i posti di lavoro, e poi ha promesso che si opporrà all’acquisizione della U.S. Steel, uno dei più importanti produttori di acciaio del paese, da parte di un’azienda giapponese. Il fatto che Trump non abbia fatto tappe simili negli stessi giorni ha lasciato perplessi alcuni commentatori, ma anche lui ha visitato spesso quegli stati e lo farà molte volte da qui alle elezioni.

Secondo dati a ribasso perché risalenti a metà agosto, i comitati elettorali dei due partiti hanno speso complessivamente più di duecento milioni di dollari in quei tre stati, per eventi di vario tipo e annunci televisivi. A questo punto avrete capito che il Michigan, la Pennsylvania e il Wisconsin sono gli stati più decisivi tra quelli decisivi. Ma perché? Per rispondere bisogna dare un po’ di contesto economico e politico.

I tre stati sono parte di quell’area che generalmente viene chiamata rust belt, una regione vasta del nordest del paese che per molti anni è stata il cuore dell’industria pesante, e che poi ha pagato più di tutte, a livello demografico ed economico, la crisi causata dalla trasformazione dei modelli produttivi e dalla globalizzazione (su questo torneremo più avanti).

Muro blu

Dal punto di vista politico sono tre mattoni del cosiddetto “muro blu”, cioè il blocco dei 18 stati che hanno votato per il candidato democratico alla presidenza in tutte le sei elezioni dal 1992 al 2012. Alle elezioni del 2016 Trump riuscì a fare breccia nel muro democratico proprio vincendo, per soli 80mila voti complessivi, in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Nel 2020 Biden ricompattò il fronte e vinse, spuntandola in quei tre stati per 260mila voti in totale. Insomma, i democratici non possono più dare per certo nessuno di quegli stati (Hillary Clinton lo fece nel 2016 e ne pagò le conseguenze), che sono diventati a tutti gli effetti “viola”.

Si discute da tempo su cosa li renda così speciali e influenti. Sicuramente non il fatto di essere rappresentativi degli Stati Uniti. Prendiamo la quota di elettori senza un titolo di studio: alle elezioni del 2020 gli elettori bianchi senza laurea sono scesi per la prima volta al di sotto del 40 per cento a livello nazionale, ma hanno espresso più della metà dei voti in Michigan e in Pennsylvania e quasi tre quinti in Wisconsin. Oppure l’appartenenza etnica: quattro anni fa gli elettori delle minoranze hanno espresso circa tre voti su dieci a livello nazionale, più che in Michigan (1 su 5), in Pennsylvania (uno su sei) e in Wisconsin (1 su 10). In quei tre stati ci sono anche molti meno immigrati che nel resto del paese.

Queste dinamiche in teoria avrebbero dovuto tingere di rosso quegli stati che un tempo erano blu scuro – come nel caso dell’Ohio, in passato considerato lo stato decisivo per antonomasia – ma non è successo perché sono state bilanciate da altre tendenze. I democratici hanno beneficiato della crescita dei sobborghi intorno a città come Filadelfia, Detroit e Milwaukee – abitati in buona parte da persone benestanti con un titolo di studio più alto, politicamente moderate e attente a questioni come il diritto all’aborto – e dall’arrivo di tanti studenti in città universitarie come Ann Arbor (Michigan) e Madison (Wisconsin).

Dopo il disastroso risultato di Hillary Clinton nel 2016, i democratici hanno ricostruito il loro consenso in quegli stati, riuscendo a eleggere i governatori e a ottenere la maggioranza nei parlamenti statali, facendo emergere nuovi leader – come Josh Shapiro in Pennsylvania e Gretchen Whitmer in Michigan – che hanno indicato al partito una strada per essere competitivi in stati che ultimamente erano diventati il tallone d’achille della sinistra.

L’azione simultanea di forze contrarie ha fatto in modo che quegli stati restassero bloccati nel mezzo, colorandoli di viola, mentre quasi tutti gli altri si spostavano rapidamente a destra o a sinistra. E visto che sono simili tra loro per caratteristiche demografiche ed economiche, tendono a votare in blocco alle elezioni presidenziali. Come ha scritto Ronald Brownstein sull’Atlantic, “hanno scelto lo stesso partito in tutte le elezioni presidenziali dal 1980, con l’unica eccezione del 1988”.

Questo è forse l’elemento che più di tutti contribuisce al loro peso. Per vincere le elezioni bisogna arrivare a 270 grandi elettori (qui un ripasso rapido). Considerati gli stati non in discussione, Harris parte da 224, Trump da 221. Sommando i 44 grandi elettori di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, entrambi sarebbero molto vicini al numero magico. Naturalmente non è scontato che anche stavolta i tre mattoni si tingano dello stesso colore (bastano poche migliaia di voti per spostare il risultato da una parte o dall’altra), ma la tendenza storica basta per convincere i candidati a concentrare lì la maggior parte delle loro energie e risorse.

Torniamo alla globalizzazione. Non si può capire lo scricchiolio di quella parte del muro blu senza valutare gli effetti dei trattati commerciali stipulati dagli Stati Uniti a partire dagli anni novanta, in particolare l’Accordo nordamericano per il libero scambio con Canada e Messico (Nafta). Giorni fa se ne è occupato il New York Times.

L’articolo comincia raccontando la vicenda della Master Lock, una storica azienda di lucchetti Milwaukee, in Wisconsin, che a marzo ha chiuso i battenti. “L’episodio rappresenta la fase finale del lungo disfacimento di Milwaukee come potenza industriale, parte di un fenomeno più ampio, alimentato dal Nafta, che ha avuto effetti in tutto il paese, in particolare negli stati della rust belt. Il Nafta ha eliminato i dazi sul commercio tra Canada, Messico e Stati Uniti, consentendo la libera circolazione dei capitali e degli investimenti stranieri. Ha inaugurato un’era di accordi di libero scambio che hanno portato beni a basso costo ai consumatori e generato grande ricchezza per gli investitori e il settore finanziario, ma ha anche aumentato la disuguaglianza di reddito, indebolito i sindacati e accelerato lo svuotamento della base industriale americana”.

Nel 2016 Donald Trump vinse in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania cavalcando l’indignazione contro il Nafta, e indicò una strada che poi sarebbe stata percorsa da tanti altri partiti in tutto il mondo occidentale. Una piattaforma politica basata sugli appelli contro la globalizzazione, su un apparente (e spesso finto) sostegno ai programmi sociali e sull’odio nei confronti degli immigrati.

Queste dinamiche di riflesso hanno stravolto anche le politiche del Partito democratico, che negli anni ha rinnegato il sostegno ai trattati di libero scambio, nel tentativo di fermare l’emorragia di consensi tra quegli elettori che un tempo erano lo zoccolo duro della sua base elettorale. Biden ha confermato molti dei dazi alle importazioni imposti da Trump, e ha avviato una politica industriale che prevede grandi investimenti nell’energia pulita, nei programmi di assistenza sociale e nel settore manifatturiero. Anche Kamala Harris e il suo vice Tim Walz sono da tempo su questa linea. Nel 2020 Harris fu tra i dieci senatori che votarono contro un nuovo accordo tra Stati Uniti, Messico e Canada, mentre Walz ha votato contro il trattato di Partenariato Trans-Pacifico.

Si capisce quindi perché tutti – Harris, Biden, Trump – si oppongono all’acquisizione della U.S. Steel da parte di un’azienda giapponese. E c’è da aspettarsi che nei prossimi eventi, a cominciare dal dibattito televisivo di martedì (organizzato proprio in Pennsylvania), sentiremo i due candidati parlare di lavoratori, industria e commercio.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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